Luca Pagan (Venezia,1993) è sound artist, performer e ricercatore indipendente. Le sue performance esplorano la relazione tra movimento fisico, suono e ambienti. La sua ricerca è basata su come la percezione del corpo si relaziona con la musica come mezzo espressivo e di comunicazione. Ha collaborato con artisti affermati come MAIED Studio, LOREM, Giorgio Sancristoforo, Umanesimo Artificiale. I suoi lavori sono stati esposti alla Biennale di Architettura (Venezia), Fundación Princesa de Asturias (Oviedo), Transmedia Research Institute (Fano), PARC Performing Art Research Centre (Firenze) e molti altri.

 

 

DFTM1: Parlaci un po’ di te e di quali sensazioni mettono in moto la tua ricerca.

Luca Pagan: Mi sono interrogato su quale sia il valore espressivo del suono, sostanzialmente cosa e come esso comunica. Inizialmente questa ricerca mi ha portato allo studio del paradigma chiamato Embodied Music Cognition. Il corpo regola le dinamiche per attribuire al suono un valore. Mi sono chiesto come il nostro corpo sia ingaggiato con la musica. Quindi cosa succede quando descriviamo un suono con il corpo? – abbiamo sia una componente soggettiva, in quanto ognuno di noi si muove in maniera diversa sia una componente intersoggettiva dovuta ai principi psicoacustici e psicomotori per i quali, ad esempio, al salire del tono si tende anche a salire con il movimento. Questo aspetto a me interessa molto, infatti provo sempre a far indossare i diversi sensori alle persone per costruire un’ontologia di movimenti universali, un modo comune di muoversi in relazione al suono.

Cercavo un metodo per raccogliere questi tratti simili e far sì che a livello di software questi fossero accessibili a qualsiasi utente; così ho pensato che il sistema migliore potesse essere applicare i modelli di interactive machine learning: questi algoritmi permettono di associare il movimento del corpo alla produzione del suono. Con questo sistema è possibile insegnare alla macchina la propria soggettività nell’esprimere un suono con il corpo, che sarà differente per ogni utente. Mi interessava tantissimo studiare come la macchina si integra sul corpo per offuscare sempre di più il confine uomo-macchina. 

Inizialmente consideravo l’elemento hardware come uno strumento esterno, ma invece è diventato sempre più un elemento intimo, una parte del mio corpo. Queste protesi mi permettono di entrare in relazione con i partecipanti alle performance, per rendere la musica strumento di dialogo. Quando eseguo dei gesti nuovi, non precedentemente registrati nel training, la macchina comincia a diventare creativa restituendomi dei risultati sonori inaspettati, facendo sì che inconsapevolmente il mio corpo sia portato a compiere nuovi movimenti, come se l’intelligenza artificiale mi rieducasse a conoscere il mio corpo. Da qui inizio a vedere la relazione con lo strumento come parte organica con la quale convivo. Mi domando quindi cosa l’intelligenza artificiale possa insegnarci, questo è il focus della mia ricerca.

 

DFTM1: Nei tuoi workshop la relazione che cerchi di instaurare con i partecipanti, tramite l’interazione di più registri, come credi che possa far esprimere un nuovo piano di comunicazione, non più governato unicamente dal tono vocale?

LP: Nei workshop succedono un sacco di cose interessanti, perché cerco sempre di farli il meno frontali possibili: cerco il confronto, il dialogo, a volte trovo dei partecipanti che mi stupiscono nel senso che sono attivissimi e mi stimolano un sacco; io parto sempre dicendo «son qua con delle domande e sono in cerca di risposte». Capitano magari partecipanti che hanno già una grande confidenza con la tecnologia e quindi sono stimolati a cercare il massimo e altri invece che partono molto più scettici. Di conseguenza succede anche che acquisiscono questa sensibilità che per loro magari era una cosa un po’ arcana. Il concetto di identità cyborg semplicemente come visione di corpo umano mescolato con tecnologie innestate è da sfatare, in quanto viviamo in un’epoca dove la percezione della realtà viene alterata dai dispositivi, portandoci a essere tutti dei cyborg. La verità è che oggi c’è carenza di immaginario, ovvero abbiamo difficoltà a immaginare nuovi modi di usare le tecnologie. Quando ci viene fornita una nuova tecnologia pensiamo al suo output diretto escludendo a priori lo spettro di possibilità che queste innovazioni ci possono fornire. Attraverso le tecnologie progettate sul corpo, a me piace provare a esplorare e sperimentare nuove sensorialità e nuovi modi di prendere consapevolezza del mondo, cercando di riformulare il concetto di corpo normalizzato  verso un’idea di corpo espanso.

 

DFTM1: La tua attività performativa come si relaziona all’approccio cinestetico utilizzato sull’IA e sui dispositivi DIY? Che connessione c’è tra i body data che accumuli dalle gestualità del corpo e l’elemento sonoro?

LP: Il primo step sono i dati raccolti da biosensori che lavorano su articolazioni e fasce muscolari; ho costruito una formula che rileva l’attività muscolare. Inoltre utilizzo sensori di misurazione inerziale, che mi permettono di ricavare le qualità del movimento e la posizione in base agli assi della terra. Tutti questi rilevatori immagazzinano dati e costruiscono una mappa in continuo aggiornamento del mio corpo, come si muove e interagisce. Nel secondo step, il training viene fatto ascoltando un suono e man mano che si ascolta si costruisce un gesto, questo poi viene registrato nel software e usato in fase di performance. Le reti neurali, attraverso l’analisi dei dati, studiano e imparano la mia intimità nell’esprimere i suoni. In performance cerco di costruire dei gesti, tanti sono frutto dei training precedenti, ma molti sono improvvisati e istintivi. Il mio interesse è lavorare sulle gestualità, che in una certa maniera attivano una risonanza comportamentale e quindi sono sub-cognitivi e svincolati dal processing mentale.

 

DFTM1: Questo approccio DIY che hai sia con l’elemento hardware sia software, l’hai sempre avuto o l’hai dovuto sviluppare per adattare il livello tecnologico all’interazione che ricercavi?

LP: Penso che sia sempre stata parte delle mie grandi passioni, del mio modo di lavorare. Prima del 2020, prima di cominciare a fare tutte queste cose sul corpo, costruivo già strumenti musicali, come ad esempio delle tavolette di sughero rivestite da sensori, sulle quali costruivo dei gesti e le facevo suonare; quindi c’era già un approccio gestuale che però era scorporato. Successivamente ho avuto il cambio di paradigma: da eseguire movimenti sugli strumenti, a costruire strumenti per sonificare il movimento. Mi sono reso conto, infatti, che era quello che desideravo. Sviluppare il proprio software per suonare sicuramente è stata la cosa più importante per me, perché parti da un foglio bianco e fai ciò che vuoi: questo tipo di libertà è stata per me incredibile, prima ero vincolato a sintetizzatori e modi ormai superati di pensare l’elettronica. La possibilità di inventare il MIO processo musicale, il modo di costruire il suono, il modo di pensare a organizzare il suono nello spazio: questa potenzialità mi ha sempre ispirato, chiaramente implica una pratica DIY e la cosa più intuitiva è lavorare con l’open source, poiché permette di avere anche delle risorse accessibili sul web, dove a volte dai e a volte prendi, un approccio per me molto intelligente. Ad esempio Naked Music è un lavoro sulle black box, in cui ho costruito un disco dentro la resina epossidica così da poter vedere tutto il circuito interno. Al posto di accettare una tecnologia oscurata della quale non sai cosa c’è dentro, sarebbe interessante approfondire che cosa c’è dietro questi dispositivi, come funzionano, come si costruiscono; questo ci permetterebbe di avere un punto di vista più limpido su come evolvere attraverso la tecnologia.

 

DFTM1: Che progetti hai per il futuro?

LP: Bella domanda, adesso sono in residenza a Casa Degli Artisti con Federica Sasso, fotografa e ricercatrice che si occupa di VR e di come il corpo lavora nello spazio reale mentre è immerso in quello virtuale. Siamo in residenza fino al trenta giugno e stiamo lavorando su un progetto di embodiment. Continuerò a mantenere questa doppia valenza fra workshop-docenza, performance-esperienze musicali, e sono anche molto curioso e stimolato da nuove possibili residenze, che per me sono una ricarica di energia.

 

 

Biografia

DFTM1  è un gruppo di giovani curatori composto da nove figure eterogenee dalla formazione variegata. Alla base della nascita del gruppo c’è la volontà di imparare sul campo e sperimentare. DFTM1, acronimo di Don’t Feed the Monster, è sia un invito a superare i propri mostri interiori che un suggerimento ad andare oltre i propri limiti.