Una riflessione sulle implicazioni della disintegrazione del corpo in un’ipotetica esistenza solo digitale, a partire dall’opera Living Doesn’t Mean You’re Alive di Kumbirai Makumbe. Cosa succederà alla nostra capacità di sentire?

 

Commissionato nel 2021 per la mostra online Control the Virus vol. 3, a cura dei collettivi online DATEAGLE ART e HERVISIONS, Living Doesn’t Mean Your’re Alive è un’esperienza digitale introspettiva attraverso cui l’artista zimbabwiano Kumbirai Makumbe riflette sulle implicazioni derivanti dalla perdita del corpo, un fenomeno che caratterizza progressivamente l’era digitale attuale. Protagonista è un ex-umano diventato infomorph, un corpo di informazione virtuale senziente. Questo processo di metamorfosi o, come lo chiama l’artista, di ascesa da corpo biologico a entità biologica codificata, era stato inoltre ricostruito in It Was A Mix of Things, un’installazione multimediale realizzata nel 2020 come tentativo di elaborare una politica della trascendenza, in contrapposizione con l’odierno utilizzo scoraggiante della tecnologia intesa come strumento di potere, controllo e sorveglianza.

La simulazione si articola attraverso quattro stanze o ambienti che danno forma al processo catartico dell’infomorph: la prima è dedicata al dolore in senso biologico, inteso come elemento vitale per la sopravvivenza; la seconda affronta il tema dell’incorporazione (embodiment) e richiama l’esperienza erotica del corpo; la terza si rifà alla distruzione del corpo, interpretata anche come disintegrazione universale e atto di resistenza; infine, la quarta e ultima stanza rievoca una dimensione angelica dell’esistenza. Con quest’opera, Makumbe mette in luce la complessità emotiva di un processo trasformativo che implica la rinuncia cieca di uno degli aspetti cardine dell’esistenza umana, ovvero l’essere legati a un corpo e ai suoi limiti. Interrogandosi sulle motivazioni che spingono un essere umano ad abbandonare il proprio corpo per divenire un’entità disgregata nella dimensione digitale, l’artista ci ricorda che non esiste una totalità unica e coerente, ma che il mondo e gli esseri umani sono pieni di contraddizioni e che ogni cambiamento è un processo lungo, non definitivo e non lineare, che presenta infinite sfumature. Fin dai primi sviluppi della società industriale, filosofi e scienziati orientarono la coscienza collettiva verso la possibilità di progresso infinito, ergendo un sistema di pensiero sulle fondamenta delle qualità razionali dell’uomo, su una presunta lotta tra intelligenza e sensibilità, da cui a uscirne vincente è stata la prima. La posizione dell’artista si pone in contrasto con la pretesa transumanista di sublimazione cibernetica dell’essere umano in un’ottica di costante potenziamento e infallibilità, rimarcando invece i sacrifici, il potenziale emancipatorio e, appunto, catartico della scorporazione. Non esiste perfezione, tanto meno nella sfera digitale.

L’esperienza in Living Doesn’t Mean You’re Alive ha inizio con le seguenti parole: «Dopo l’emancipazione arriva la gioia della libertà a cui un tempo anelavi… Non ho mai pensato a cosa avrei perso venendo qui» (trad. mia). Un’entità amorfa di nome Xeno racconta le implicazioni dovute al non avere un corpo: non poter provare dolore, ma nemmeno il calore umano della vicinanza di altre persone. Attraverso il suo racconto, Xeno esplora le motivazioni che alimentano l’aspirazione a emanciparsi dal corpo biologico. Credo che ciò che ci spinge a voler perdere i nostri corpi e dissolverli nella dimensione digitale è un desiderio o una necessità di fuga: scappare in un altro posto, in un posto altro. In altre parole, cercare una condizione esistenziale migliore, che non faccia male, in cui sentirci a nostro agio e dove si può risolvere il malinconico confronto interno tra l’attuale e il potenziale, in un momento in cui non riusciamo più a credere nella realtà. Nella fretta di lasciarci alle spalle il dolore, però, ci dimentichiamo la bellezza che possiamo rintracciare nello stato delle cose attuale e nella tridimensionalità dell’esperienza analogica, di ciò che è prezioso e confortante anche nel disastro, nella disonestà e nella disuguaglianza. Dimentichiamo la vitalità del tatto, del toccare e dell’essere toccati, dei sapori e degli odori, ma soprattutto, di cosa significa sentire. Alla riduzione cartesiana di un sé basato sull’abilità intellettiva dell’essere umano (e di alcuni esseri umani più di altri) vogliamo contrapporre un sé fondato sulla capacità di percepire, sulla sensorialità, sulle sensazioni e le emozioni. A un corpo oggetto opponiamo un corpo vivo, capace di accogliere anche il dolore e la vulnerabilità.

 

Sensibilità > intelligenza. Sensazione > computazione. 

«Sento quindi sono» (Berardi, 2019). 

 

Riflettendo su cosa verrebbe meno se abbandonassimo i nostri corpi, scopriamo che cosa ci mancherebbe di essi, quindi ciò che ci è caro e che vorremmo proteggere. Senza respingere la tecnologia, prepariamoci a modellarla rispettando ciò che ci sta a cuore. Siamo ancora in grado di gestire l’universo virtuale, di accoglierne le contraddizioni senza esserne sopraffatti. Pensando alla digitalizzazione del corpo è semplice concentrarsi sulle novità, su ciò che si ottiene – superamento dei confini del corpo, abbandono delle fragilità a esso legate, possibilità di esplorazione di una dimensione nuova, più veloce ed efficiente – trascurando così ciò che senza il corpo si perde. Siamo esseri senzienti connessi a una dimensione materiale (sensibile) dell’esistenza e la nostra percezione della realtà è inevitabilmente legata a un altro fenomeno chiave della vita, ossia la morte. Bisogna fare attenzione a non cadere nel tranello della società dell’informazione, «con le sue patologie sterministe di astrazione finale dalla vulnerabilità» (Haraway, 2018, p. 169). Anelare all’immortalità significa separare l’intelligenza dalla materia che la contiene, il software dall’hardware. Disfarsi di tutto ciò che dell’essere umano è mortale, vale a dire il corpo, per diventare macchina, oggetto. Trasformare la propria esistenza in dati che andranno a formare un’intelligenza artificiale designata come proprio sostituto nella posterità1 . E così Kumbirai Makumbe ci avverte fin dall’inizio: Living Doesn’t Mean You’re Alive, “Vivere non significa essere vivi”. Per essere immortali secondo questa prospettiva bisogna rinunciare al corpo, ma anche alla vita. Xeno invece è la nostra alternativa.

Nella seconda stanza Xeno sembra essersi antropomorfizzato, con forme che ricordano parti umane e galleggia in una galassia sconosciuta assieme a esseri simili, proiezioni di ciò che potremmo diventare. Queste sagome sospirano, si contorcono e, pur essendo statiche, sembrano dimenarsi in un movimento di piacere, reminiscenza nostalgica del calore che deriva dalla prossimità e dal contatto tra i corpi. A uno sguardo più attento, queste creature e tutta la scena ricordano una visione microscopica di qualche virus o batterio. Magari si tratta delle cellule del nostro essere virtuale, di qualche materiale organico, ma come potrebbe esserlo? Piano piano iniziano a figurarsi come una sequenza genetica, un DNA alieno. Ci sono delle forme trasparenti che fluttuano nello schermo e ci accompagnano attraverso tutta l’esperienza, “incarnazione” del virtuale nel virtuale, raffigurazione della «equazione di Spazio esterno e Spazio interno» dell’esistenza (Haraway, 2018, p. 180). Sono entità fluide, amorfe anche loro, nel mezzo di un processo di “queerizzazione digitale”, una metamorfosi continua alla scoperta di «inedite modalità dell’essere» (Patti, 2023) ancora inesplorate a cui assistiamo in diretta, meditando sul significato dell’abitare sessualmente un corpo.

Questo processo di de-incarnazione non è un fenomeno nuovo e segue una parabola parallela al perfezionamento delle tecnologie cibernetiche e allo sviluppo di quelle digitali. A cominciare dalle narrazioni fantascientifiche popolate da robot androidi e dai cyborg – organismi cibernetici concepiti come la fusione tra essere umano e macchina in un perfezionamento complementare e reciproco –, culminate nel movimento cyberpunk, la componente più tecnico-meccanica è poi andata via via evaporando in una nuvola di dati  (Cfr. Caronia, 1996). D’altronde, nella condizione in cui viviamo, il corpo per come lo conoscevamo si è già smaterializzato in una serie di flussi elettronici d’informazione, «dalle transazioni bancarie, alle biotecnologie mediche, fino alle più svariate forme di comunicazione spersonalizzata» (Braidotti, 1991, in Haraway, 2018, p. 18). Il corpo nel mondo e il mondo nel corpo. Forse stiamo arrivando al culmine del processo di atomizzazione della società in cui viviamo: da comunità forti e coese a individui, fino a non essere più nemmeno quello, bensì personalità digitali, dispersi in una dimensione virtuale, senza corpi. Forse non si tratta di perfezionamento dell’essere umano o di raggiungimento dell’immortalità. Forse è proprio una questione di sopravvivenza. 

«Non tutto può essere riparato, alcune cose devono essere distrutte» (Makumbe, 2021).

Alcuni corpi sono da sempre bersaglio di soprusi, discriminazioni e violenze, disumanizzati e considerati al pari di oggetti inanimati. Sono «gente che ha corpo perché non è concesso loro di non avere corpo» (Haraway, 2018, p. 113). Sono gli altri, in una condizione di alterità prodotta artificialmente secondo la dicotomia soggetto che guarda / oggetto dello sguardo e quindi oggetto di conoscenza. Conoscenza che però non arricchisce chi la produce, bensì chi la possiede. Queste persone, oggettificate perché fisicamente diverse da chi detiene il potere, diventano dei simulacri del contemporaneo, poiché incorporano su di sé i segni del potere (Bazzichelli, in Caronia, 2015, p. 12). 

Il cyborg prima e il soggetto digitale oggi sono i punti cardine della riflessione politica in una società in cui la tecnologia e il suo rapporto con il corpo assumono un ruolo cruciale. Dissolversi in un flusso d’informazione, dunque, porta con sé delle potenzialità politiche, in quanto capace di liberare questi corpi e trasformarli da oggetti a soggetti vivi. L’emancipazione dal corpo fisico può significare rivendicazione di un’identità e superamento del concetto di alterità. La dimensione materiale dei corpi che si trovano in una posizione di alterità li rende vulnerabili, esposti all’invasione. E in questo contesto la potenza guaritrice del tatto può essere annullata e trasformata in un atto di brutalità. Questo avviene perché «senza libertà non può esserci amore» (Spillers, 2018). L’assoluzione del corpo dà vita a nuove forme di soggettività libere dalle ideologie violente figlie del colonialismo e dell’eurocentrismo, libere dalle discriminazioni. È una distruzione, anzi un’autodistruzione trascendente che può rispondere all’esigenza di emancipazione da un corpo biologico specifico o di liberazione dall’esperienza di abitare questo corpo in condizioni di oppressione. Dopo aver esplorato le emozioni, talvolta conflittuali, che si attraversano durante una trasformazione così radicale, nella seconda parte dell’opera Xeno, nuovamente disgregato in un pulviscolo di particelle digitali, ne ribadisce dunque con vigore la necessità e l’urgenza concentrandosi sull’importanza dell’autodeterminazione e dell’affermazione del sé. 

Le parti di somiglianza antropomorfa delle creature incontrate in precedenza sono disassemblate e sparse per il terzo ambiente vagamente subacqueo, oscillanti intorno a Xeno nella sua nuova forma polverosa, concentrata in un nucleo centrale. Fluidificarsi nella dimensione digitale rappresenta anche un processo autoconoscitivo, di riaffermazione del senso di essere vivi, creazione di legami e riscoperta di ciò che ci rende umani:

Il “corpo” […] è il sito di una duplice conoscenza: da un lato è soltanto un concetto empirico, un organismo vivente, inteso come la somma delle sue parti organiche e quindi staccabili, un campo complesso di organi integrati la cui interazione si spiega nei termini delle loro rispettive funzioni. […] D’altra parte, il corpo non può essere ridotto alla somma dei suoi componenti organici: continua a essere la soglia della trascendenza del soggetto […]: il corpo come superficie libidinale, campo di forze, schermo di proiezioni immaginarie, sito della costituzione dell’identità (Braidotti, 1991, in Haraway, 2018, p. 15).

Ed è con questa consapevolezza che veniamo catapultati nell’ultima stanza, un luogo completamente diverso dai precedenti. Immerso in una sorta di liquido amniotico giallo, un seme trasparente o forse un uovo gigante ospita al suo interno la forma incorporea di Xeno. Le sagome attorno rievocano le figure delle pitture rupestri degli uomini preistorici: passato, presente e futuro  convergono in un’unica immagine. Questa stanza illustra il superamento finale di tutte le controversie legate alla smaterializzazione corporea e incarna la consapevolezza di una nuova soggettività ormai acquisita dall’infomorph, «un grumo temporaneo, di una densità appena sufficiente a garantire una parvenza di identità, destinato a sciogliersi e a riformarsi, ogni volta diverso, in quel paesaggio che, adesso lo vediamo, non è che un flusso di informazioni continuo, dinamico, sempre al confine fra stabilità e instabilità» (Caronia, 1996). Da essere cupa e oscura come nelle altre stanze, l’atmosfera qui diventa inaspettatamente più allegra e distesa. È come se proseguendo ci sentissimo più leggeri, come se lentamente stessimo perdendo corpo e forma anche noi, smaterializzandoci. Infine, compare un oggetto simile a una bussola, a indicarci la direzione in questa nuova dimensione spazio-temporale extracorporea. La metamorfosi è terminata, lasciandoci un messaggio di speranza verso un’esperienza digitale nuova e possibile, diversa dalla vita di tutti i giorni, in cui poter vedere, ascoltare, ma anche sentire in maniera differente, oltre la sofferenza, gli abusi e la violenza. Passiamo a uno stato fluido, tra l’essere e il non-essere, in una «fantomatica non-esistenza» (Barad, 2012, p. 646 in Patti, 2023) pienamente virtuale in cui i contrasti dialettici e l’alterità non hanno più rilevanza. 

 

Note 

 1 Si veda, ad esempio, la modalità Live Forever nel Metaverso, in via di sviluppo da Somnium Space che, attraverso una cospicua raccolta di dati e informazioni personali, sarà in grado di ricreare un avatar identico alla persona originale in grado di vivere ed evolversi per sempre: https://www.vice.com/en/article/pkp47y/metaverse-company-to-offer-immortality-through-live-forever-mode

 

 

 

Sentient Beings 2.0. Kumbirai Makumbe, Living Doesn’t Mean You’re Alive.

 

In a hypothetical digital-only existence, after our bodies have been abandoned, what will be of our ability to feel? A reflection sparked by the work Living Doesn’t Mean You’re Alive by Kumbirai Makumbe.

 

Living Doesn’t Mean You’re Alive was commissioned to Zimbabwean artist Kumbirai Makumbe in 2021 for the online exhibition “Control the Virus vol. 3”, curated by DATEAGLE ART and HERVISIONS. This introspective digital experience opens to a reflection on the implication of losing the body, an increasingly common phenomenon in the current digital era. The protagonist of this journey through human and more-than-human consciousness is a former human being who’s become an infomorph – a conscious and sentient virtual body of information. This metamorphosis process, or as the artist calls it, this ascension from biological body to coded biological entity, was illustrated in It Was A Mix of Things (2020), a multimedia installation trying to develop a “politics of transcendence” that could counterpoint today’s daunting use of technology as a tool for power, surveillance and control. 

The simulation unfolds through four “rooms” illustrating the infomorph’s cathartic experience: the first one is dedicated to pain and its vital importance for survival (from a biological perspective); the second speaks of embodiment and of the erotic experience of the body; the third room brings up the destruction of the body, as universal disintegration and an act of resistance; finally, the fourth room evokes an “angelical dimension of existence.” With this work, Makumbe sheds light on the complexity of this transformative process, which implicates a blind renunciation to a pivotal aspect of human existence, that is being tied to a body and its physical limitations. While exploring the motives that push a human being to abandon their own body to metamorphose into a disjointed entity in the digital dimension, they remind us of the impossibility of a coherent, unique totality, that the world and human beings are full of contradictions and that change is a long, non-linear and highly-nuanced process. Since the first developments of industrial society, philosophers and scientists have oriented the collective consciousness towards the possibility of infinite progress, carving a system of thought out of man’s rational abilities and out of the prevalence of intelligence over sensibility. Their stance is at odds with the transhumanist presumption of a cybernetic sublimation of the human being aspiring to perpetual enhancement and infallibility, and stresses the sacrifices but also the emancipatory potential of a dis-embodied catharsis. Perfection does not exist, even less so within the digital sphere.

The experience in Living Doesn’t Mean You’re Alive starts with the following words: «After emancipation comes the joy of the freedom you once yearned for… I never thought about what I’d lose coming here.» An amorphous entity named Xeno recounts the implications of not having a body: pain is impossible to feel, but so are human warmth and proximity. While narrating, Xeno explores what fuels this aspiration to emancipate from the biological body. When we desire to lose our bodies and dissolve in the digital dimension, I think we are driven by the wish, or necessity, to escape. To run away, to a different place, an other place. In other words, to look for better existential conditions that won’t hurt us, where we feel good; someplace where we could resolve the melancholic conflict between the actual and the potential that exists because we cannot believe in reality anymore. However, while we hurry to leave pain behind, we forget the beauty that we can find in the current state of things and in the three-dimensional quality of the analogue experience, of what is precious and offers comfort even amidst disaster, dishonesty and inequality. We forget about the vitality of touch, of touching and being touched, of flavours and scents, but most importantly, of what it means to feel. To the Cartesian reduction of the self based on the intellectual capacity of human beings – and of some more than others – we oppose a self based on the ability to perceive, on emotions and sensations. To an object-body, we counter with a body alive, able to embrace pain and vulnerability. 

 

Sensibility > intelligence. Sensation > computation.

«I feel therefore I am» (Berardi, 2019).

 

Reflecting on what would be lost if we abandoned our bodies, we spot what we’d miss about them, what we care about and wish to protect. Without pushing technology away, let’s be ready to shape it while respecting what we hold dear. We can still handle the virtual universe and welcome its contradictions without being overwhelmed. When thinking about the digitisation of the body, it’s easy to focus on what it would add to our lives – the overcoming of the limits of the body, the abandonment of its frailties, the possibility to explore a new, faster, more efficient dimension, etc. – thus neglecting what it would take away from us. We are sentient beings, connected to materiality (through sensibility), and our perception of reality is inextricably linked to another critical element of existence: death. Information society sets a tricky trap «with its exterminist pathologies of final abstraction from vulnerability» (Haraway, 2018, p. 169)1 . Yearning for immortality implies separating intelligence from the matter that contains it, the software from the hardware. To discard all that is mortal in human beings, hence the body, to become a machine, an object. To turn one’s existence into data that will later train an artificial intelligence, one’s designated legitimate heir and substitute in posterity 2 . Kumbirai Maumbe warned us from the beginning: “Living doesn’t mean you’re alive.” From this perspective, to be immortal, we would have to give up our body and, in a sense, our life too. Xeno shows us an alternative.

In the second room, Xeno appears to have become anthropomorphic, with forms recalling limbs and human parts while hovering in an unknown galaxy with other similar beings, projections of what we could become. These figures sigh, squirm and, even if they appear to be static, writhe with a movement of pleasure, a nostalgic reminiscence of the warmth of proximity and contact between bodies. To a deeper look, these creatures and the whole scene resemble a microscopic vision of some virus or bacteria. Perhaps it is the cells of our virtual being, of some organic material, but how could it be so? Slowly, they start to look like genetic sequences, alien DNA. Transparent forms floating around the screen accompany us through this whole experience, “embodying” the virtual within the virtual, a representation of the «equation between external Space and internal Space» of existence (Haraway, 2018, p. 180)3 . They’re fluid amorphous entities, in the midst of a process of “digital queering,” a continuous metamorphosis to discover unprecedented ways of being (Patti, 2023), that we witness live while meditating on the meaning of sexually inhabiting a body.

This process of dis-incarnation is not a new phenomenon and follows a trajectory parallel to the refinement of cybernetic technologies and the development of digital ones. First appearing in science-fiction narratives inhabited by android robots and cyborgs – cybernetic organisms merging the human and the machinic in complementary and mutual perfection – and culminating in the cyberpunk movement, the technical-mechanical element progressively vanished in a cloud of data4 . After all, in our current condition, the body as we knew it has already dematerialised in a series of electronic streams of information, «from monetary transactions, to medical biotechnologies, until the most disparate forms of depersonalised communication» (Braidotti, 1991, in Haraway, 2018, p. 18)5 . The body in the world and the world in the body. Perhaps we are reaching the peak of society’s atomisation process: from close-knit, strong communities, to individuals, to not even that anymore, but rather digital personalities dispersed in a virtual dimension, bodiless. Perhaps it is not about perfecting the human being or gaining immortality. It might just be a matter of survival.

 

«Not everything can be fixed, some things need to be destroyed.» (Makumbe, 2021)

 

Certain bodies have always been the target of abuse, discrimination and violence, dehumanised and objectified. They are «people who have a body because they are not allowed not to have one» (Haraway, 2018, p. 113)6 . They are the “others,” in a position of alterity artificially produced along the dichotomy subject watching/object of the gaze and therefore object of knowledge. However, this knowledge does not enrich its producers but those who own it. These people, who are objectified because physically “different,” become simulacra of the contemporary since they embody the signs of power (Bazzichelli, in Caronia, 2015, p. 12). The cyborg at first and the digital body now are the subjects of political reflection in a society where technology and its relationship to the body take on a crucial role. Hence, dissolving in an informational flux brings about political potentialities of incredible scope, enabling these bodies to liberate themselves and transform into living subjects. Emancipation from the physical body can mean reclaiming an identity and overcoming the concept of alterity altogether. The material dimension of bodies in a condition of alterity makes them vulnerable and exposed to invasion. It can cancel the healing power of touch, turning it into an act of brutality, since «without freedom, there can be no love.»7 . The absolution of the body gives life to new forms of subjectivity that are free from violent ideologies of colonialist and Eurocentric descent, free from discrimination. It is a destruction, or rather a transcendent self-destruction, responding to the necessity of being release from a specific biological body, or of liberation from the experience of inhabiting this certain body under oppressive conditions. After an investigation into the often conflictual emotions embroiled during such a radical transformation, in the second part of the work a newly fragmented, digitally-particled Xeno energetically reaffirms the imperative and  urgency of this process, focussing on the importance of self-determination and affirmation.

The anthropomorphic-looking parts of the creatures encountered earlier now appear disassembled, scattered around this seemingly underwater third environment and fluctuating around Xeno in their new powdery form, concentrated in a central nucleus. To fluidify into the digital dimension represents a process of self-discovery, to make us retrieve the meaning of being alive, of creating bonds and to recover what makes us human:

«The “body” […] is the site of a double knowledge: on one side, it is only an empirical concept, a living organism, conceived as the sum of its parts, organic and therefore detachable, a complex field of integrated organs whose interaction is explained in terms of their respective functions. […] On the other side, the body cannot be reduced to the sum of its organic components: it continues being the threshold of the transcendence of the subject […]: the body as libidinal surface, force field, screen of imaginary projections, site of the construction of identity» (Braidotti, 1991, in Haraway, 2018, p. 15)8 ».

With this awareness, we slide into the last room, a space completely different from the previous ones. Immersed in a yellow amniotic fluid, a transparent seed or a giant egg holds Xeno’s incorporeal form. All around it, oscillating silhouettes recall the figures of prehistoric cave paintings: past, present and future converging in a single image. This room depicts the ultimate surpassing of all controversies linked to corporeal dematerialisation. It embraces the infomorph’s new consciousness, «a temporary lump, barely dense enough to guarantee a semblance of identity, destined to dissolve and reform, each time different, in that landscape which – as we now see it – is nothing but a continuous, dynamic flow of information, always on the borderline between stability and instability» (Caronia, 1996)9 . The atmosphere inadvertently changes from dark and obscure to be more lively. It is like we feel lighter, like we are slowly letting go of our body and form too, dematerialising. Finally, there is an object that looks like a compass, to help us find the direction in this new extracorporeal spatiotemporal dimension. The metamorphosis is complete, leaving us a message of hope for the possibility of newly experiencing the digital in a way different from everyday life, in which we can see, hear and feel differently, beyond sufferance, abuse and violence. We shift to a fluid state, between being and being-not, in a complete virtual «phantom non-existence» (Barad, 2012, p. 646 in Patti, 2023), where dialectic conflicts and alterity don’t matter anymore.

 

Notes

1 My translation. 

2 See, as an example, “Live Forever” mode on the Metaverse: thanks to a copious amount of data and information during one’s life will be able to recreate an avatar identical to the original person, even able to evolve and “live forever”. It is currently under development by Somnium Space. See for reference: https://www.vice.com/en/article/pkp47y/metaverse-company-to-offer-immortality-through-live-forever-mode

3 My translation.

4 See: Antonio Caronia, Il corpo virtuale. Dal corpo robotizzato al corpo disseminato nelle reti. [The virtual body. From the robotic body to the dispersed body]. Padova, Franco Muzzio Editore, 1996.

5 My translation.

6 My translation.

7 Hortense Spillers, 2018.

8 My translation.

9 My translation.

 

 

Bibliografia

Baer, H. (2016), “Redoing feminism: digital activism, body politics and neoliberalism”, Feminist media studies, 16(1), pp. 17-34. Doi: https://doi.org/10.1080/14680777.2015.1093070.

 Berardi, F. (2019), “(Sensitive) Consciousness and Time: Against the Transhumanist Utopia”, e-flux, #98. Disponibile su: https://www.e-flux.com/journal/98/257322/sensitive-consciousness-and-time-against-the-transhumanist-utopia/.

 Caronia, A. (1996), Il corpo virtuale. Dal corpo robotizzato al corpo disseminato nelle reti. Franco Muzzio Editore, Padova.

Caronia, A. (2015), The Cyborg. Terza edizione, tr. ing. Robert Booth. Meson press [Titolo originale: Il Cyborg: saggio sull’uomo artificiale, 2011, terza edizione. ShaKe edizioni, Milano].

Durante, E. (2023), “Divenire altro: il postumano contemporaneo”, KABUL Magazine, PLANARIA – Part I. Disponibile su: https://www.kabulmagazine.com/divenire-altro-il-postumano-contemporaneo/?type=magazine.

Floridi, L. (2022), “Metaverse: A Matter of eXperience”, Philosophy & Technology September 2022. Disponibile su SSRN: https://papers.ssrn.com/sol3/papers.cfm?abstract_id=4121411.

Haraway, D. (2018 [1991]), Manifesto Cyborg. Donne, tecnologie e biopolitiche del corpo. Edizione digitale. Giangiacomo Feltrinelli Editore, Milano.

Murano, J. (2021), “Pratiche onlife di incorporazione”, KABUL Magazine, Linguaggi – Part I. Disponibile su: https://www.kabulmagazine.com/pratiche-onlife-di-incorporazione/?type=magazine.

 Patti, F. (2023), “Performatività posthuman e dinamiche del Metaverso: A Matter of eXperience”, KABUL Magazine, PLANARIA – Part I. Disponibile su: https://www.kabulmagazine.com/performativita-posthuman-e-dinamiche-del-metaverso-a-matter-of-experience/?type=magazine

Studium Generale Rietveld Academie (2018) To the Bone: Some Speculations on Touch, Hortense Spillers. 27th June. Disponibile su: https://youtu.be/AvL4wUKIfpo.

 

 

Bio:

Jael Arazi è una curatrice e creativa originaria di Milano. Dopo essersi diplomata in Pittura e Arti Visive alla NABA di Milano, si è trasferita a Londra, dove ha conseguito un MFA in Curating alla Goldsmiths University. È co-curatrice del progetto multidisciplinare In Lucid Dreams We Dance, sostenuto dall’Italian Council (2022), che comprende un programma di eventi e la pubblicazione di una zine sui temi della condivisione, senso d’appartenenza ed elementi rituali nel contesto fisico e relazionale del club e della musica elettronica. La sua pratica curatoriale si posiziona sulla sottile linea che separa la realtà fisica da quella digitale, analizzandone i risvolti sociali e le potenzialità politiche, con un particolare interesse per le ricerche artistiche audiovisive. Ha curato mostre sperimentali a Londra (2021-2022) e un programma di screening online sulla piattaforma Covideo (2021).