Tutto ciò che pratichiamo nella nostra quotidianità è irrimediabilmente sottoposto al dominio delle immagini; il contemporaneo appare, esso stesso, come il dominio dell’immagine sul reale. In quanto emergenza paradigmatica, l’immagine è profondamente narcisistica: obbliga tutto ciò che esiste a diventare immagine esso stesso. 
Già Guy Debord, ne La Società dello Spettacolo (1967), teorizzavala necessità di spettacolarizzare il quotidiano nel quotidiano per cogliere ogni fibra della trama complessa del reale. Esibire ogni cosa a uno sguardo voyeuristico è sintomatico di una certa pratica topologica, una certa necessità propria dell’individuo del presente: poter far uscire da sé tutto per colonizzare l’esterno da sempre luogo dove ha sede l’alterità (Han, 2020, pp.9-11). Il soggetto deve necessariamente affermare il proprio dominio incontrastato sul reale, in quanto luogo in cui si proietta e in cui afferma il proprio principio di esistenza (Lewin, 2005).

Rispetto all’epoca in cui Debord scrive, la rivoluzione digitale ha modificato radicalmente il nostro rapporto con le immagini. Il consumo capitalistico si è deformato nella sorveglianza capitalistica; da pratica durevole è diventata necessità effimera. Nell’attuale stato del capitalismo della sorveglianza, teorizzato da Shoshana Zuboff, le immagini sono informazione attraverso la quale predisporre dei modelli di consumo futuri (Zuboff, 2023, pp. 13-34). Il consumo viene posticipato in un futuro apparentemente prossimo per privilegiare il raccoglimento costante di dati con cui comprendere le dinamiche comportamentali degli individui. 

La deformazione del ruolo dell’immagine a puro capitale permette a questa di mostrare tutto: rivela ogni frammento del reale e consente di attuare dei meccanismi di pura sorveglianza per marginalizzare e omologare il deviante (Han, 2014, pp. 9-21). Questo panorama rende la società contemporanea trasparente, come nella definizione del filosofo coreano Byung-Chul Han:

Le cose diventano trasparenti quando si liberano di ogni negatività, quando sono spianate e livellate, immesse senza opporre alcuna resistenza nei piatti flussi del capitale, della comunicazione e dell’informazione. Le azioni diventano trasparenti quando si rendono operazionali […]. Il tempo diventa trasparente, quando è ridotto alla successione di un presente disponibile (Han, 2014, p.9).

La trasparenza si traduce nella necessità di esporre qualsiasi cosa, «ogni soggetto è l’oggetto pubblicitario di sé stesso» (Han, 2014, p.25).
 

In questo frangente si inserisce il corpo. Quotidianamente vengono prodotte milioni di immagini che definiscono topografie di corpi esistenti. Condivise sui social network, forniscono ciò che Zuboff chiama surplus comportamentale dati residui che influenzano la profilazione degli individui (Zuboff, 2023, pp.75-108). Per questa ragione, anche 
Il corpo fisico ha modificato drasticamente la sua funzione: da produttore di oggetti  a produttore di immagini e di informazioni dunque di capitale.

Costruendosi attorno alla dialettica dell’immagine, il soggetto derealizza il reale (Han, 2022, pp. 23-33) poiché, in un mondo abitato dagli oggetti, questi perdono la loro valenza di fronte all’importanza crescente delle informazioni. Han teorizza questa derealizzazione come sintomo di un distacco progressivo dalla materialità degli oggetti per cui «La finestra digitale (window) assottiglia la realtà riducendola a informazioni che noi registriamo. Non avviene alcun contatto fisico con la realtà, derubata della propria presenza […]. La percezione perde corpo» (Han, 2022, p. 28).

Inserito negli ambienti digitali, il soggetto perde la sua fisicità,si dematerializza. 

Prima di cominciare a delineare il rapporto tra individuo e ambiente digitale  è necessario  accordarsi a due riferimenti fondamentali per le teorie del corpo: da un lato il corpo della biopolitica teorizzato da Michel Foucault, dall’altro la figurazione del postumano [1] come congiunzione ibrida tra realtà eterogenee, umane e non umane, organiche e inorganiche, riferendoci agli studi di Rosi Braidotti e Donna J. Haraway. 

Nell’odierna società della prestazione, la sorveglianza politica individuata da Foucault è decisamente mutata. Non esiste più alcun controllo esterno repressivo, ma ciascun individuo è portato ad autocontrollarsi attraverso le proprie preferenze (Han, 2016, pp.17-22). 

Della stessa dinamica positiva risentono anche gli studi sul postumanesimo. Se, per Haraway, la figurazione del cyborg rispondeva a logiche invasive provenienti dall’esterno (2018, p.80-95), così come per Braidotti lo stimolo alla differenziazione e coesistenza è causato dalla necessaria presenza di altre realtà (Braidotti, 2017, p.10), nel presente non è più l’altro a invadere l’individuo immaginando nuove forme di coesistenza, ma è il soggetto a invadere il reale per fagocitare in sé tutto ciò che è altro. L’individuo compie l’omicidio dell’alterità (Baudrillard, 2007, pp.21-24) in favore dell’illusione dell’immortalità (Ibidem) della soggettività. 

 


La pratica topologica del corpo contemporaneo


 

La pratica topologica rappresenta il comportamento di un organismo come il risultato di un campo in cui diverse forze lo penetrano e lo attraversano, determinandone il rapporto con la realtà.
 Nella teoria di Kurt Lewin il corpo appare distorto da sé stesso in quanto  è lo spazio di vita che delimita ciò che esiste per la persona ciò che dunque è incluso nel campo e ciò che per quella stessa persona non esiste.  Poiché il comportamento è funzione dell’interazione tra la persona e l’ambiente psicologico definito come quella parte di tale spazio di vita che racchiude le persone, le loro attività e gli oggetti con i quali interagiscono allora il corpo, in quanto elemento dello spazio, permette all’individuo di filtrare la realtà. 

Emerge, pertanto, la necessità di stabilire quale rapporto sussista tra corpo e reale, tra corpo e immagine e tra immagine e digitale. Qui, il concetto lewiniano di topologia è utile a comprendere in quale spazio – o in quale assenza di spazio – il corpo esista nel confronto con il suo opposto: ciò che è altro rispetto al corpo. Se, infatti, il corpo abita lo spazio, allora è un oggetto, una cosa, mentre la sua natura nello spazio del digitale è l’informazione, una non-cosa (Han, 2022, pp.7-14). 
Poiché tuttavia l’atteggiamento topologico agisce come disvelamento di una dimensione essenzialmente interna nello spazio esterno, il corpo si ritrova attanagliato da un’ambivalenza: l’organico si proietta nel reale attraverso la sua immagine che si rapporta alla dimensione del digitale. Secondo Paul Virilio, la pratica di appropriazione del reale porta ad una progressiva spoliazione futura del mondo (2002, p.19), in cui l’individuo sembra prodursi nel tentativo di sabotarsi. In un reale dominato dal progresso tecno-scientifico, Virilio teorizza la scomparsa dell’uomo biologico in favore della sua sostituzione in quanto uomo digitale.

In questo contesto, anche gli oggetti, come gli individui, non hanno più valore nella loro materialità, quanto più nella loro informatività. La società della infocrazia non è una società della materialità, del consumo di oggetti, ma una società dell’immaterialità, del consumo di informazioni (Han 2023, pp.18-20).

Tramite i software più evoluti e le intelligenze artificiali è possibile creare un’immagine senza alcun referente reale. L’immagine del corpo è un prodotto di questa dinamica perversa: simula il corpo, lo sfrutta in quanto feticcio capitalistico (Baudrillard, 2012, pp.15-16) e ne teorizza la progressiva sparizione dallo spazio del reale (Han, 2023, p.37). 
Non si ricerca più una struttura, non si demistifica l’immagine, ma la si assume nella sua interezza in quanto possibilità trascendente. Poiché il corpo è spietatamente topico, la sua immagine è simulacro e contiene in sé la trascendenza in quanto effimera simulazione degli oggetti. Il corpo è proiezione fisica del soggetto nel reale (Nancy, 2014, pp. 26-31), mentre la sua immagine è proiezione utopica (del soggetto) nel digitale (Han, 2015, pp. 21-28).

 

Fondamentalmente, il corpo è stato considerato dalla filosofia strutturalista francese come oggetto sul quale lo stato impone una dinamica di controllo consumistica. Perpetuando la vita dell’individuo, imponendo la vita contro la morte, lo stato attua meccanismi di sorveglianza politica volti a imporre un modello necessariamente produttivo. Il passaggio fondamentale, compiuto da Byung-Chul Han, vede la sorveglianza politica tramutarsi in sorveglianza capitalistica, per cui gli individui non sono più esortati da un elemento esterno a produrre incessantemente, ma si autoimpongono di prodursi costantemente in favore di una logica iperproduttiva (2020, pp.133-143). La società del controllo, della biopolitica, si è deformata in società della prestazione e il soggetto di prestazione cerca di appropriarsi di qualsiasi cosa che lo circonda affinché il reale diventi una sua narcisistica proiezione. 

In questo scenario, Il corpo sembra perdere la propria limitatezza per essere sfruttato e abusato, gli oggettivi limiti fisici devono essere accantonati in favore di una sovracapacità di adattamento allo stress, alle ore infinite di lavoro, all’alienazione nel compito. Il soggetto di prestazione perde la propria identità nel compito di prodursi senza sosta, supera i propri limiti fisici e cognitivi per sfruttarsi a prodursi. In L’illusione dell’immortalità, Baudrillard riflette su come l’alienazione sia accompagnata all’impossibilità di concepire la morte. Citando l’esempio della clonazione, l’autore teorizza quanto questa pratica costituisca una possibilità di lotta continua:

Si parla comunemente della lotta per la vita contro la morte, ma c’è anche una minaccia opposta, che fa sì che si lotti contro la possibilità di non morire. Alla minima esitazione per la morte […] gli esseri umani diventano ancora una volta indicibili, identici gli uni con gli altri – e dunque immortali (2007, p. 21).

La creazione di un simulacro disincarnato accompagna questa prospettiva, in cui non sarà più possibile identificare l’essere umano in quanto tale: «con la fine della selezione naturale, l’umanità contravviene alle leggi dell’universo, e così facendo effettivamente rischia di scomparire». In questa avversione all’ordine naturale delle cose, nella nuova utopia del genere umano basata sull’evoluzione, si provoca un’inevitabile involuzione «processo che consiste nella perdita della propria specificità» (Baudrillard, 2007, p. 32). Il corpo viene portato all’esasperazione nella speranza che esso non perisca. Protrae il lavoro all’infinito per sostituirsi con una copia privata della propria identità. In questa ricerca di un’immortalità eco di fantasie ataviche sulla vita eterna, il corpo si nega in favore dell’illimitatezza dell’immagine. 

Nel regime della biopolitica, la necessità di perpetuare incessantemente la vita si rapporta a tutti quei fenomeni atti a migliorare la vita stessa: il fitness, la chirurgia estetica, l’alimentazione controllata. Per poter essere produttivi in un sistema di necessaria presenza del corpo bisogna incrementare le proprie capacità di resistenza. Da qui, l’ibridazione con tecnologie che vogliono cercare di superare la sua natura effimera e, dunque, perdurare.

Questo sistema di ipostatizzazione porta, fondamentalmente, alla rieducazione del divergente al convergente: tutto deve indirizzarsi verso un comune interesse (Foucault, 1979). Anche il postumanesimo di Haraway prevede una convergenza di comuni interessi in cui

Cyborg e specie compagne riuniscono ciascuno l’umano e il non umano, l’organico ed il tecnologico, il carbonio ed il silicio, la libertà e la struttura, storia e mito, ricchi e poveri, stato e suddito, diversità e impoverimento, modernità e post-modernità, natura e cultura in modi inaspettati (2018, p.84).

Questa figurazione futura dell’essere umano è luogo d’incontro tra istanze differenti in cui la produzione viene potenziata nella costruzione di una nuova identità ibrida. Il Cyborg è esso stesso un modello di produzione poiché sottoposto a un controllo produttivo. Nelle alleanze dei corpi teorizzate da Butler, i corpi si fondono in un sistema complesso per cui si identifica una nuova realtà di popolo: attiva, capace di rovesciare sistemi di potere. La filosofa vede in questa nuova emersione la possibilità di costruzione di un’identità collettiva che può riportare il corpo a essere elemento politico (Butler, 2017, pp.153-193). Tuttavia, questa costruzione olistica elaborata da Haraway e Butler prevede, all’opposto, un sistema di conformità politica.

L’alleanza dei corpi non implica alcuna rivoluzione, non rompe, di fatto, i legami storico-temporali del sistema politico. Walter Benjamin, in Per la critica della violenza, cita lo sciopero politico come elemento non rivoluzionario, poiché elabora un nuovo ordine sociale attraverso delle costanti concessioni, senza una rottura radicale. La massa di corpi di Butler non ha, pertanto, la portata rivoluzionaria dello sciopero generale proletario di Benjamin: non rompe alcun rapporto economico e politico; non interrompe il flusso costante della storia. Il passaggio dal sistema biopolitico al sistema di prestazione neoliberista non vede più il corpo, o l’alleanza dei corpi, come elemento rivoluzionario. Anche Mark Fisher, nel saggio Realismo Capitalista, parla di un corpo sofferente: «La sensazione è che “manchi qualcosa”, ma questa non si traduce nella considerazione che tale misterioso e introvabile appagamento possa essere raggiunto solo al di là del principio di piacere: si tratta in buona misura di una conseguenza di un’ambigua situazione» (Fisher, 2018, p.59).

Nella contemporaneità, il corpo non possiede l’importanza che gli è propria. Sono, invece, le immagini e le rappresentazioni del corpo a possedere ancora una certa completezza. Sono figlie di un contesto culturale che si articola in una progressiva stratificazione dei messaggi: trasformano e modificano irrimediabilmente il significato del reale. L’estensione dell’immagine crea nuovi campi di ricerca e apre ad altre vie interpretative. È rizoma, infinita e illimitata: connessa – potenzialmente – con qualsiasi cosa. Fondamentalmente, i territori dell’immagine sono opposti a quelli della fisicità del corpo. 
Il corpo è topia, l’immagine è utopia, luogo infinito delle possibilità. 


Nel saggio Atopia del reale. Utopia delle immagini, Baudrillard teorizza la potenza generatrice dell’immagine: in un reale sempre più derealizzato in cui manca la componente fondamentale del riconoscersi dell’individuo al suo interno, le immagini costituiscono le tracce su cui  costruire l’illimitatezza stessa della libertà (Baudrillard, 2016). Se il reale è necessariamente vincolato al suo essere oggetto, l’immagine è simulacro disincarnato e, in quanto tale, non risponde più alla logica del referente originario da cui è stata prodotta. Nella rapidità del sistema di diffusione delle immagini, esse sono diventate copia infinita del reale, con cui  hanno perso ogni possibile nesso. Il vanishing point è simulazione assoluta, o illusione dell’illusione; gli oggetti vengono esautorati dalla loro funzione politica per farsi merce di una vendita spasmodica senza alcun contenuto (Baudrillard, 2012, pp.11-35). 

Han, a tal proposito, parla di un profluvio di immagini, come un bombardamento costante e illimitato in cui non è possibile distinguere criticamente ogni singola informazione per comprendere quale sia il luogo abitato dalla verità. Di conseguenza, l’immagine non abita la verità, bensì la verosimiglianza. Non essendo vincolata ad alcun paradigma oggettivo, essa costituisce il regno della possibilità. Così, il reale sembra aver assorbito la struttura della rete in una dipendenza impossibile in cui tutto è meccanismo senza fine di collegamenti sporadici ed effimeri. Il reale è un ipertesto rizomatico e, in quanto tale, rende possibili molteplici letture da molteplici punti di vista differenti. Nel pensiero di Theodor Nelson, in un sistema chiuso si vengono a generare relazioni aspecifiche tra gli elementi coinvolti. Considerando, invece, un sistema aperto come la società contemporanea, queste relazioni diventano esponenzialmente infinite: la struttura della realtà ricalca il sistema cibernetico in un groviglio consolidato di elementi: «la struttura delle idee non è mai sequenziale, né lo sono i nostri processi mentali» (Nelson, 1987, p.1/16). 

Le infinite relazioni della realtà ricalcano le infinite relazioni tra gli elementi attraverso i link digitali. Le relazioni tra gli individui, nonché tra i corpi, assumono la stessa dinamica: sono basate sul modello ramificato del rizoma, in cui non vi è struttura gerarchica ma infiniti rapporti concatenati. L’ipertesto è paradigma di un’eterogeneità che sancisce la fine del periodo dell’essere – inteso come ordine logico e schematico della realtà in frasi o momenti consequenziali – per aprirsi l’infinita gamma di possibilità dell’esperienza del sensibile.

Così, l’immagine, nella forma aperta del rizoma (Deleuze, Guattari, 2017), penetra un reale altrettanto aperto con la violenza rizomatica teorizzata da Han, che priva la realtà della sua naturalezza, perpetuando un’uguaglianza progressiva.

La violenza non è solo il né-né repressivo o l’aut aut ricattatorio, ma anche l’infinito e…e…e…. L’addizione dell’Eguale accelerata, l’eccesso di positività provoca una violenta abreazione […] La smisurata addizione del positivo può benissimo scuotere l’essere, ma porta a una proliferazione dell’essente che è, a sua volta, violenza (Han, 2020, p. 167).

Colto da questa violenza, anche il corpo è così obbligato a deformarsi.

Cecilia Alemanni, nel corso dei suoi studi sul pensiero di Braidotti e Butler, ha impostato una ricerca critica sul corpo fondata sulla coesistenza di realtà ibride. Si modifica radicalmente la struttura del corpo, che diventa ibrido tra mondi difformi e molteplici. La critica cerca di conciliare ciò che è umano con ciò che è non-umano attraverso forme di coesistenza e nuove possibilità di trasformazione. L’immagine e il corpo si indirizzano verso una futura convergenza.

Alemanni cerca di insistere su come il perfezionamento infinito del corpo umano generi una comunione tra umano e non umano mentre, tuttavia, è fondamentale comprendere che il prodotto delle macchine – le informazioni – configura un bisogno narcisistico di interiorizzare il non-umano, deformato attorno all’essere umano: si cerca di controllare morbosamente il reale. Poiché l’individuo – come abbiamo già citato riferendoci a Han – è individuo positivo, non cerca nulla, oltre a sé stesso, fuori dal sé. 

 

La poetica del corpo e della sua immagine

 

Nella comprensione di questi nuovi paradigmi, numerosi artisti contemporanei immaginano, attraverso pratiche più o meno ortodosse, nuove geografie per riuscire a comprendere quale sia la riuscita di una certa poetica del corpo

Nell’accostare elementi così eterogenei e dispersi, queste ricerche non vogliono mostrare una netta separazione tra reale e digitale. Non vogliono porsi nell’atteggiamento religioso, come nell’interpretazione di Agamben, per cui «Religio non è ciò che unisce uomini e dei, ma ciò che veglia a mantenerli distinti» (Agamben, 2005, p. 85) ma propongono, invece, un atteggiamento profondamente profanatorio, facendo un uso particolare delle immagini utilizzate. E poiché «la profanazione implica […] una neutralizzazione di ciò che profana» le opere degli artisti non si privano della loro aura necessaria; esse devono, invece, perdere l’aura per essere «restituite all’uso»  (Agamben, 2005, p. 88). In altre parole, non è l’opera a privarsi del suo contesto, ma il contesto ad ampliarsi nelle coordinate che sono state delineate.

Prima di tutto, il corpo – che è necessariamente fisico – appare aver superato la concezione stereotipata e labile di bellezza esteriore. Il regista canadese David Cronenberg, nel suo ultimo film Crimes of the Future (2023), esemplifica dichiaratamente questa concezione: in un universo apparentemente distopico una coppia di performer, Saul Tenser e Caprice, si cimenta in nuove pratiche artistiche che coinvolgono il corpo di Tenser nella produzione di nuovi organi interni. Le modifiche superficiali del corpo non interessano più a nessuno, ciò che importa è quanto il corpo possa produrre deformazioni sottocutanee autoindotte. Cronenberg profetizza una bellezza interiore intesa come costruzione estetica derivata dalla pratica di creazione di elementi nuovi, sensibili, che anatomizzano la realtà e ne riproducono i  paradigmi in  forme profondamente radicali come quelle di nuovi organi. Questi nuovi organi appaiono come objets inutiles, puri sforzi dell’organismo di superare i limiti fisici – e morali – del corpo. 

Byung-Chul Han contrappone al bello naturale, che «si sottrae alla “comunicazione”, la quale conduce solo all’adattamento dello spirito all’utile» (Han, 2019, p. 36), la bellezza digitale, che «costituisce un levigato spazio dell’uguale che non permette alcuna estraneità» (ibidem). In particolare, il filosofo sottolinea una differenza necessaria nella temporalità del bello:: «La temporalità del bello naturale è il già del non-ancora. Esso si manifesta nell’orizzonte utopico di ciò che viene. La temporalità del bello digitale è invece il presente immediato senza futuro, senza storia» (Han, 2019, pp.36-37).

Siamo così impiegati negli ambienti digitali che la bellezza dell’immagine dell’arte è per noi una bellezza levigata, come quella del digitale. Han si riferisce a questa specifica condizione come all’assenza di intermediazione tra occhio e significato: l’opera d’arte si fa autoesplicativa nella sua forma e nelle superfici lisce che ne sono costitutive. La distanza tra spettatore e opera si annulla, tant’è che egli vorrebbe persino toccarla, farne parte. Questo è ciò che accade anche agli spettatori di Crimes of the Future, di fronte alle performance di Saul Tenser e Caprice. Il bello digitale è, infatti, vicino. Vuole essere toccato con mano. Mentre il bello naturale è lontano, possiede una lontananza auratica necessaria alla sua comprensione (Han, 2019, p. 37). Il bello naturale è esterno, mentre il bello digitale è interno.

La poetica del corpo e della sua immagine assume forme differenti nelle ricerche artistiche contemporanee. Una tendenza generale è quella di profanare il corpo per mostrare quanto – come si è detto – la sua utilità si sia persa nella sua mistificazione. Felix Gonzalez-Torres e Elmgreen & Dragset mostrano un corpo che cerca di sparire nella sua rappresentazione, teorizzano la sua mancanza privandolo di ogni riferimento oggettivo alla realtà. Thomas Ruff e Jon Rafman insistono, invece, sulla struttura stessa del sistema in cui il soggetto è inserito: creano architetture di significato che espandono la potenza espressiva delle immagini nello spazio del reale. Ruff mostra dei corpi inseriti in un flusso digitale, Rafman li preleva e li deforma per costruire astrazioni estetiche. Entrambi rompono gli equilibri della religione capitalistica, mostrando come possa perdurare un uso delle immagini avulso dal circolo vizioso del capitale.

 

Felix Gonzales-Torres, Untitled (Loverboy), 1989. Tessuto trasparente blu e dispositivo per la sospensione. Courtesy Felix Gonzales-Torres Foundation, 2023.

 

Riflettendo sullo spazio espositivo, Felix Gonzales-Torres (Guàimaro, 1957 – Miami, 1996) crea opere che interagiscono con il contesto espositivo. Nella produzione dell’artista cubano lo spazio della mostra si configura come cassa di risonanza:  il luogo in cui i processi di trasformazione fisica già presenti nei lavori ingenerano mutamenti emotivi. Lo spettatore è invitato a compiere un gesto, partecipando al processo di creazione artistica. Si dà spazio per lo sviluppo della dimensione interiore, dell’intimità, tanto che episodi di vita dell’artista fuoriescono dalla pura dimensione plastica dell’opera per «farsi letteralmente comunione fra corpo e spirito» (Poli, Bernardelli, p.79). Le opere di Gonzalez-Torres immaginano sempre un corpo tramite la sua assenza: quello dell’artista, del suo compagno Ross morto di AIDS o dello spettatore. 

In Untitled (Lovers-Paris) del 1993, l’artista espone due sottili cavi con bulbi luminosi che, affiancati, si fanno eco della malinconia di un amore perduto. Il ricordo invade lo spazio del visitatore, che si trova di fronte alla metafora di due corpi privati di ogni accenno soggettivo. I cavi luminosi chiedono al visitatore di essere toccati, per sentire il calore delle lampadine, metafora del calore di un corpo umano. 

La dimensione del ricordo di un corpo assente emerge anche nella più famosa Untitled (Perfect Lovers) del 1987-1990. Qui, due orologi sincronizzati cominciano il loro cammino nel tempo, che inevitabilmente provoca oscillazioni. Ben presto però perdono  il momentum muovendosi  a velocità diverse.  Nell’opera, lo sfasamento temporale diviene simbolo di una rottura, di una distanza fisica e temporale tra i due amanti.

 

Felix Gonzales-Torres, Untitled (Lovers-Paris), 1993. Installata al tempio di Teseo come parte dell'esposizione Felix Gonzales-Torres, Vienna, Austria. Courtesy Jasper Sharp, 2023.

 

Il duo scandinavo formato da Michael Elmgreen (Copenaghen, 1961) e Ingar Dragset (Trondheim, 1969) si interroga sulla dinamica contemporanea del consumo in relazione ai corpi e agli individui. In occasione della  mostra Useless Bodies? presso Fondazione Prada (Milano, 2022), gli artisti hanno occupato uno spazio di oltre 3.000 m2, esplorando la condizione post-industriale del corpo, in cui la fisicità sembra essere votata alla sua completa sparizione e il corpo, con le sue informazioni, è divenuto nuova merce di consumo: i nuovi scambi necessari in cui si ridefinisce costantemente l’identità individuale si affrontano in una dialettica di presenza, assenza e costrizione. Il corpo non è più una dimensione attiva, ma diventa il luogo in cui simulare la partecipazione alla società – che è progressivamente rarefatta, effimera. Allo stesso modo, i mezzi di comunicazione, gli incontri e gli scambi culturali si sono smaterializzati: si svolgono attraverso degli schermi. 

 

Elmgreen & Dragset, Useless Bodies?, 31 marzo - 22 agosto 2022. Veduta della mostra Useless Bodies? presso Fondazione Prada, Milano. Courtesy Andrea Rossetti, 2023.

 

All’interno dell’esposizione, l’installazione Doubt (2019) riprende  l’episodio biblico dell’incredulità di San Tommaso (Giovanni, 20, 24-29) e lo trasfigura, dandogli  un significato fortemente simbolico: una mano di lacca inserisce l’indice nei solchi di una lastra di acciaio. Quella mano e le ferite non appartengono a nessun corpo. In Doubt Ogni oggetto è stato  esautorato della sua funzione, strappato all’apparato di cui fa parte per diventare  veicolo dell’inutile e dell’ineffabile. Persa la sua materialità, la sua tattilità e la sua profondità, il corpo – anche quello miracolato di San Tommaso – diventa feticcio del consumo visivo. 

 

Elmgreen & Dragset, Doubt, 2019, acciaio inossidabile lucidato, oriol, alluminio, bronzo, lacca, 165 x 85 x 45 cm. Courtesy Elmgreen & Dragset, 2023.

 

Nella pubblicazione edita da Fondazione Prada, Braidotti parla della costruzione di un’architettura di significato in cui il corpo sembra non esistere più: Does the body still exist?.
Anche Kate Crawford, uno dei nomi più importanti nelle ricerche internazionali sull’IA, ha analizzato la dinamica del consumo del corpo e la sua parcellizzazione all’interno degli ambienti di sorveglianza digitale, dimostrando quanto le intelligenze artificiali stiano portando il corpo alla sua evaporazione.
La potenza espressiva dell’opera di Thomas Ruff (Zell, 1958) sta nelle conclusioni che il fotografo trae sul mezzo: la fotografia mente perché pretende di rappresentare la realtà. 
Ruff parcellizza l’occhio fotografico, plasma l’immagine per ricalcare la struttura del sistema digitale, che costituisce un campo di ricerca sconfinato. La società stessa è per il fotografo repertorio di forme (Bourriaud, 2004, p.11) da cui attingere e ripescare momenti sopiti sotto la coltre del tempo e manipolandoli per costruire una nuova immagine. 

Nella serie Nacht (1992-1996) la suggestione deriva dalle immagini raccolte durante la Guerra del Golfo (1990-1991), in cui la tecnologia per l’amplificazione della luce veniva utilizzata per identificare obiettivi e raccogliere informazioni. Lo scatto riesce a catturare tutta la luce disponibile nell’ambiente e amplificarla attraverso un ampio raggio di ripresa. Scattate nelle periferie di Dusseldorf, le immagini della serie Nacht (1992-1996) «richiamano espressamente le tecnologie di sorveglianza» (Pinotti, Somaini, 2016, P. XIII).

 

Thomas Ruff, Nudes tr08, 2000. Stampa a pigmento vintage, 122x155cm. Courtesy Thomas Ruff, 2023.

 

Sfruttando ancora una volta il found footage, nella serie Nudes (1998-2000) Ruff elabora vere e proprie miniature attraverso un processo di pixelizzazione delle immagini.  Compie una vasta ricerca sulla fotografia pornografica, di scarsa qualità e a bassa risoluzione, per poi applicare una struttura reticolare microscopica che rende i pixels visibili solo attraverso un ingrandimento dell’immagine e inserisce, in superficie,  delle sfocature  attraverso la tecnica della fuzziness. Con questo processo, l’artista lascia emergere velatamente l’oscenità delle immagini, lasciando al fruitore il tempo di concentrarsi sulla loro struttura, sul moto dei corpi all’interno di uno spazio intimo, conchiuso e fondamentalmente inaccessibile

 

Jon Rafman, The Nine Eyes of Google Streetview Project, 2008- in corso. Courtesy Jon Rafman, 2023.

 

Jon Rafman (Montreal, 1981), conseguentemente alla nascita di Google Streetview nel 2007, inizia a collezionare screenshot estratti dal software per sradicarne la concezione fondamentale.  Il software di Google nasce, infatti, con l’obiettivo di mappare lo spazio fisico e trasporlo nell’ambiente del digitale. Egli applica, invece, un occhio ben definito e connotato, legato a una specifica dimensione etica ed estetica. L’artista cerca di far emergere questa dimensione soggettiva dello sguardo del software;  si pone così come ambasciatore della Internet Awareness teorizzata dall’artista Guthrie Lonergan. L’operazione di Rafman è marcatamente etica, l’artista stesso dichiara che «l’esperienza estetica per me è auto-giustificata… è importante, per me, mantenere una separazione netta tra arte… politica e teoria critica (Recinos, 2018), applicando un concetto caro allo scrittore russo Premio Nobel Iosif Brodskij, per cui “l’estetica è madre dell’etica”» (Brodskij, 1988, p. 47).

Se, per Zuboff, Google rappresentava l’istituzione principe nel riutilizzo dei dati, per Rafman la sorveglianza assume caratteristiche differenti: è insita nella composizione tecnica dell’immagine.

 

Per un’infiltrazione positiva


Sulla base di queste istanze artistiche e teoriche urge ridefinire radicalmente l’approccio verso ciò che è corpo, per una nuova topologia del corpo contemporaneo. Ad ora, infatti, non esiste una dimensione che sia esterna all’individuo: l’esterno è fagocitato nell’interno,  il pubblico è espressione del privato e dell’intimo. Non si assiste più a un’invasione repressiva, ma ad un’appropriazione totalizzante: l’individuo del presente vuole possedere tutto ciò che lo circonda. Si tratta di una bulimia estrema in cui ogni cosa viene interiorizzata per essere rielaborata e poi esposta.
 Il soggetto non è più figlio di una eterogeneità che lo assalisce violentemente, ma si assiste a una violenza del positivo (Han, 2020, pp.9-11). 

Il reale è divenuto, per sua natura, estremamente poroso e permeabile. E se l’invasione è stata sempre vista come negatività – ossia come energia esterna – ora è deformazione sottocutanea (Han, 2020, p.21): il soggetto sceglie di adattare l’ambiente in cui si sviluppa ai propri canoni. 
Assistiamo a una contaminazione pervasiva, dove il digitale permea il reale, poiché è il reale stesso che sceglie di mimare una struttura digitale, assumendo le immagini a paradigma della verità. Tuttavia, poiché le immagini non sono più, in alcun modo, vere, il reale si fa luogo del verosimile, luogo delle possibilità plastiche infinite. Da reale oggettivo si modifica in reale soggettivo e soggettivizzato. 

Se è fondamentale, nel lavoro di Francesca Alfano Miglietti, la pratica della contaminazione come alterazione del reale nelle sue forme interne, è evidente quanto l’artificialità del reale modifichi il rapporto tra oggetto contaminato e spazio dell’oggetto (Miglietti, 2011). Non sono le incursioni che modificano ciò che colpiscono per via di un ingresso violento nel sistema, ma sono gli oggetti – permeabili per via delle loro infinite ramificazioni – a mutarsi sulla base di una dinamica imitativo-appropriativa. Come esemplifica René Girard in Dalle Cose Nascoste sin dalla fondazione del mondo: I virus che colpiscono gli organismi non colpiscono e uccidono, ma si adattano per vivere in simbiosi con esso. Finché il corpo può sopportarlo, il virus si comporta come parassita, e non come arma. 

Insomma, non è Il digitale  ad agire deformando il corpo, ma è ora il corpo,  permeabile, a deformarsi nella ricerca di una possibile convergenza con il digitale. Il virtuale e il reale si permeano a vicenda e sono costituiti da strutture ibride, rizomatiche, in cui non vi è più alcuna distinzione sostanziale, ma formale. Il reale, permeato dal digitale, si traspone nel flusso ininterrotto delle informazioni attraverso la dematerializzazione: le cose si trasformano in non-cose, la materia in informazione e il tempo lineare in un flusso infinito (Han, 2022). Il corpo combatte il deperimento con la sua immagine e il reale combatte la morte con la sua trasposizione in elemento iconografico digitale. L’iconosfera diventa infosfera e le immagini viventi diventano informazioni morte (Garcia, 2022).

 

Note

[1] Il termine Posthumanism nasce nel 1977 dal teorico e scrittore Ihab Hassan per definire una nuova tipologia di essere umano che l’autore rende attraverso l’immagine di Prometeo: il post-umano cerca di conciliare inesorabilmente le due dimensioni – tecnologico e biologico, naturale e artificiale, vivo e morto – in cui il corpo dell’individuo è attanagliato. Come Prometeo, l’uomo contemporaneo è un impostore perché nega la partecipazione a una delle due nature in favore dell’altra, rinnega la propria appartenenza divina tradendone le leggi. In I. Hassan (1977). Prometheus as Performer: Toward a Posthumanist Culture?. The Georgia Review, Volume 31, Numero 4.

 

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Biografia

Matteo Scabeni ha studiato presso l’Università Bocconi e l’Università IULM, dove ha ottenuto la laurea magistrale nel corso di Arte, Valorizzazione e Mercato. La sua ricerca si incentra sul rapporto tra corpo e immagine del corpo inseriti negli ambienti di sorveglianza digitali e sulle pratiche algologiche della società contemporanea.