NONE è un collettivo artistico con base a Roma fondato da Gregorio De Luca Comandini, Mauro Pace e Saverio Villirillo. Attraverso il dialogo tra tecnologia, architettura e narrativa realizzano esperienze immersive che interpretano i problemi dell’esistenza dell’uomo, mettendo in scena storie che affrontano le incertezze delle domande senza risposta e la difficoltà di discernere tra autenticità e finzione. Il collettivo NONE esplora i confini di identità, consapevolezza e natura, artificiali e umani, di memoria e immaginazione, di indipendenza e pensiero. Hanno collaborato con diverse realtà culturali e le loro opere sono state esposte in tutto il mondo, tra cui la Somerset House di Londra, il Farol Santander di San Paolo, il Fukuoka Science Museum in Giappone, il Palazzo delle Esposizioni a Roma e la Design Week di Milano.

 

Carla Gerbino: Come nasce l’idea del collettivo NONE?

Saverio Villirillo: Dall’unione di due realtà che già facevano ricerca nell’ambito delle installazioni immersive e multimediali. Abbiamo fondato NONE nel 2015, nello studio di via Libetta, nel quartiere Ostiense di Roma. Da subito abbiamo sia realizzato progetti su committenza che prodotto opere artistiche autoriali. NONE d’altronde nasce dalla voglia e la necessità di produrre ricerche ed esperimenti senza alcun brief o format prestabilito; la libertà totale di espressione è un luogo inesplorato che è sempre eccitante. Abbiamo diverse competenze nei principali campi dell’immagine, del suono, della luce e dell’architettura non solo effimera. Il gruppo è sempre dinamico a seconda del progetto: le varie collaborazioni e aggregazioni di artisti, ricercatori, designer, architetti, sound designer e tutti coloro che orbitano attorno a NONE tengono sempre viva la ricerca e la sperimentazione artistica.

 

CG: Lo sviluppo tecnologico ha determinato molti dei cambiamenti avvenuti in diversi ambiti della produzione artistica contemporanea. Quali sono i modelli che hanno influenzato la vostra ricerca artistica e le vostre sperimentazioni?

SV: Sicuramente veniamo da una generazione che sta iniziando una mutazione transgenere: macchine e computer digitali divengono estensioni del nostro corpo. Questo anche perché il nostro stile di vita ci impone molto tempo con dispositivi e con immaginari virtuali e digitali. In ogni luogo e sempre più velocemente le tecnologie condizionano le nostre scelte, le nostre abitudini e i parametri della vita quotidiana. Credo che ci si debba andare cauti perché molto spesso ci stacchiamo completamente dalla percezione della realtà. Nei nostri lavori decliniamo concetti e percezioni, oltre che sensazioni, che rispecchiano i disagi, le abitudini e le attitudini legati al rapporto tra uomo e tecnologia. Mettiamo in evidenza il lavoro e il tempo che occupiamo con queste interfacce e quali sono le azioni e le nuove pratiche che ne conseguono. 

– Il nostro primo modello è sicuramente Ulisse e la sua continua ricerca.
– Pitagora per la sua unione di scienza, tecnica e filosofia.
– Robin Hood per l’open source e l’idea di condivisione e apertura dei linguaggi di programmazione, dei risultati delle proprie ricerche e sperimentazioni con la community che ne consegue.
– Il film Blade Runner, la celebre serie tv Black Mirror e tutto il filone della fantascienza e della cibernetica, sia per quanto riguarda l’immaginario fotografico sia per l’aspetto utopico o distopico.

 

CG: Nel 2018 avete presentato J3RR1. A planned torture all’interno della sezione Umano, sovrumano?, curata da Valentino Catricalà per l’edizione di Human+. Il futuro della nostra specie al Palazzo delle Esposizioni. Si tratta di un computer programmato per eseguire uno stress test continuo. Scopo dell’installazione era costruire un rapporto empatico tra lo spettatore e la macchina. Su cosa si basa questa empatia? Che tipo di relazione si può instaurare tra l’essere umano e la tecnologia?

SV: Mi fa piacere che citi J3RR1 perché è come uno di noi. J. è una macchina che, purtroppo per lui, abbiamo programmato dalla sua nascita per subire una tortura. Tutte le volte che lo “risvegliamo” inizia a processare calcoli inutili, il cui unico scopo è metterlo costantemente sotto sforzo. Le prestazioni della memoria e del processore sono rappresentate e monitorate da due interfacce fisiche e materiche: tutti i processi che riguardano la memoria RAM diventano gli impulsi dei 25 solenoidi che picchettano sulla sua lastra di metallo. Gli sforzi – come quelli che di solito si fanno per i benchmark sui processori – si percepiscono invece in luce, in una matrice di 25 lampade a incandescenza dimmerate che si alternano in una scansione temporale di flash e scenari ritmici. Tutto questo semplice tecnicismo per trasmettere la percezione di reale sofferenza e stress della macchina. Come avviene per una pianta quando sta per morire, anche per J3RR1 proviamo un sentimento di dispiacere, cioè entriamo in empatia quando riconosciamo il suo sforzo inutile. Allo stesso modo l’uomo di oggi è abituato a essere sempre pronto e produttivo in ogni dove e in qualsiasi momento della giornata. Ventiquattrore su ventiquattro, sette giorni su sette. Una costante prestazione che continuerà nella sua esistenza tra continui burnout e collassi.

 

NONE Collective, J3rr1. Programmed torture, 2018. Courtesy NONE Collective

 

CG: Nel corso degli anni avete preso parte a mostre ed eventi nazionali e internazionali. Ad esempio, nel dicembre del 2019, avete ideato, progettato e curato l’allestimento del MIAC – Museo Italiano dell’Audiovisivo e del Cinema a Cinecittà, nato in un ex laboratorio ormai in disuso per lo sviluppo e la stampa delle pellicole su progetto architettonico di Francesco Karrer. In che modo gli strumenti che siete soliti utilizzare e la vostra poetica dialogano con spazi convenzionalmente associati alla tradizione? Quali sono le caratteristiche che un’istituzione culturale deve possedere per essere considerata innovativa e all’avanguardia?

SV: Spero che tra Covid-19 e chiusure straordinarie tu sia riuscita a visitarlo di persona e se non l’hai fatto ti invito a farlo al più presto. Il MIAC è stato un grande progetto, lungo e impegnativo sotto tutti gli aspetti. Risultato? Piace molto ai visitatori! Da subito abbiamo proposto alla committenza e ai curatori di realizzare un’esposizione non canonica che avesse un forte impatto esperienziale sia a livello scenico che nelle modalità di fruizione dei contenuti. Il percorso infatti è di tipo trasversale, con delle tematiche precise. Tra i temi: l’emozione, la lingua, il potere, l’eros, il paesaggio, la commedia, il futuro e i protagonisti dell’audiovisivo dai primi del ‘900 ad oggi. Ogni spazio è un’esperienza immersiva: il visitatore non si imbatte in oggetti o cimeli del cinema italiano ma si trova immerso in quell’immaginario attraverso scenari materici e digitali alterati e mutati da luce e immagini. La percezione del visitatore viene continuamente stimolata da un susseguirsi di immagini raccontate con espedienti semplici ma descrittivi al tempo stesso. Circa 400 film sono stati rielaborati in un unico percorso narrativo che non intende essere esclusivamente divulgativo ed esaustivo. Abbiamo infatti cercato di stimolare l’interesse e la curiosità dei visitatori verso la scoperta e l’approfondimento del mondo del cinema, della televisione e della radio italiane. Il risultato è l’evoluzione dell’audiovisivo, di una pellicola o di un libro, che non sostituisce i media originari ma li unisce e li arricchisce con nuove tecniche e dinamiche, come il movimento dello spettatore e gli infiniti punti di vista, creando nuove modalità di percezione. L’istituto Luce e tutto il team di produzione e curatela del progetto hanno da subito creduto nella visione di uno spazio che possedesse un’energia nuova e un coinvolgimento totalmente esperienziale diverso da quello a cui siamo abituati nelle mostre e nei musei. Non sempre si riesce a lavorare con un committente aperto e disponibile a proposte e progetti così innovativi, ma stiamo lavorando alla diffusione del metodo. Quindi la fiducia nel progettista/creativo/artista è l’essenza magica che, mescolata con una buona dose di collaborazione e dialogo, fa realizzare progetti di successo.

 

NONE Collective, MIAC - Museo Italiano dell'Audiovisivo e del Cinema, 2019. Courtesy NONE Collective

 

CG: Durante le edizioni di Simposio avete aperto il vostro studio ad altri artisti, produttori, critici e pensatori nell’intento di interpretare la condizione contemporanea nella società digitale. In che modo è cambiato il modo di usufruire del patrimonio artistico rispetto al passato? L’utente al giorno d’oggi è più attento oppure, essendo assuefatto quotidianamente da stimoli visivi e tecnologici, è meno ricettivo?

SV: Simposio è un progetto molto particolare che ormai è arrivato alla quarta edizione. Nasce dalla volontà di creare una comunità di persone che hanno storie e progetti sociali e culturali, di ricerca, innovazione e tecnologia ma anche di politica. Una pratica che ha forme distinte nelle varie edizioni ma c’è sempre un momento di condivisione e dibattito plenario. La risposta negli anni è sempre stata positiva ed entusiasmante perché ha fatto nascere tanti nuovi progetti, interazioni e sviluppi di visioni comuni. I simposiani sono attenti, conoscono, si informano e dialogano tra loro, propongono riti e azioni con tante distinte modalità di rappresentazione e comunicazione. Questo è molto importante perché l’utente oggi è distratto, superficiale, pigro poiché abbagliato da innumerevoli input visivi. È importante trovare nuovi approcci, diffondere voci e idee, oltre che visioni di mondi possibili.

 

CG: In ambito museologico vi è una certa tendenza a segmentare il pubblico con allestimenti e tecnologie destinati a rispondere a esigenze diverse. Secondo voi è possibile che, con una forte modalità fisico-sensoriale, questa suddivisione venga meno e si possa invece sollecitare una capacità percettiva ed emotiva diffusa e universale?

SV: Assolutamente sì. Un’esperienza museale immersiva che coinvolge i nostri sensi attraverso la tecnologia ci permette di arrivare a chiunque, dal bambino all’adulto, proprio perché va a toccare aspetti emozionali. Credo che oggi nella progettazione di nuovi modelli espositivi ci sia bisogno di rispetto per la storia e la tradizione, ma anche dell’uso di un linguaggio più fisico e universale, in uno spazio progettato site specific.

 

CG: In Italia i settori della cultura e del turismo sono stati tra quelli più duramente colpiti dagli effetti del primo lockdown e dall’insieme delle restrizioni imposte nel corso dei mesi successivi, dovendo fare i conti con nuove persistenti chiusure e una serie di criticità sempre maggiori. Alla luce dei fatti attuali, cosa ha comportato la pandemia per ciò che riguarda la fruizione culturale? Quali orizzonti potrebbero delinearsi?

SV: Questa domanda l’abbiamo fatta anche a tutti i partecipanti dell’ultimo Simposio che si è tenuto a luglio tra le Dolomiti. Orizzonti è la parola giusta: molto spesso cerchiamo oltre, guardiamo ma non definiamo bene il limite entro il quale percorrere le visioni e le scelte quotidiane. Il settore culturale è stato messo alla prova. Questa è un’opportunità per tutti gli addetti ai lavori di confrontarsi con un distacco netto da parte del pubblico, che preferisce poltrire davanti a una serie e/o davanti ai contenuti rarefatti ed effimeri forniti dai dispositivi a schermo. L’errore che non bisogna compiere è allontanarsi dalla partecipazione fisica di un contenuto, in quanto la presenza fisica in un luogo è unica e individuale e rimane impressa nella memoria. Bisogna disegnare spazi che siano più confortevoli per l’uomo che rincorre il mondo ideale del metaverso e riavvicinarlo alla percezione della realtà con gli stessi mezzi con i quali se ne distacca. Questa è la sfida.

 

CG: Come immaginate il museo del futuro?

SV: Il museo del futuro non è più un luogo di archiviazione ma uno spazio ibrido e dinamico dove convivono anche rappresentazioni artistiche e progetti di ricerca. Un museo connesso alla vita quotidiana dei cittadini, non solo con applicazioni e visite virtuali ma con laboratori, pratiche attive, esperimenti di varia natura e interazioni con messaggi e contenuti sempre attuali. Un museo deve avere il giusto equilibrio tra intrattenimento e divulgazione. Gli strumenti utilizzati devono essere sempre aggiornati e devono fornire metodi di approfondimento innovativi. L’obiettivo è incuriosire e divertire, stupire e colmare conoscenze oltre che approfondire cultura ed esaltare l’arte.

 

 

 

 

Carla Gerbino

Siciliana di nascita, Carla Gerbino vive attualmente a Cremona. Ha frequentato presso l’Università di Pavia prima un corso di studi triennale in Beni Culturali e poi una magistrale in Valorizzazione dei Beni Culturali. Si è laureata con una tesi sul rapporto tra tecnologia, new media e istituzioni museali per la valorizzazione del patrimonio culturale e l’engagement.