Nella mente di chi come me è sufficientemente adulto da non essere nativo digitale, ma abbastanza giovane da poter ricordare l’introduzione dei primi computer, è vivida nella memoria l’immagine del periodo che ci ha visti potenziare progressivamente in numero e performatività l’universo informatico.

Dagli albori del web, siamo stati bombardati da una narrazione volta a insistere – spesso a ragion dovuta – sull’idea di una rivoluzione in atto, fatta di connessioni sempre più leggere, veloci ed efficienti.

 

Anne de Vries. Courtesy l'artista.

 

Lo sguardo di oggi, però, ha iniziato a esprimere uno scostamento da tale retorica: con una consapevolezza sempre maggiore, l’essere umano sta ormai percependo il peso quotidiano della pervasività totale della tecnologia. Il mondo digitale non è più un’opzione, ma è un dovere senza il quale si è esclusi da una serie di legami e possibilità (la ricerca di un lavoro, il mantenimento di una relazione, la prenotazione di un esame universitario…). E proprio quando una grande possibilità diviene simile a una coercizione, le cose iniziano a svelare un lato pericoloso. La macchina del progresso e le sue infinite promesse di miglioramento, tradotte in prodotti della tecnica, nascondono infatti molteplici conseguenze.

Il filosofo Umberto Galimberti ha evidenziato come l’essere umano contemporaneo sia senza dubbio inseparabile dal suo ecosistema tecnico, che diviene una condizione essenziale della propria identità:

 

Per il fatto che abitiamo un mondo in ogni sua parte tecnicamente organizzato, la tecnica non è più oggetto di una nostra scelta, ma è il nostro ambiente, dove fini e mezzi, scopi e ideazioni, condotte, azioni e passioni, persino sogni e desideri sono tecnicamente articolati e hanno bisogno della tecnica per esprimersi. Per questo abitiamo la tecnica irrimediabilmente e senza scelta. Questo è il nostro destino di occidentali avanzati, e coloro che, pur abitandolo, pensano ancora di rintracciare un’essenza dell’uomo al di là del condizionamento tecnico, come capita di sentire, sono semplicemente degli inconsapevoli che vivono la mitologia dell’uomo libero per tutte le scelte, che non esiste se non nei deliri di onnipotenza di quanti continuano a vedere l’uomo al di là delle condizioni reali e concrete della sua esistenza (Galimberti, 2016, p. 34)

 

Abitare un reale tecnicamente saturo, più o meno consapevolmente, non solo è totalizzante e non opzionale, ma ha anche un peso materiale che esiste anche se non possiamo vederlo; e ci riguarda individualmente, socialmente ed ecologicamente.

 

Anne de Vries, Forecast, 2011. Proiezione video, 5 min. loop. Veduta della mostra presso Max Mayer Gallery, Dusseldorf. Courtesy l'artista.

 

L’inquinamento digitale e il suo peso individuale

I nostri cervelli sono saturi. Siamo costantemente iper-stimolati da suoni, immagini e fatti (veri o meno che siano) presentati sotto forma di informazione. Tentare di discernere questo fiume di informazione – con un minimo di pensiero critico – ci rende esausti.

Daniel Levitin, professore di Psicologia e Neuroscienze Comportamentali all’Università McGill di Montréal, ha approfondito questo aspetto, nello specifico osservando il processo di distrazione e misurandone gli effetti (Levitin, 2015). L’obiettivo all’origine delle ricerche era indagare l’impatto e il peso di costanti stimoli distrattori sulla mente umana (ad esempio, si pensi allo smartphone). Gli studi di Levitin illustrano come ogni volta che spostiamo la nostra attenzione da una cosa a un’altra, il cervello deve operare uno switch, cioè uno scambio neurochimico (Levitin, 2015). Questo processo involontario ci dice essenzialmente una cosa: se pensiamo di essere multitasking e fare due o tre azioni contemporaneamente, ci sbagliamo. Il nostro cervello non lavora in questo modo. Earl K. Miller (Miller Lab), neuroscienziato al Massachusetts Institute of Technology (MIT), ha studiato nello specifico questo fenomeno, divenendo uno dei maggiori esperti al mondo di divided attention. Miller spiega chiaramente come i nostri cervelli non siano affatto multitasking, ma che piuttosto effettuiamo dei passaggi estremamente rapidi tra una task e l’altra (Levitin, 2015). E ogni volta, per fare questo switch, spendiamo una certa mole di energia metabolica di tipo cognitivo (Levitin, 2015). Ed ecco lo stress.

 

Anne de Vries, Timetables, 2011. Legno, metallo, ceramica e stampe di foto digitali su tavoli. Veduta della mostra TrueEye surView, curata da Katja Novitskova presso W139, Amsterdam. Courtesy l'artista.

 

Tutto questo diviene ancora più problematico se pensiamo al fatto che viviamo in una realtà dove viene costantemente richiesto di sovrapporre le attività e il multitasking è considerato una qualità necessaria. Dal lavoro al tempo libero, adottiamo sempre la medesima condotta: non riusciamo a guardare un film senza che la nostra attenzione, mossa dalla dipendenza, si distolga continuamente e automaticamente, vertendo sullo schermo del nostro smartphone. E tale distrazione avviene per tutto il giorno. Gli studi di neuroscienza presi in esame sono piuttosto concordi nel vedere come queste abitudini abbiano delle conseguenze gravi. Il paradosso è che la tecnologia e i suoi servizi ci stanno rendendo meno efficienti anche se all’apparenza ci sembra di avere le possibilità e la velocità per produrre molto di più. Studi hanno infatti dimostrato come il multitasking aumenti la produzione di cortisolo, l’ormone dello stress, così come di adrenalina, l’ormone fight or flight, che potrebbe sovra-stimolare il nostro cervello causando confusione e nebbia mentale (Levitin, 2015). L’insieme di tutte queste dinamiche della meccanica ormonale del nostro cervello mostrano come la regione cerebrale necessaria alla concentrazione sia altamente distraibile.

Russ Poldrack, neuroscienziato a Stanford, ha poi scoperto che acquisire informazioni durante un comportamento multitasking causa una deviazione della memorizzazione nel luogo sbagliato (Levitin, 2015). Se una persona studia mentre guarda contemporaneamente una serie tv o un reel su Tiktok, le informazioni acquisite nello studio si dirigono allo striato, la regione del cervello specializzata nell’acquisizione di procedure e competenze, invece che in quella volta a consolidare fatti e idee (Levitin, 2015). Senza distrazioni, le informazioni raggiungerebbero invece l’ippocampo, dove vengono organizzate e categorizzate in una varietà di modi, rendendone poi più facile il recupero (Levitin, 2015).

 

Anne de Vries, Timetables, 2011. Dettaglio. Legno, metallo, ceramica e stampe di foto digitali su tavoli. Courtesy l'artista.

 

Viziati da questi meccanismi, tutti cerchiamo una costante distrazione. Stiamo progressivamente disimparando a stare con noi stessi, senza provare pochi minuti dopo una forma di disagio. E’ quella che Glenn Wilson, professore di psicologia al Gresham College di Londra, aveva definito Infomania in uno studio del 2005, ovvero la dipendenza compulsiva dalle informazioni e dagli stimoli derivanti dal mondo digitale (Dillon, 2006).

 

L’inquinamento digitale e il suo peso sociale

Come anticipato precedentemente, la questione non riguarda solo il rapporto che abbiamo con noi stessi, ma anche quello con la collettività: i termini Nomofobia e Fomo si addizionano al peso negativo della faccenda.

Secondo la definizione di Treccani, la Nomofobia (dall’inglese Nomophobia: Nomo ‘No Mobile Phone’ e -Phobia ‘fobia, terrore’) è una condizione in cui il soggetto manifesta l’irrazionale terrore di rimanere disconnesso. Alcuni sintomi sono la perdita del senso del tempo online, l’avere problemi nel portare a termine i compiti e l’isolarsi. Dal momento che ormai i dispositivi digitali incorporano la nostra stessa identità individuale e sociale, in molti soggetti non averne accesso equivale a perdere una parte di loro stessi e del rapporto con l’altro.

 

Anne de Vries, Timetables, 2011. Dettaglio. Legno, metallo, ceramica e stampe di foto digitali su tavoli. Courtesy l'artista.

 

Da strumento per l’accesso alla socialità, i nostri dispositivi si possono anche trasformare in strumenti che portano a conseguenze opposte. Si pensi, ad esempio, al fenomeno degli Hikikomori. Il neologismo Fomo (dall’inglese Fear of missing out ‘paura di rimanere escluso’), può essere visto come il contraltare del caso Hikikomori. In questo caso, l’ansia di perdersi qualcosa trasforma la volontà di socialità in un’ossessione iper-stimolata dai social network, ponendoci nel costante terrore dell’esclusione sociale o della perdita di qualcosa che avviene al di fuori.

 

L’inquinamento digitale e il suo peso ambientale

Al di là di ogni questione legata a fattori individuali o sociali, il digitale ha anche il suo peso in relazione all’ambiente.

Dagli anni cinquanta, fece la comparsa un nuovo simbolo nei diagrammi degli ingegneri elettrici che, nel corso degli anni, andò a condensarsi nella forma di una nuvola (Bridle, 2020, p. 15). Questa nuvola – il cloud – si trasformò da un sintetico concetto ingegneristico a una metafora globale e potente, con un ingente peso energetico e materiale. Il cloud non è composto da vapore «impalpabile e senza peso», ma «si tratta semmai di un’infrastruttura fisica composta di linee telefoniche, fibre ottiche, satelliti, cavi sul fondo dell’oceano e giganteschi magazzini pieni zeppi di computer che consumano quantità ingenti di acqua ed energia» (Bridle, 2020, pp. 15-16). Dobbiamo ricordarci non solo che, a «causa dell’enorme incremento sia in termini di archiviazione dati che di capacità computazionali avvenuto nell’ultimo decennio, la quantità di energia impiegata nelle banche dati» mantiene una crescita costante ed esponenziale (Bridle, 2020 p. 76). Ma anche che i dispositivi che utilizziamo sono composti da una moltitudine di materiali rari. E molti di questi componenti che sorreggono tutta l’illusione del cloud hanno un fortissimo impatto ecologico: dalla distruzione degli ecosistemi attraverso svariati processi di estrazione, all’impatto sulla salute di chi lavora negli ambienti disumanizzanti della filiera tecnologica.

 

Anne de Vries, Forecast, 2011. Still da video, 5 min. loop. Courtesy l'artista.

 

Le produzioni tecnico-informatiche hanno poi i loro bacini di fornitura globale e i paesi in possesso delle materie prime vedono aumentare i propri capitali. Ne è un esempio la Cina, che possiede il 90% di terre rare (REE, Rare Earth Elements) come Silicio, Platino e Litio, indispensabili per le produzioni tecnologiche (Gabanelli, Sideri, 2022). Il tema delle terre rare inoltre ha tra i suoi aspetti più oscuri quello delle condizioni in cui i materiali vengono estratti. I report di Amnesty International parlano chiaro: l’estrazione del Litio è una delle grandi cause per cui esseri umani di tutte le età, soprattutto minori, vedono i loro diritti calpestati da forme di schiavismo, corruzione e sfruttamento.

Parlando di emissioni, il 4% dei di gas serra è legato alla produzione del settore tecnologico e all’utilizzo del digitale, un valore che ha addirittura superato il settore aereo (Arena, 2022).

I giganti del digitale fanno di tutto per farci sostituire regolarmente i nostri apparecchi: Apple, Samsung, Microsoft producono volutamente dispositivi dalla durata relativamente breve, un’obsolescenza programmata. I computer, gli smartphone e tutti gli altri dispositivi connessi a Internet, richiedono inoltre una quantità enorme di energia per funzionare, contribuendo così al riscaldamento globale. Effettuare chiamate su WhatsApp, caricare migliaia di immagini e video per condividerle nelle storie di Instagram, guardare una clip su YouTube, tutto fa parte della vita quotidiana digitale. E anche se ci risultano azioni minime,  nell’insieme il nostro traffico Internet collettivo interviene sul  cambiamento climatico. Ad esempio, guardare un’ora di video attraverso uno o due dispositivi a settimana consuma in un anno quanto due frigoriferi nuovi (Bridle, 2020, p. 77).

 

Anne de Vries, Katanga Bub, 2011. Veduta della mostra Trails of the Hive Mind presso Sandy Brown Gallery, Berlin. Courtesy l'artista.

 

Le immagini delle opere dell’artista Anne de Vries che accompagnano il testo intendono mostrare le implicazioni individuali, collettive ed ecologiche appena esposte. Timetables (2011) consiste in un’installazione composta da diversi tavoli rivestiti con stampe di nuvole – il cloud – e immagini digitali aziendali sormontate da mani in gesso intente a utilizzare smartphone. L’idea dell’opera, raccontò l’artista in un’intervista con la critica d’arte e curatrice Karen Archey (2011, p. 33), nasceva da alcune considerazioni sull’atto dello scambio nelle piattaforme di comunicazione. Timetables illustra le metafore e le idee connesse alle tecnologie digitali diffuse dalle aziende del settore, «which communicate a sense of ultimate freedom, referring to ecology and ideas of data-as-oxygen – all as if seamlessly integrated on our ecosystem without weight or waste» (Archey, 2011, p. 33). E se quindi il tavolo rappresenta uno spazio di condivisione fittiziamente descritto come immateriale, le mani in gesso ancorano le tecnologie digitali al nostro corpo. Le informazioni vengono lette come scarti materiali della nostra civiltà. In questo modo, da un lato viene messa in evidenza la falsità del mercato delle tecnologie digitali, che tenta di mascherare – nascondendosi dietro la presunta intangibilità dei dati – le implicazioni che questi ultimi hanno in ambito ambientale; dall’altro, suscita una riflessione individuale su come e cosa condividiamo e sul peso materiale dei nostri dati e consumi. Katanga Bub (2011), come scrive la stessa artista, si sviluppa invece da una stampa che ritrae lavoratori del Katanga, un’area nella Repubblica Democratica del Congo dove vengono estratti molti minerali fondamentali per la produzione di dispositivi mobili, rivelando la relazione tra materia e informazione. De Vries spiega di voler mostrare come i dispositivi promettono falsamente di diffondere conoscenza e di accrescere consapevolezza globale, evidenziando anche come l’economia delle terre rare supporti e aggravi le problematiche sociali e politiche della Repubblica Democratica del Congo.

 

Anne de Vries, Katanga Bub, 2011. Dispositivi mobili incollati su light box che mostrano un'immagine di giornale delle miniere Katanga in Congo rifotografata sott'acqua. Courtesy l'artista.

 

Ci troviamo inevitabilmente immersi in una sistematica digitalizzazione della vita quotidiana e ogni processo trasformativo verso un mondo più sostenibile si staglia come un processo lento e faticoso. Il digitale non è solo un obbligo o un compromesso necessario per vivere nella società odierna, ma è anche un sistema seduttivo a cui pochi riescono a sottrarsi.  Nonostante ciò, dissipare la nebulosa opacità dei cloud è un primo passo verso una consapevolezza maggiore sull’impatto che la tecnologia comporta sul piano individuale, sociale e ambientale.

 

 

Bibliografia / Sitografia

Amnesty International (2019), Amnesty International all’industria dei veicoli elettrici: “Vogliamo una batteria etica entro 5 anni”. Disponibile su: https://www.amnesty.it/batteria-etica-summit-oslo/ (Ultimo accesso 28 novembre 2022).

Archey, K. (2011), Karen Archey in Conversation with Anne De Vries, in Novitskova K. (a cura di) (2011), TruEYE surView, catalogo della mostra [W139, Amsterdam, 17 giugno – 21 agosto 2011].

Arena, G. (2022), Nuda e Cruda. S2E3  [Podcast]. 17 Luglio. Disponibile su: https://open.spotify.com/show/3UuNNXzqF4hbcplMB4sU6e?si=c92e7c785bcf47a4 (Ultimo accesso 30 novembre 2022).

Bridle, J. (2020), Nuova era oscura, Nero, Roma.

Corcella, R. (2015) Tutti i modi con cui il multitasking ci rovina (davvero) il cervello, Corriere della sera. Disponibile su: https://www.corriere.it/salute/neuroscienze/15_gennaio_20/multitasking-rovina-cervello-intelligenza-8aa73808-a0c5-11e4-b571-55218c79aee3.shtml (Ultimo accesso 28 novembre 2022).

Dillon, A. (2006), Infomania at Summit ′05. Bulletin of the American Society for Information Science and Technology, 31: 29-29. https://doi.org/10.1002/bult.2005.1720310509.

Gabanelli, M., Sideri, M. (2022), Materie prime, terre rare e tecnologia: con la globalizzazione tutti dipendono dagli altri, anche la Cina, Corriere della sera. Disponibile su: https://www.corriere.it/dataroom-milena-gabanelli/materie-prime-terre-rare-tecnologia-la-globalizzazione-tutti-dipendono-altri-anche-cina/4228458e-52bc-11ed-9995-eee0d5da864b-va.shtml (Ultimo accesso 28 novembre 2022).

Galimberti, U. (2016), Psiche e techne. L’uomo nell’età tecnica, Feltrinelli, Milano.

Han, J. (2022), Your attention didn’t collapse. It was stolen, The Guardian. Disponibile su: https://www.theguardian.com/science/2022/jan/02/attention-span-focus-screens-apps-smartphones-social-media (Ultimo accesso 28 novembre 2022).

Levitin, D. J. (2015), The organized mind – thinking straight in the age of information overload, Penguin, London.

Levitin, D. J. (2015), Why the modern world is bad for your brain, The Guardian. Disponibile su: https://www.theguardian.com/science/2015/jan/18/modern-world-bad-for-brain-daniel-j-levitin-organized-mind-information-overload  (Ultimo accesso 29 novembre 2022).

Miller Lab. Multitasking. Disponibile su: https://ekmillerlab.mit.edu/tag/multitasking/ (Ultimo accesso 29 novembre 2022).