*Questo articolo è un estratto da Ayahuasca e cura del mondo (2023) di Piero Cipriano, edito da Politi Seganfreddo Edizioni. Ringraziamo l’autore e l’editore per la concessione.

 

Lo stato dell’arte dei metodi di cura per i disturbi psichici, da qualche decennio, è (si dice) integrato. Aspetti biologici, aspetti psichici e aspetti sociali. Vuol dire che se uno è depresso devi aiutarlo coi farmaci e con i colloqui, e se è depresso perché gli manca la casa o il lavoro devi considerare la radice economica, sociale e politica della sua depressione. In altre parole, provare a dargli una risposta specifica.

In realtà, questo enfatizzato modello bio-psico-sociale è solo teorico. Perché poi il depresso, quasi sempre, riceve solo un farmaco, eventualmente accompagnato da qualche colloquio, e spesso questa è l’unica soluzione terapeutica che riceve per tutta la vita.

C’e uno psicoterapeuta svizzero, Carlo Zumstein, che basa la sua prassi sul metodo sciamanico dell’antropologo Michael Harner. Si, proprio lui, il primo antropologo a farsi sciamano. Zumstein parte da un dato: i terapeuti che si occupano di persone con disturbi psichici si sintonizzano sempre, esclusivamente, con la coscienza ordinaria di quella persona, con il suo stare nella realtà ordinaria. I terapeuti hanno letteralmente il terrore del dark side, del lato in ombra delle persone direbbe Jung, schivano lo stato di coscienza non ordinario in cui esse trovano riparo, la realtà non ordinaria in cui si ritraggono. 

Proviamo a considerare questo punto di vista: le persone che mostrano disturbi psicotici, inclusi i gravi depressi (quelli la cui depressione è così radicale che siamo soliti definire psicotica) o i gravi ossessivi (quelli i cui pensieri e comportamenti diventano a tal punto bizzarri da sembrare psicotici) dove vanno? In quale realtà vanno a mettersi al riparo? O vanno a perdersi? Si sottraggono alla realtà ordinaria, al mondo comune, il koinos kosmos di cui dice Eugene Minkowski attingendo a Eraclito (Gaston, 1998), per rifugiarsi in un mondo privato, un idios kosmos, il mondo “fuori dalla realtà ordinaria” dello stato di coscienza non ordinario.

Voglio dire: la coscienza di una persona depressa, maniacale o schizofrenica regredisce a stadi evolutivi della coscienza arcaici, magici. È come se attraversasse la strettoia della clessidra, passando dalla parte soprastante (coscienza ordinaria) a quella sottostante (coscienza espansa).

Un depresso dove va quando è con noi ma è inafferrabile? Quando non sembra essere dei nostri? La sua coscienza è come separata in due: una parte resta nella realtà ordinaria, tra noi ma inerte, sembra esserci solo con il corpo, mentre un’altra parte della sua coscienza è regredita a uno stato arcaico, magico, crepuscolare, a uno stato primitivo della coscienza, quello dell’infanzia. Si ritraggono. Restano giorni o settimane a letto. Pensano al suicidio. La morte. Agognano di morire. Il tempo che non passa.

Sembrano vivere in un altro spazio, essi sono qui ma non sono qui, sono in un altro tempo, sono fuori dal tempo. Dove sono se non sono qui? Tutto è nero. Il mondo è finito, è scomparso, non esiste più. È la fine del mondo. Gli altri non ci sono. Sono l’ultimo uomo sul pianeta, dicono. Che ci resto a fare? Meglio morire. La sindrome di Cotard (Ibidem), che gli psichiatri definiscono come la più nera, apocalittica, nichilista e patibolare delle depressioni. La più psicotica delle depressioni. Quella dove nemmeno i farmaci possono qualcosa ed è meglio l’elettrochoc, suggerisce qualcuno provvisto anche di laurea in elettricismo. Il desiderio di morire. E se fosse il desiderio di tornare a quello stato di coscienza iniziale, primario, in cui l’io non era separato dal tutto ma parte di esso? Non è questo il motivo dell’aspirazione al suicidio del depresso? Il depresso che volge il suo sguardo sempre all’indietro, sempre più indietro, in un vero e proprio viaggio nel tempo, è ingaggiato in una macchina del tempo con cui prova a tornare all’inizio, a quando era parte del tutto, lui e il cosmo un’unita. Nel grembo.

Spesso il depresso resta bloccato in mezzo, in un tunnel (la parte stretta della clessidra). Quante volte si è detto: nel tunnel della depressione. Be’, non è un’espressione metaforica, forse è davvero rimasto intrappolato in un tunnel tra due mondi, tra mondo della coscienza ordinaria e mondo della coscienza non ordinaria; come un imperfetto sciamano, è rimasto là in mezzo e non sa venirne fuori, non conosce i trucchi per muoversi tra i due mondi, non è (come lo sciamano) un signore della soglia. 

Chi però ha saputo tradurre la tecnica dello sciamano e portarla nel nostro mondo è stato l’antropologo Michael Harner, uno di quegli antropologi traditori (Amselle, 2013) perché passato dall’altra parte, diventando egli stesso sciamano. Harner, ne La via dello sciamano (1980), ci racconta come si fa. Non c’è bisogno che lo sciamano abbia a disposizione le piante visionarie, per conseguire la trance gli basta un tamburo che sappia percuotere col giusto ritmo (220 colpi al minuto). Da qui può sprofondare nella terra, trovare un tunnel e percorrerlo, trovare un’uscita luminosa, entrare nell’altra realtà, quella non ordinaria dove ci sono esseri, spiriti, animali ed elementi che danno potere allo sciamano, e ottenuti i poteri ripercorrere il tunnel a ritroso, ritornare in superficie, nella realtà ordinaria dove saprà usarli per guarirsi e guarire. Ripeto, il doppio imbuto a forma di clessidra è una buona figura per capire come si sposta lo stato di coscienza, solo che bisogna definirlo diversamente: la parte larga dell’imbuto di sopra è la coscienza ordinaria, la strettoia è la coscienza crepuscolare, la parte larga dell’imbuto di sotto non è (solo) psicosi (Di Petta, 2016), ma può essere estasi, stato mistico, esperienza di picco, stato sciamanico, visione di altri mondi (che solo se non ne hai dimestichezza puoi riassumere il tutto nel facile inquadramento di stato psicotico). 

Terminato il viaggio lo sciamano torna (sa tornare) nella realtà ordinaria. Perché – scrive Carlo Zumstein – “se rimanesse nella coscienza-realtà degli spiriti, sarebbe un pazzo inutile e inefficiente” (Zumstein, 2003).

È questa la chiave, allora. Come sostiene Jaques Mabit, il medico sciamano francese del centro Takiwasi, il depresso, lo psicotico, l’euforico, il tossico da sostanze, l’ossessionato, sono tutti potenziali sciamani, chiamati a un’iniziazione che hanno mancato, che hanno fallito senza guida da autodidatti. In questo viaggio iniziatico solitario, probabilmente si sono persi rimanendo a metà via, intrappolati nel tunnel (come capita ai depressi), oppure mai più tornati dal mondo degli spiriti, dal mondo della coscienza non ordinaria, come capita agli schizofrenici (schizo-frenici, umani dalla mente divisa in due: Eugen Bleuler (1911), pur digiuno di sciamanismo, l’aveva intuito).

Ecco allora che le persone depresse, tossicomani, ossessionate, le persone che siamo abituati a definire (senza aver capito perché) schizofreniche, sono persone che devono essere sciamanicamente aiutate a muoversi meglio tra i due mondi, tra realtà e non realtà, tra coscienza ordinaria e coscienza non ordinaria, tra canale uno e canale non uno. In questo tirocinio può essere d’aiuto la pianta visionaria o la molecola psichedelica insieme a una guida, un signore del limite, sia esso un curandero o un terapeuta psichedelico, in ogni caso un guaritore allenato a percorrere su e giù la linea di confine tra i due mondi.

C’è un altro terapeuta sciamano, Malidoma Patrice Somè (1994), che negli anni Ottanta va negli Stati Uniti e comprende in che modo, nel mondo occidentale, vengono trattati i potenziali guaritori. Alti dosaggi di antipsicotici che bloccano le persone nei reparti psichiatrici, lasciandole spesso confinate nella parte inferiore della clessidra. Prese un ragazzo, Alex, diciotto anni, da quattro anni aveva allucinazioni, tentativi di suicidio e psicofarmaci. Lo portò con se in Africa, nel suo villaggio. Lo sottopose a un ritiro sciamanico, al termine del quale rimase nel villaggio ancora per alcuni mesi, poi tornò negli USA: era pronto per studiare psicologia. Ora sì che poteva diventare terapeuta.

Con questo episodio non voglio certo sostenere che tutti i giovani psicotici debbano essere portati da uno sciamano a fare il ritiro per guarire dalla psicosi. Voglio dire che quel che accade nella psicosi o meglio nella cosiddetta schizofrenia può essere inquadrato in un altro modo. Joseph Campbell, ne L’eroe dai mille volti (1949), affronta il tema del viaggio dell’eroe. Lo schizofrenico è uno che si imbarca da solo in questo viaggio. Questo è il suo dramma. Si ingaggia nel viaggio, ma non ha il supporto di una guida esperta che lo accompagni. 

Julian Silverman, in Shamans and acute schizophrenia (1967), racconta il caso di Igjugarjuk, uno sciamano esquimese, descrivendo come inizia la sua carriera, che da noi sarebbe stata quella di un pazzo. Dice che da giovane vedeva esseri sconosciuti che gli parlavano, cosi la sua famiglia chiama il vecchio sciamano, e questi lo porta in un igloo lasciandolo per un mese al freddo e senza cibo, con l’incarico di pensare solo al grande spirito. Dopo un mese, Igjugarjuk vede una donna, che da quel momento sarà il suo spirito guida. Per altri cinque mesi il giovane digiuna, perché la vera conoscenza la si ottiene soltanto con l’isolamento e la sofferenza, gli ripete il vecchio sciamano. Ecco: il vecchio sciamano, a suo modo, non ha ricoverato per sei mesi – in un igloo e poi fuori dall’igloo – questo ragazzo? Qual è la differenza tra un giovane psicotico trattato con psicofarmaci e ricovero dalla psichiatria moderna e un ragazzo che sente le voci e che dopo un ritiro sciamanico diventerà guaritore a sua volta? Entrambi hanno percorso il canale stretto della clessidra da sopra a sotto, sono finiti attraverso la strettoia crepuscolare dei due imbuti speculari nella parte di sotto, nel magma, nel profondo mare interiore, nel caos degli archetipi, dei miti, dell’inconscio collettivo; sono entrambi dei tuffatori che si sono tuffati, gettati, o meglio, sono stati loro malgrado scagliati là in fondo negli abissi.

La crisi psicotica, come fosse un viaggio sciamanico, a volte va assecondata ai suoi tempi. Meglio non fare, a volte, che dar luogo ai cosiddetti interventi precoci. Questi spesso servono solo a fare diagnosi per iniziare a somministrare al più presto farmaci antipsicotici. L’esempio è riportato da Ronald David Laing in La politica dell’esperienza (1967). Jesse Watkins, ex ufficiale della marina britannica, impazzisce. Ha una crisi psicotica. Vede una luce intensa. È nel bardo. Nella terra di mezzo dei morti. Il tutto comincia con la sensazione che il tempo retroceda, che scorra all’inverso. Viene ricoverato, messo a letto in ospedale, un cadavere.

Così si fa coi ricoverati. A letto. Clinos. Posizione del cadavere. Una notte gli sembra di essere morto e di trovarsi in mezzo ai morti, i suoi compagni di ricovero. Continua ad andare indietro nel tempo fino a che diventa una bestia. Reincarnazioni a ritroso. Sente di aver ottenuto i poteri. Si alza, si siede sul letto, guarda gli altri, li può far rimanere immobili. Sente di essere sempre esistito. Si stanno liberando i poteri innati che tutti abbiamo, che solo gli yogin sanno però attivare. Siddhi le chiamano. Pensateci, tutto questo non è diverso da un trip psichedelico. Sente infine di essere arrivato a incarnarsi nel ruolo di dio, ma di un dio pazzo. Pazzo perché sapere la realtà ultima delle cose fa impazzire. Dio, sapendo tutto, non può che essere pazzo. Jesse Watkins, sentendosi dio pazzo di conoscenza, era giunto al limite della sua capacità di essere in quello stato. Una mattina chiese di poter non ricevere psicofarmaci, e iniziò a ripetere il suo nome: Jesse, Jesse, Jesse. Era di nuovo nella normalità, non era più il dio pazzo di conoscenza, era tornato nella parte alta dell’imbuto. Forse l’antipsichiatra Laing, che con Timothy Leary aveva conosciuto i trip di Lsd, voleva suggerirci che bisogna assecondare il viaggio schizofrenico per renderlo più simile al viaggio sciamanico.

Cosa dire allora? Che i viaggi – apparentemente diversi – di Ulisse, dello sciamano, del mistico, dello yogin, dello schizofrenico o del depresso sono sempre un viaggio dentro l’imbuto, un tuffo nel mare dell’inconscio collettivo. Bisogna capire come fare a permettere il viaggio senza che si risolva in naufragio. Lo scopo del viaggio, insegna Ulisse, è ritornare.

È probabile che il depresso, il maniaco, lo schizofrenico, l’ossessivo o il tossicomane siano degli iniziati, chiamati a un viaggio di cui hanno mancato l’iniziazione. Hanno ricevuto una chiamata ma non hanno saputo come e dove andare. Si sono persi. Bisogna aiutarli a percorrere la loro strada fino in fondo. Tutto ciò la psichiatria occidentale non l’ha capito. Non è quasi mai stata capace di aiutare i viaggiatori allo sbaraglio a ritrovarsi, questo perché i guaritori (gli psichiatri) – che dovrebbero assistere i malati in questo viaggio – non hanno mai viaggiato. Non hanno alcuna idea di cosa dover assistere, per quali cammini accompagnarli, non hanno la cartografia psichica per poter fare questo mestiere. Non sono sciamani. Non sono abitanti dei due mondi. Non conoscono entrambe le parti larghe degli imbuti. Ciò che sanno fare è trasformarli in malati a vita, restringendo definitivamente lo stato di coscienza con i farmaci che la psichiatria da settant’anni ha a disposizione. Tre classi su quattro sono farmaci che restringono la coscienza: gli antipsicotici, gli ansiolitici e gli stabilizzatori dell’umore; e poi gli antidepressivi, che comunque rinforzano la DMN e l’ego, piuttosto che scioglierli. 

È necessario sostituire i farmaci della coartazione della coscienza con farmaci che la espandano. Ed è necessaria una nuova generazione di terapeuti che impari la tecnica di gestione degli stati di coscienza espansi, che si faccia insegnare il segreto dai signori del limite, dalle guide della soglia, imparando dunque a conoscere le molecole psichedeliche.

 

Bibliografia:

Amselle, J-L., Psicotropici. La febbre dell’ayahuasca nella foresta amazzonica (2013), Meltemi, Milano 2020.

Bleuler, E., Dementia praecox o il gruppo delle schizofrenie (1911), La nuova Italia Scientifica, Roma 1985.

Campbell, J., L’eroe dai mille volti (1949), Lindau, Torino 2016.

Di Petta G. Tittarelli D., Le psicosi sintetiche, Giovanni Fioriti Editore, Roma 2016.

Gaston, A., Genealogia dell’alienazione, Feltrinelli, Milano, 1998.

Harner, M., La via dello sciamano (1980), Edizioni mediterranee, Roma 2010.

Silverman, J., “Shamans and Acute Schizophrenia”, in American Antropologist vol. 69, n. 1, 1967.

Somè, M. P., Dell’acqua e dello spirito. Magia, Rituali e Iniziazione nella Vita di uno Sciamano Africano (1994), Edizioni Il punto d’incontro, Vicenza 1999.

Zumstein, C., “Guarire oltre la coscienza. Il trattamento sciamanico delle malattie mentali”, in Anthropos & Iatria, anno VII, numero III, luglio-settembre 2003.

 

Biografia:

Piero Cipriano è medico psichiatra e psicoterapeuta, di formazione cognitivista ed etnopsichiatrica. Ha lavorato in vari Dipartimenti di Salute Mentale d’Italia, dal Friuli alla Campania, e da qualche anno lavora in un SPDC di Roma. Autore di numerosi saggi, ha pubblicato tra gli altri: La trilogia della riluttanza, che comprende, insieme a La fabbrica della cura mentale, anche Il manicomio chimico (2015) e La società dei devianti (2016), oltre a un volume dedicato allo psichiatra che più di ogni altro lo ha influenzato: Basaglia e le metamorfosi della psichiatria (2018).