Coscienza naturale e coscienza artificiale.
Un problema di specchi opachi

Questo contributo non ha pretesa di attendibilità scientifica. Ciononostante si muoverà a partire da una serie di suggestioni offerte da alcune scoperte che, negli ultimi decenni, possono contribuire alla costruzione di modelli teorici utili a decostruire la logica vieta che vorrebbe una netta distinzione del naturale e dell’artificio meccanico. Cambiare prospettiva comporta uno sforzo concettuale non indifferente, capace di demistificare le potenti e diffuse narrative incentrate sull’apparente minaccia che le macchine costituirebbero.

In questa direzione, si procederà nel delineare come molte delle narrative che alimentano le reticenze – o forse i timori – degli avversatori dell’intelligenza artificiale, perdano di consistenza nel momento in cui si operino alcuni semplici, ma quanto mai essenziali, cambiamenti prospettici. Ammettendo l’esistenza delle intelligenze artificiali, l’apparente problema legato alla loro legittimità svanisce in una sottigliezza linguistica: infatti, la macchina, dal momento stesso in cui si è fatta stilo con cui tracciare un segno per riferirsi a qualcosa, ha contribuito allo sviluppo delle stesse funzioni cognitive dell’essere umano, affiancandolo nella sua evoluzione e svolgendo un ruolo essenziale nell’emergenza del fenomeno coscienziale. 

Il tema della coscienza, e dunque quello correlato della vita e dell’intelligenza, artificiale o meno che sia, conduce tuttavia su un terreno epistemologicamente sdrucciolevole. Uno degli elementi che rendono tanto tortuoso qualsiasi percorso concettuale che voglia problematizzarne o definirne la natura, è quello piuttosto evidente dell’impossibilità di trovarne una qualsivoglia definizione univoca. Tale condizione ha creato un campo di battaglia aperto con lo schieramento di fazioni trincerate dietro posizioni radicalmente differenti e apparentemente inconciliabili. 

La coscienza è ben lungi dal trovare un assetto concettuale unanimemente accettato. Per quanto autori come il filosofo della mente Daniel Dennett (1993) abbiano tentato di fornire modelli coerenti per cercare di definirne i qualia, le funzioni e i correlati fisiologici, rimane uno degli hard problem su cui un gran numero di meningi speculatrici continuerà certamente a spremersi ancora molto a lungo.

Non a caso, molti di coloro che si oppongono a vario titolo alla missione neuroscientifica ravvisano nella scoperta dei meccanismi fisiologici della coscienza una potenziale riduzione degli stessi a istanze meccaniche e dunque replicabili. Presentendo il pericolo dell’esecrabile violazione della sacra soglia del mistero coscienziale, deprecano ogni tentativo di varco come un furto da tombaroli. Già Alan Turing, padre putativo di tutte le intelligenze artificiali, aveva tentato nel suo pionieristico articolo Macchine calcolatrici e intelligenza (1950) di rispondere alle critiche mosse da questi avversatori.

É proprio Turing a segnalare un punto essenziale all’interno del dibattito che coinvolge tanto la sussistenza delle macchine intelligenti quanto il possibile progresso delle nostre conoscenze in fatto di coscienza tout court. Nel suddetto testo con il tono tipicamente pacato della sua prosa – risponde al cosiddetto argomento «della testa sotto la sabbia» (Turing 1950 p. 132), che ancora va per la maggiore tra i critici dell’intelligenza artificiale e che si può formulare in questa forma esplicita: «Le conseguenze delle macchine pensanti sarebbero terribili. Speriamo e crediamo che non possano esistere» (ibid.).

Alla constatazione di come questa linea di ragionamento “contagi” (ibid.) in un modo o nell’altro la maggior parte di coloro che si accostano a questo tema, Turing risponde in questo modo:

 

Ci piace credere che l’uomo sia in qualche modo misterioso superiore al resto del creato. Meglio per lui se può dimostrare di essere necessariamente superiore, perché allora non vi sarà pericolo che lui possa perdere la sua posizione di comando. La popolarità dell’argomento teologico è chiaramente connessa con questo sentimento. Probabilmente esso è molto forte tra gli intellettuali, dato che costoro valutano il potere del pensiero più degli altri, e che sono più inclini a basare la loro credenza nella superiorità dell’uomo su questo potere. Non credo che l’argomento sia abbastanza solido per una confutazione. Sarebbe più appropriata una consolazione, e potrebbe magari essere ricercata nella trasmigrazione delle anime. (Turing, 1950, p.132).

 

Per Turing il problema si pone unicamente all’interno di una cornice epistemologica fondata su un irriducibile antropocentrismo. Per il matematico inglese, domandarsi se una macchina sia in grado di pensare sarebbe dunque di per sé illegittimo, dal momento che la stessa categoria del pensiero umano presenta irriducibili ambiguità che minano ogni possibilità di definizione univoca. Da qui, una delle più celebri svolte del suo pensiero: nell’impossibilità di sapere se un qualunque essere pensi o meno, l’unico modo che una macchina avrebbe di dimostrare questa capacità sarebbe quello di superare un gioco dell’imitazione passato alla storia come test di Turing , ingannando un essere umano ritenuto depositario dell’abilità in esame. Per chiarire questo punto, proviamo ad analizzare un altro argomento proposto nel medesimo testo: «Fino a quando una macchina non potrà comporre un concerto o scrivere un sonetto in base a pensieri ed emozioni provate, e non per la giustapposizione casuale di simboli, non potremmo essere d’accordo sul fatto che una macchina eguagli il cervello, cioè che non solo scriva, ma sappia d’aver scritto» (Turing, 1950, p. 132).

Questo argomento dell’autocoscienza, originariamente espresso nel 1944 dal neurochirurgo Geoffrey Jefferson, fa da corollario e contribuisce alla consistenza coriacea del problema della coscienza. Per quanto assolutamente efficace a livello argomentativo,  anche questa via conduce tuttavia a una problematica posizione aporetica. Se infatti non è possibile provare che una macchina “senta” qualcosa nel compiere un’operazione, è anche vero che è impossibile determinare se un’altra persona, o un qualunque altro significativo (sia esso artificiale, animale, umano o vegetale) sia effettivamente cosciente di ciò che fa. 

Parafrasando il problema come articolato da Jefferson, lo si potrebbe assimilare alla stessa semantica su cui si orientano i discorsi sull’eventuale “autenticità” dell’arte. Se è vero infatti che difficilmente una macchina potrà convincerci o dimostrarci di poter vivere le stesse emozioni che supponiamo un essere umano provi durante un atto performativo è altrettanto difficile definire oggettivamente se un artista possa “sentire” la sua performance, magari serializzata nella reiterazione dei concerti, o la stia semplicemente riproducendo in modo del tutto meccanico.

Il recente clamore sensazionalistico levatosi dal dibattito su LaMda (Language Model for Dialogue Applications), un chatbot sviluppato da Google che, secondo l’ingegnere informatico Blake Lamaine, avrebbe “dimostrato” di essere cosciente, sembra rientrare all’interno di questa stessa linea argomentativa per la quale, per dirsi intelligente, un sistema debba esprimere e dimostrare una qualità emotiva interna1.

Tuttavia, la presunta capacità di LaMda di superare il “test” di Turing, può essere utile per osservare come questo approccio teoretico finisca ugualmente per cadere in un ragionamento circolare. La capacità emotiva del sistema comunicazionale di Google, infatti, non sarebbe desunta a partire da qualche prova effettiva, ma, piuttosto, sulla capacità di provocare visibili reazioni emotive al proprio “interlocutore” umano. Ciò che si può osservare, semplicemente, è che un essere umano, in un contesto linguistico, quindi emotivamente connotato – essendo il linguaggio stesso uno strumento biologico2 atto alla modulazione emotiva emerso dalla particolare complessità delle istanze sociali della nostra specie – abbia reagito emotivamente al confronto con un altro agente comunicativo. 

Il “caso LaMda” è dunque illuminante principalmente poiché dimostra quanto fallaci si rivelino gli assunti antropocentrici – come quello di Jefferson – che tentano di determinare l’intelligenza o la coscienza di un agente sociale a partire dalla somiglianza ravvisabile tra i suoi comportamenti e i nostri. Seguendo questa linea, questa “somiglianza ravvisabile” ci renderebbe capaci di provare empatia verso questi agenti. È quindi assolutamente probabile, anzi scontato, che una macchina sviluppata appositamente per costruire pattern complessi di dialogo interattivo come LaMda ci risulti  più “viva” e cosciente di un limulo o un’oloturia, senza che questo sia necessariamente vero o ci dia alcun dato sugli effettivi stati interni della macchina o le loro connotazioni. Si potrebbe dire, prendendo in prestito le parole di Samuel Butler, sul cui lavoro si tornerà a breve, che: 

 

Non ci riesce facile simpatizzare con le emozioni di una patata o con quelle di un’ostrica, perché la patata non fa chiasso quando la lessano, come non fa chiasso l’ostrica quando viene aperta: mentre nulla per noi è più eloquente del chiasso; ne facciamo tanto sulle nostre sofferenze! E siccome ostriche e patate non ci infastidiscono con manifestazioni di dolore, pretendiamo che non sentano nulla. Ed effettivamente non sentono nulla dal punto di vista del genere umano: ma il genere umano non è tutto (Butler, 1975, p. 264).

 

Tradizionalmente, questa condizione di radicale opacità epistemica prende il nome di Other Mind Problem e si può sintetizzare nell’impossibilità di avere esperienza diretta di una mente esterna rispetto a quella percipiente. La proposta di Turing per uscire da questa problematica posizione è che sia sufficiente che una macchina – organica o meno – riesca a superare una qualche forma di gioco dell’imitazioneperché, in fin dei conti, si accetti più facilmente che essa sia in grado di pensare piuttosto che cadere nel problematico solipsismo del non poter sapere se le espressioni indirette delle coscienze altrui siano “reali” o meno. Sembra quasi che, per considerarle intelligenti, ci aspettiamo dalle macchine la qualità essenziale del poeta secondo Pessoa, quella di essere un «fingitore» che «finge così completamente da fingere che sia dolore il dolore che davvero sente» (Pessoa, 1979).

 

“Un Topo giocattolo in guisa di Uomo”

E tuttavia, circa un secolo prima di Turing, il già citato Samuel Butler, contemporaneo e acutissimo critico di Darwin, aveva già intuito e portato alle estreme conseguenze le deduzioni che si possono trarre da questa sfumata ambiguità epistemologica. Nel suo Unconscious Memory (2012) il polimate inglese, divenuto celebre per essere uno dei primi propugnatori non solo della possibilità, ma dell’inevitabilità del sorgere dell’intelligenza artificiale quale fenomeno naturale4, per rispondere al quesito se «il mistero della vita non possa, dopo tutto, risolversi in nient’altro che nell’arrangiamento di un meccanismo inconcepibilmente intricato» (Butler, 2012) parte da un presupposto molto simile a quello del gioco dell’imitazione di Turing, utilizzandolo però al contrario.

In un famoso esempio egli osserva come per un gattino sia sufficiente che un laccetto si muova per convincersi che questo sia chiaramente animato. Un gatto adulto non cade immediatamente nella stessa trappola, ma basta dargli un giocattolo a molla che abbia qualcosa del movimento di un topo perché questo lo corra a prendere per divorarlo. Tuttavia, facendo un piccolo salto di complessità, se vedessimo un giocattolo capace di «correre per alcune iarde, fermarsi e poi correre di nuovo senza bisogno di ricaricare la molla; e supponendo che esso possa imitare i gesti della nutrizione[5] e il movimento delle zampe con cui il topo si pulisce il muso, non dovremmo supporre lì i restanti fatti della vita anche se assenti?» (Butler, 2015). 

In questo gioco di inganni, constatando che tali macchine esistono, e che tanto i loro meccanismi sono indistinguibili dalla vita «da render più semplice dire che in quel tipo di meccanismo consti “l’esser vivi”» (Butler, 2015) allora, si chiede alla fine, perché «L’uomo stesso non dovrebbe esser considerato a sua volta un topo giocattolo in guisa di uomo, capace semplicemente di andare avanti per settanta, ottant’anni con una carica di molla, piuttosto che qualche secondo?» (Butler, 2015). 

Se dunque la vita stesse semplicemente nella complessità dell’ordito del meccanismo, osserva Butler con lampo profetico: «perché non dovrebbero le macchine al fine farsi tanto complesse quanto noi, o comunque, complesse abbastanza da essere chiamate vive, ed esserlo, a tutti gli effetti, nel senso pieno con cui viventi chiamiamo tutte le cose della natura? Se il problema stesse solo nel loro divenire progressivamente più complesse, allora, certamente, stiamo facendo del nostro meglio per aiutarle» (Butler, 2015).

Nonostante questa linea argomentativa possa apparire il semplice atto di adesione a un meccanicismo spicciolo, è tuttavia l’ulteriore passaggio concettuale del britannico ad aprire, già in tempi non sospetti, una fruttuosa breccia nell’Other Minds Problem. Se infatti da una parte questa argomentazione può essere utilizzata per estirpare ogni forma di vita e coscienza dalla natura, riducendola semplicemente a una catena di macchine che imitano altre macchine, dall’altra, esattamente allo stesso modo, può essere utilizzata per asserire «l’onnipresenza della coscienza in ogni molecola della materia» (Butler, 2015). Infranta infatti la barriera artificiale che distingue l’organico dall’inorganico: «qualunque cosa l’organico sia, lo stesso sarà l’inorganico. […]  Dunque, in certa misura, l’inorganico sarà a sua volta vivo e cosciente» (Butler, 2012).

 

Scalae naturae e storie rimosse

Come detto, Samuel Butler prende piede nelle sue argomentazioni dalla sua piena – e all’epoca poco fruttuosa6 – partecipazione nei dibattiti sulla teoria dell’evoluzione proposta da Darwin nel 1859. E non è quindi un caso, viste le somiglianze tra i due autori, che il già citato filosofo della mente Daniel Dennett (2018, p. 59) inserisca anche le intuizioni patrocinate da Turing all’interno della linea filogenetica della rivoluzione darwiniana. 

Con Darwin infatti le precedenti inclinazioni della scala naturae cambiano di orientamento. Alla fine del ‘700 era ancora diffuso – nella concezione dei naturalisti – l’impianto concettuale aristotelico confluito nel cristianesimo, per cui la vita tenderebbe dal semplice al complesso attraverso una serie di stadi infinitamente differenti tra loro ma comunque preordinati, organizzati in forma di progetto preesistente che avrebbe nell’essere umano, anticamera di Dio, il loro culmine. Dunque, a una concezione della complessità «a cascata dall’alto» (Dennett, 2018, p. 60), subordinata a un progetto e volta alla sua ineluttabile attuazione, si sostituisce con la svolta darwiniana una prospettiva di «ebollizione dal basso» (Dennett, 2018, p. 60), per cui la complessità che anima la vita in tutte le sue forme non è più semplicemente l’adeguata o inadeguata conformazione alla norma del miglioramento permanente, ma acquisisce i tratti di una condizione fragile, governata da leggi cieche che impongono una lotta permanente alla riproduzione compulsiva. 

L’emergenza, il funzionamento e la complessità persino dei fenomeni più numinosi come la coscienza, non sarebbero dunque vincolati ad alcun principio teleologico ab origine del quale svolgerebbero la trama verso un’astratta condizione di miglioramento, ma sarebbero più simili alla formazione di una duna, apparentemente casuale ma soggetta a leggi statistiche, che attraverso l’accumulo di piccole, infinitesimali mutazioni nel corso del tempo, portano alla formazione di strutture imponenti, mobili e inestricabilmente interconnesse al – se non indistinguibili dal – loro ambiente. In questo scenario persino l’essere umano, ex perla del cosmo, si vede ridotto a nient’altro che una creatura tra le altre, nuda e inerme, che combatte in mezzo a un mondo ben meglio equipaggiato per ogni desolato passo con cui, sempre un secondo in ritardo, cerca di sfuggire alla risacca della morte che già gli lecca i talloni e lo circonda, inesorabile, come un mare.

La teoria freudiana rappresenta similmente una coscienza intenta, come il barone di Munchausen7, a tirarsi fuori per capelli dal cieco automatismo della natura. L’inconscio freudiano, con le sue inquietanti e patologiche insorgenze, fa da doppio concettuale all’origine naturale dell’essere umano quale condizione da cui separarsi. La discendenza e la comunanza che ci lega, passando dalle scimmie, alle stesse origini della vita e al mescolarsi degli elementi negli ingranaggi del cosmo, diviene una storia rimossa, che tuttavia come un morto irrequieto gratta ancora sotto la lapide, nella notte che vela l’occhio vigile della ragione. La storia della coscienza, dunque, confusa con quella dell’umanità quale sua unica depositaria, si costituisce come la storia di questa rimozione, di questo – non a caso – “edipico” accecamento.

In questo quadro va segnalato come l’inconscio freudiano, lungi dal poter essere considerato – come vorrebbero molte semplificazioni8 una teoria dell’«omuncolo nel cervello» (Dennett, 1993), vada invece inteso come il tentativo di fornire una descrizione generale della coscienza quale epifenomeno della sostanza vivente, «incidente dell’inorganico» per citare Jean-Baptiste Lamarck (1969), emersa a partire da uno squilibrio energetico all’interno dell’organizzazione della materia inerte che tenderebbe invece, con tutte le sue forze, ad azzerare questo squilibrio per ritornare alla pace tombale dell’indifferenziato inorganico (Freud, 1920). 

In quella che è divenuta celebre come pulsione di morte9, l’intera organizzazione psichica sarebbe infatti dimidiata10 tra un principio evolutivo diacronico, che ogni volta ricomincia la sua ontogenesi e porta l’organismo a svilupparsi sotto l’egida del principio del piacere e la regolazione del principio di realtà e un principio conservativo che, insito nella materia stessa da cui la coscienza faticosamente si eleva, tenderebbe invece alla sua stessa dissoluzione11, al punto che l’adattamento si configurerebbe semplicemente come l’abilità dell’organismo di scegliere da sé la sua stessa morte.

 

“Legge dell’evoluzione” e “Legge del più forte”

Seppur da questa congerie di teorie sembrerebbero levarsi fitte nubi sullo splendore promesso della condizione umana, esse hanno in realtà costituito un significativo punto di partenza per l’espansione di uno dei miti umanisti più potenti e pervasivi. Alimentata dagli ultimi ardori del romanticismo, l’evoluzione, processo insensato e cieco, strappato alla maestà del piano divino, diviene il palcoscenico perfetto per una nuova narrativa di espansione. L’essere umano, partito dal nulla, figlio del caso e armato del suo ingegno, si guadagna da sé, in terra, quel paradiso che la parentela con le scimmie sembra avergli negato. In un doloroso viaggio che dal tirannico giogo della necessità conduce al fragile regno della libertà, iniziano a confluire e ad aggregarsi i composti che formeranno la prima cellula del mito capitalista della fitness suprema. 

È il filosofo britannico Herbert Spencer a coniare la fortunata espressione survival of the fittest per definire il processo darwiniano della selezione naturale e a propugnarne una lettura che diverrà drammaticamente famosa all’interno della storia del XX secolo. Se da un lato è infatti sempre Spencer nei suoi Principi Primi (1867) ad ampliare la portata di questo concetto includendovi la materia inorganica12 e trasformando de facto la teoria darwiniana in una sorta di cosmologia processuale (Whitehead, 1965) ante-litteram, dall’altro è la convinzione di Spencer che l’evoluzione sia da intendere come un principio di miglioramento permanente – seppur non più preordinato da principio – a fare dell’applicazione della stessa alle dinamiche sociologiche un imperialismo occidentale ritrasposto su scala cosmica. Nelle icastiche parole dello stesso autore: «L’intero sforzo della natura è di sbarazzarsi dei falliti della vita, ripulendo il mondo della loro presenza e facendo spazio ai migliori» (Spencer, 1877 p. 414). In questa cornice non è certo difficile osservare a posteriori perché il darwinismo si sia rapidamente trasformato in eugenetica e la psicanalisi in una forma di igienismo mentale.

Per rendere più chiaro il passaggio concettuale di Spencer, si può evidenziare come sia proprio lui a suggellare la teoria della discendenza con modificazione per mezzo della selezione naturale proposta da Darwin nella più epigrammatica e pregnante legge dell’evoluzione. Darwin infatti non utilizza quasi mai questo termine nel corso del testo proprio perché, ancora alla metà del XIX secolo, esso portava con se la sua implicazione tradizionale di sviluppo inteso, letteralmente, come lo srotolarsi di un lungo nastro. Il nastro in questione sarebbe la forma prestabilita da principio di tutti gli esseri naturali che “vestirebbero” la propria collocazione sui gradini della vasta scala ascendente della vita, che vede Dio come origine e culmine13, come si vestirebbero dei costumi a cui sono attribuiti dei ruoli specifici. In questo senso, con il volgere della ruota del tempo, sarebbero tutti gli organismi a cambiare di posizione e di ruolo, in una sorta di gioco delle reincarnazioni per cui i vegetali diverrebbero animali che – a seconda della loro natura – acquisirebbero una posizione sempre più vicina all’intelletto razionale e gli uomini si innalzerebbero verso il divino. 

Questo assetto, come già detto, viene destrutturato da Darwin in favore di una posizione che si potrebbe definire stocastica, per cui le mutazioni vantaggiose si accumulerebbero nel tempo in virtù delle mutazioni ambientali e dell’“abilità” di ciascun organismo di adattarvisi e sopravvivere. In questo senso, per Darwin, la fitness è una semplice tautologia. Qualsiasi cosa sia sopravvissuto a sufficienza per continuare a riprodursi sarà considerato fit, semplicemente in virtù dell’essere, appunto, ancora vivo e riproduttivo. Nell’ottica Darwiniana nessuno, dunque, è salvo dai continui sconvolgimenti della natura. La stessa intelligenza che prima era da considerarsi de facto un attestato di importanza nella scala gerarchica dell’essere, viene a rivelarsi semplicemente, come già detto, un adattamento tra gli altri che impone di essere utilizzato con tutta l’astuzia e la violenza necessarie a mantenerlo “al top della gamma”, si potrebbe dire. 

Tuttavia, è principalmente nella prospettiva cosmologica di Spencer, in cui materia disorganizzata e intelligenza si dispongono su due polarità opposte e in cui l’evoluzione prende il ruolo di legge universale della materia, che l’intelligenza riprende a tutti gli effetti il ruolo di “top di gamma della natura” in senso verticale, laddove per Darwin – in una prospettiva anche più radicale – stabilire dei punti di orientamento esatti all’interno dell’inesorabile macina della natura che tutto solve et coagula risulta non solo impossibile, ma essenzialmente inutile.

Ma, seppure Spencer aggiunga molto di suo – e non necessariamente tutto in male – alla teoria di Darwin, non si può dire tuttavia che egli ne abbia del tutto frainteso lo spirito. Una tabella sulla ricorrenza di alcuni termini nella prima edizione dell’Origine della specie14 riportata da Lynn Margulis in Acquiring Genomes (2003) risulterà piuttosto eloquente: 

 

death (dying)”—sixteen;“destroy (destroyed, destruction)”—seventy-seven; “exterminate (exter-mination)”— fifty-eight; “individual”—298; “kill (killed, killing)”— twenty-one; “perfect (perfection)”—274; “race (races)”—132; “select (selects, selection)”—540; “species”—1,803. Per contrasto, i seguenti termini sono invece del tutto assenti dall’Origine della specie: “association, affiliation, cooperate, cooperation, collaborate, collaboration, community, intervention, symbiosis”. Centocinquant’anni dopo, l’abitudine di ignorare associazioni fisiche e metaboliche tra gli organismi persiste. (Margulis, 2003, p. 30).

 

Già all’epoca di Spencer non mancavano tuttavia dei dubbi sul fatto che qualcosa mancasse all’interno di questa lettura, e che la grandissima pressione fatta per leggere la selezione naturale come bellum omnium contra omnes desse solamente una visione parziale del processo. In una lettera a Lavrov del 1875, il filosofo e naturalista russo Friedrich Engels, noto collaboratore di Marx, osserva: 

 

Del pensiero darwiniano accetto la teoria dell’evoluzione ma prendo il suo metodo di prova (lotta per la vita, selezione naturale) come la prima, provvisoria e incompleta espressione di un fatto di nuova scoperta. Prima di Darwin le stesse persone, […] che adesso non vedono altro che lotta per l’esistenza, erano impegnate a sottolineare la co-operazione nella natura organica – come il regno vegetale supplisce quello animale con ossigeno e sostanze nutritive mentre quello animale in cambio lo rifornisce con acido carbonico e letame. […] Ognuna di queste concezioni ha, entro certi limiti, delle buone giustificazioni ma ciascuna di esse è unilaterale e stretta quanto l’altra. L’interazione tra i corpi naturali, animati o inanimati include sempre in sé armonia e conflitto, lotta e co-operazione. (Engels, 1875)

 

Eroi e parassiti. Una breve epica nematodica

Un esempio utile per illustrare come la logica del progresso positivista abbia influenzato, con le sue metafore, la biologia e dunque la nostra percezione della vita stessa, può essere offerto da Nathan Cobb, padre della mai troppo apprezzata scienza della nematologia15. Questi, in un articolo del 1914 intitolato Nematodes and their Relationships (Cobb, 1914), descrive con grande ardore morale l’aberrante scelta di vita dei nematodi che, ribelli di una gloriosa stirpe, hanno abbandonato la retta via della complessità per intraprendere la trista strada del parassitismo.

Cobb invita a non giudicare i nematodi, questi discreti paladini ecosistemici, per il fatto che i pochi tra loro che diventano grandi a sufficienza da attirare la nostra attenzione lo fanno nel nostro stomaco, con lo sconveniente risultato, in alcuni trionfali casi, di essere poi vomitati a galloni (Cobb, 1914, p. 469). Infatti – ed è qui che si spiega l’inclinazione moralistica della prosa di Cobb16 – sono solo alcuni “degenerati” tra questi esseri a scegliere la via del parassitismo: la maggior parte dei nematodi conduce invece una vita libera, attiva e indipendente, ricca di risultati, come assicura lo zoologo americano perorando con forza la causa della nostra reciproca frequentazione. Per rendere chiaro il concetto, egli descrive che essi hanno un successo tale per cui: «se anche ogni cosa nell’universo, tranne i nematodi, dovesse essere spazzata via e noi, come spiriti disincarnati, potessimo ancora contemplare l’ombra di ciò che un tempo fu il mondo, questo, con nostra gran sorpresa, sarebbe ancora vagamente riconoscibile. Potremmo infatti trovarne le montagne, le colline e le valli, scorgere i contorni di fiumi, laghi e oceani come tratteggiati sul cosmo da un sottile strato di nematodi» (Cobb, 1914, p. 472). 

Ma il tono cambia radicalmente quando si devono descrivere gli adattamenti parassitari dei nematodi ribelli. Nel tratteggiare il parassitismo nel mondo degli insetti, Cobb osserva come queste discendenze nefaste abbandonino l’ordinata perfezione degli arti e le bellissime decorazioni delle ali, lasciandosi alle spalle, come un vestigio, tutte le acquisizioni che definivano la loro antica identità. Eredi incoscienti, i parassiti abbandonano il miracolo degli occhi e tutte le minute meraviglie di complessità cui l’evoluzione – come una mano benigna – li aveva destinati. Il prezzo da pagare da chi rinnega il richiamo dello sviluppo perpetuo si carica di tratti mortali, un cadaverico pallore si insedia dov’era una volta l’iridescenza, e quello che fu l’intricato sistema strutturale di un corpo in viaggio verso l’apogeo del trionfo entomologico si riduce a qualcosa di più simile a una pallida appendice nefanda dell’ospite.  

Il parassitismo, nel quadro ferocemente colonizzato dai nostri presupposti morali che caratterizza la semantica della teoria evoluzionistica, si presenta non tanto come uno tra i possibili adattamenti che le creature possono sviluppare per la totalità o in una fase del loro ciclo vitale ma, al contrario, come il peccato capitale dell’inversione stessa della logica evolutiva. Eppure, come notato dall’eminente microbiologa Lynn Margulis, che ha dedicato buona parte della sua vita scientifica allo studio dei processi simbiotici, di cui il parassitismo è solamente una tra le varie forme, osserva come, a ben vedere, gli stessi esseri umani, se guardati da una prospettiva un po’ più ampia, siano del tutto dipendenti dall’incessante lavoro biosintetico che si svolge ai piani più bassi della catena evolutiva, siano «in un senso molto reale, i parassiti del microcosmo» (Margulis, 1995 p. 43). 

Nella prossima sezione del testo, a partire da questo suggerimento prospettico offertoci da Margulis, si cercherà di analizzare come modelli e analogie a lungo considerate deteriori, come quello del parassitismo, possano in realtà rivelarsi utili non solamente a comprendere la nostra effettiva posizione eco-sistemica ma anche a decostruire alcuni dei miti più persistenti dei nostri retaggi antropocentrici. Per ora, con le parole di Samuel Butler: «Chi ci assicura che l’uomo veda e senta veramente? Egli è un tale alveare, un tale brulicante nido di parassiti, che c’è da chiedersi se il suo corpo non appartenga più a essi che a lui, e se dopo tutto egli non sia altro che una specie di formicaio. Non potrebbe dunque anche l’uomo diventare una specie di parassita delle macchine? Un pidocchio affezionato che fa loro il solletico?» (Butler, 1975 p. 268).

 

 

Note

1Lo psicologo evoluzionista Scott Atran (2002) osserva come, prima di diventare così “tirchi” nelle nostre attribuzioni intellettive o volontarie ai fenomeni naturali – o artificiali – la norma sia stata invece quella di una ben più ampia prodigalità. La storia delle religioni, dove i fenomeni naturali non sono spesso che guise segrete degli dei, dunque agenti volontari suscettibili di amore e collera ne è un elemento lampante. Questo perché, da un punto di vista evoluzionistico, attribuire coscienza, e, nello specifico una coscienza simile alla nostra agli Altri Non Umani che compongono il nostro ecosistema ci consente di integrarli all’interno del nostro sistema sociale e di entrare in contatto – e in contratto – con loro. Un dio, come un temporale o una carestia, in questo senso, non è diverso da un capo, un’agente la cui volontà è coercitiva ma non coercibile. Nelle teorie socio cognitive questo fenomeno prende il nome di Attribuzione dell’Agentività.

2Francisco Varela e Humberto Maturana, due dei principali protagonisti della così detta “seconda onda” del movimento cibernetico, riprendendo un termine coniato dall’entomologia definiscono il linguaggio umano come una forma di «trofallassi sociale» (Maturana, Varela, 1987 p. 174). La trofallassi, nel mondo degli insetti sociali è quel processo tramite il quale questi rilasciano parte del loro contenuto gastrico ad altri membri della stessa colonia al fine di creare dei circuiti ricorsivi di solidarietà e riconoscimento reciproco e consolidare i vari ruoli gerarchici all’interno della colonia.

3É forse utile ribadire ancora una volta come il “gioco dell’imitazione” non abbia lo scopo di segnare una linea distintiva capace di risolvere questa impasse epistemologica ma, al contrario, quello di dimostrare quanto vano sia chiedere se chiunque e qualunque cosa sia realmente pensante o realmente intelligente.

4In una sezione del suo romanzo satirico Erewhon (1975), emblematicamente intitolata: Il Libro delle Macchine, l’autore rileva: «perché non potrebbe prodursi una nuova fase dell’intelligenza tanto diversa da tutte le fasi finora conosciute quanto l’intelligenza degli animali è diversa da quella dei vegetali? […] quando pensiamo alle molteplici fasi attraverso cui la vita e la coscienza si sono evolute fino ad oggi, non possiamo affermare con sicurezza che non possano prodursene altre, né che la vita animale sia il limite estremo di tutte le cose. C’era un tempo in cui il limite di tutte le cose era il fuoco, e un tempo in cui lo erano l’acqua e le rocce» (Butler, 1975, p.262).  

5Probabilmente Butler ha qui in mente la famosa Anatra di Jacques Vaucanson, simpaticamente nota come Defecateur, un sorprendente automa costruito nel 1734 che simulava nel minimo dettaglio ogni singolo movimento di un’anatra vera, compreso l’intero processo digestivo.

6Enfant terrible della cultura del suo tempo, Butler dedicò parte della sua opera, in particolare Evolution Old and New, a criticare Charles Darwin con ferocissimi strali per la poca considerazione che questi dimostrò nell’Origine della specie per i lavori del suo eminente avo, Erasmus Darwin, che contribuì all’humus concettuale da cui germogliò l’opera del nipote.

7In una delle più celebri tra le sue fantasiose avventure, il barone prussiano Karl Friedrich Hieronimus von Munchausen  riesce a trarsi da solo dalle sabbie mobili – o in un’altra versione, dal mare – tirandosi per capelli. Le mirabolanti e inverosimili storie che lo vedono protagonista vennero raccolte per la prima volta dal naturalista ed erudito Rudolf Erich Raspe nel 1785, divenendo da allora un vero e proprio cult della narrativa d’avventura.

8Particolarmente triste come autori quali il già citato Daniel Dennett che si trovano, consapevolmente o meno, a navigare le correnti del fiume concettuale tracciato dalla missione riduzionista dell’opera freudiana, ne disconoscano e fraintendano la fruttuosa eredità riducendola a un mero “teatrino cartesiano” (Dennett, 1993 p. 24 ).

9É nell’integrazione della pulsione di morte, formulata pochi anni prima da Sabina Spielrein, che la meta–psicologia freudiana raggiunge i suoi apici speculativi tingendosi dei foschi tratti di una vera e propria Naturphilosophie di matrice schopenhaueriana.

10Esplicito nell’ultima e più pessimistica fase della speculazione freudiana il riferimento alla teoria del biologo August Weismann, uno dei più grandi promulgatori del darwinismo in Germania, per il quale la sostanza organi casi divide in due componenti: una mortale, detta Soma, costituita appunto dalle cellule somatiche e soggetta alla differenziazione e alla degenerazione e l’altra, immortale e immutabile, confinata nelle gonadi e priva di contatto con il resto delle cellule somatiche detta Plasma Germinale. In questa prospettiva, ogni specie, compresi gli umani, intesi come aggregati di cellule somatiche, troverebbero come unica ragion d’essere quella di fare da vascelli momentanei per la riproduzione perenne del plasma germinale che si estenderebbe come un fiume che muta costantemente il paesaggio senza mai cambiare.

11La prospettiva di partenza della fisica e della filosofia della natura del XX secolo è quello dei sistemi chiusi e della meccanica classica. In questo contesto la capacità della materia vivente di conservare e incrementare il proprio ordine interno sembra un’ aperta violazione della seconda legge della termodinamica. Solo nel 1944 Erwin Schroedinger (Schroedinger, 1944) risolse l’apparente contraddizione osservando che i sistemi viventi sono aperti ed integranti – non a caso questa rivoluzione sarà essenziale per la genesi della cibernetica – e dall’altro che, proprio per questa ragione l’apparente inversione dell’entropia in realtà non sussiste in quanto gli organismi incrementando il loro ordine “interno” incrementano per converso il disordine complessivo dell’universo.

12Uno dei grandi problemi che tormentarono Darwin e ancora oggi affliggono il campo della macroevoluzione garantendo rifugio ai sostenitori di teorie come il “disegno intelligente” o “gli antichi astronauti” – variazione sul tema dove la mano di Dio è sostituita dalla mano intelligente degli alieni – consta proprio nel fatto che nonostante l’impalcatura evoluzionista offra uno schema concettuale forte per definire l’espansione e lo sviluppo della vita risulta tuttavia piuttosto carente – in particolare all’epoca di Darwin – nel dare risposte sull’origine della stessa.

13É importante ricordare come per buona parte della storia dell’umanità – e, secondo l’autore di questo testo, ancora oggi – non sia esistita alcuna differenza sostanziale tra scienza e mistica, più che religione. Scienziati e naturalisti del passato, Newton e Leibnitz in primis, non vedevano alcuna differenza tra la speculazione scientifica e quella metafisica. In questo senso, evidenti nelle concezioni secentesche della Scala Naturae le discendenze cabalistiche che fecondarono l’humus culturale dei secoli precedenti. In particolare l’idea di Dio come Ain Soph, vertice e fine del cerchio all’interno del quale nei reciproci collegamenti tra le Sephirah che ne compongono le relazioni la natura e le sue dinamiche si avvicendano nel tempo.

14Si lasceranno i termini in inglese per coerenza con il testo originale.

15Branca della zoologia dedicata allo studio dei Nematodi, o vermi cilindrici. In origine considerati unicamente parassiti infestanti, gli studi di Cobb hanno contribuito enormemente ad espanderne l’importanza rivelando come queste minute creature siano in realtà tra le più diffuse sulla terra e contribuiscano in modo essenziale alla fertilità e allo sviluppo del suolo e dell’ecosistema nella sua interezza.

16L’autore, se possibile, è anche uno dei più scevri da questo genere di pregiudizi e sono stati anzi ampi i suoi contributi all’ecologia allora nascente.

 

 

Bibliografia

Butler S. (2015) Complete Works of Samuel Butler (Illustrated), Delphi Classics, disponibile su https://www.amazon.it/Delphi-Complete-Samuel-Illustrated-English-ebook/dp/B00W67ZZGO/ref=sr_1_2?__mk_it_IT=%C3%85M%C3%85%C5%BD%C3%95%C3%91&crid=2AFW0LJ3TU72A&keywords=Complete+Works+of+Samuel+Butler&qid=1670411420&sprefix=complete+works+of+samuel+butler%2Caps%2C74&sr=8-2

Butler S. (1975), Erewhon e Ritorno ad Erewhon, Adelphi, Milano.

Butler S. (2012), Unconscious Memory, disponibile su https://www.amazon.it/Unconscious-Memory-English-Samuel-Butler-ebook/dp/B0082YXVIE/ref=tmm_kin_swatch_0?_encoding=UTF8&qid=1670412513&sr=8-1
Cobb N. (1914), Nematodes and their relationships, Year Book of the Department of Agriculture, Washington D.C..

Dennett D. (1993), Coscienza. Che cos’è? Rizzoli, Milano.
Dennett D. (2018), Come evolve la vita? Dai Batteri a Bach e Ritorno. Raffaello Cortina ed. Milano.
Margulis L. Sagan D. (2003), Acquiring Genomes: A theory of origin o f species, Basic Books, New York.
Margulis L. (1989) Microcosmo. Dagli organismi primordiali all’uomo: un’evoluzione di quattro miliardi di anni, Mondadori, Milano.

Pessoa F. (1979), Una sola Moltitudine, Adelphi, Milano.
Turing A. in La Filosofia degli Automi,(a cura di) Somenzi V. (1965), Boringhieri, Torino.

Sitografia

Spencer H. (1877) Principles of Sociology: https://oll.libertyfund.org/title/spencer-the-principles-of-sociology-vol-1-1898

Engels F. (1875) https://www.marxists.org/archive/marx/works/1875/letters/75_11_12.htm

Khari J. (2022) LaMda e la trappola dell’intelligenza artificiale senziente. Il dibattito sulla possibilità che il modello linguistico di Google abbia una coscienza è una distrazione dai problemi che affliggono l’Ai nel mondo reale: https://www.wired.it/article/intelligenza-artificiale-lamda-dibattito-ai-senziente/

 

 

Alessandro Gelao

Ha completato gli studi magistrali in filosofia a Torino con una tesi in epistemologia delle scienze umane incentrata sulle prospettive che possono emergere da uno studio comparato tra i modelli tratti dalla cibernetica applicati alla psicanalisi, con particolare riferimento all’opera di Jacques Lacan, Anthony Wilden e Donna Haraway. A partire dal 2021 collabora come Speaker per l’associazione Eutopia, che si propone un progetto di divulgazione multidisciplinare sul tema della psichedelia e della salute mentale, all’interno della prospettiva teorica aperta da Thomas Szasz e Franco Basaglia.