MUSCOLI 

 P  = protagonistə

A = agonista 

AN = antagonista

S = spasmi (pensieri intrusivi)  

 

Il raccordo anulare

Della carne contrapposta

Distorsione e atrofia 

Devolve in zona genitale 

 

L’unità è attitudine concreta

Un muscolo in tensione 

che poi si quieta 

 

mi sono innamorato

perché non avevo niente da fare.

 

Nel pieno della creazione sintetica del mio cyborg votato al piacere, inizio ad avvertire stanchezza, disillusione, reticenza.  Il mio pensiero si fa ambiguo, scombinato e istintivo. Qui segue il racconto dell’emancipazione dei Muscoli e delle loro fibre, in una sera tranquilla in cui  ho deciso di concedermi qualche ora di tregua dal lavoro in un ristorante asiatico marcescente. Devo ammettere a questo punto di essere piuttosto impazzitə e vi chiedo scusa in anticipo, perché qui seguiranno  dialoghi assurdi tra me stessə e i miei muscoli, Agonista e Antagonista, che mi hanno parlato in testa sotto forma di interferenza annunciando la loro volontà attraverso spasmi involontari, che forse coincidono con il mio inconscio. 

 

Procedevo risolvendo minuzie nel laboratorio. Io, combattente sinteticə che risolve tutti i problemi. Potenza.

Faccio muovere i muscoli. Sono corsə fuori dal mio laboratorio nel sottosuolo urlandomi addosso che avevo bisogno di aria, di vedere gente, di cambiare posizione, di rilassarmi.

Ma in un attimo sono già sedutə con la schiena ricurva in un ristorantino putrescente di carne asiatica. Perfetto. Coerente. Posso andarmene affanculo. 

Mi accendo una sigaretta. 

 

Buonasera a lei, cosa gradisce dalla cucina? mi strillò in faccia la cameriera.  

Cosa posso ordinare… A furia di fondere metalli, innestare emozioni, testare circuiti, accendere e spegnere, sono in vena di fibrosità. 

S: Voglio un trapezio robusto, una viscera fritta stracotta con la salsa, un membro turgido, un quadricipite sinuoso e femmineo. Un gluteo ispessito dallo sforzo della corsa. 

P: E una birra dolce. E la salsa di soia con zenzero viva i sapori forti. 

 

Arriva il mio ordine, la cameriera lancia sul tavolo il cibo. Pezzi di carne galleggiano nella brodaglia del mio piatto. La loro forma è ambigua, non mi convince. Uno tra loro somiglia a un dito, probabilmente un tentacolo. Affondo i denti nella carne, succhio il tentacolo, tutto ha inizio. 

S: Se il mio clone potesse avere dei tentacoli, magari potrebbe farmi godere anche di più. 

Vedi che dopo la birra penso più agilmente. 

S: Occhi da insetto, pinne di squalo. E pure qualcosa del toro. Sono troppo simpaticə. Ma per far sì che un corpo sia considerato tale c’è bisogno di coerenza;  un tentacolo non è una persona, e pezzi di carne che galleggiano in un liquido non sono un embrione

Faccio un sorso dal mio piatto.

S: allora Il brodo che porto alla bocca è liquido amniotico, ambrosia per esseri superiori.

Altra sigaretta. 

A fare in culo, ecco dove. 

S: Intanto la tua carne putrefatta e disassemblata è in costruzione. È la nigredo del corpo e l’albedo della persona che sarai. 

P: E la mia cena.

 

Mi sento sbattutə, come l’uovo di quando ero piccolə, o come non mi succede da chi voglio io, da troppo tempo. 

Mi torna in mente spesso questo augurio che mi fecero: “quando finalmente sceglierai e smetterai di farti scegliere?”. Il lavoro che porto avanti nel mio laboratorio è la mia forma di risposta a quella domanda. 

S: Ti ricordo sospesə nell’eterno attendere di avere una forma. 

Mitologia. Eterna fantasia che si rigenera nei secoli dalla palude solfurea di un corpo senza organi in fallimento.

 

Mentre sorseggio alcool mi chiedo se le altre persone rimaste sulla terra percepiscono la turgidità che al momento mi paralizza le spalle, provocandomi il dolore di cento spilli conficcati sotto le ascelle. 

Ogni mia fibra fa fatica a stare, fa fatica a fare. La pelle appare opaca. Improvvisamente inizio a pensare alla vecchiaia.

Terrore panico. È esattamente il contrario della nitidezza digitale che sto programmando per la mia creatura. 

S: Almeno tu saprai che cosa vuol dire essere un’opera finita. Non credo che l’umanità abbia mai avuto questo privilegio. Perennemente tende alla rivoluzione per poi assistere alla fine, alla decomposizione che divora ogni progresso. Compost antropomorfo. Fine dell’uomo, inizio della macchina. Tu conoscerai soltanto il generarsi e mai il decomporsi. 

 

Vade retro macchie sulla pelle, rughe. Il clone sarà spaziale, lucidə, eccessivə. I miei piedi si muovono sotto la sedia al ritmo della bizzarria generata dal mio inadeguato sistema sensoriale. Isocinesi muscolare, fottuta totale. 

S: I tuoi sono Muscoli nuovi che protendono solo verso la soddisfazione. Invidio il tuo generarsi dalla palude salmastra dell’umanità finita. Albedo pura. Resurrezione senza morte.

Le mie fantasie funzionano esattamente come un muscolo antagonista funziona con il suo contrapposto, nell’agone del movimento.

S: Io, invece, mi decompongo un po’ ogni volta che mento. La mia morte avviene ogni volta che decido che la fantasia deve restare tale.

La mia fantasia non funziona, se applicata alla realtà. 

Acido lattico – sforzo intenso che dura anche solo pochi minuti. 

Contrazione. 

S: Non mi fido della mia creatura. Avverto come una colpa senza nome il fatto che il suo corpo sarà completamente protratto al soddisfacimento dei miei bisogni, piegato alla mia volontà. Nell’ipotesi che il clone non sarà in grado di decidere per sé, mi viene rivelata la crudele certezza di essere un corpo che non sa che farsene dei propri muscoli.

 

Non ho bevuto abbastanza. Il cibo è strano, ma non è malaccio. Quasi mi piace. 

Grazie mille, sì, tutto buono .

Dentro di me sento una strana euforia, la mia vera natura. Rimango sempre quellə di una volta. Squilibratə, con le vesti che s’afflosciano senza forma sopra i muscoli nodosi e rattrappiti. Pausa. Suggello la mia confessione.

S: Non mi fido di nessuno se non di me stessə. Ma io mi fido di me stessə? Non dico mai la verità. Creo la mia verità su terreni privi di suolo. Puro muoversi nella fantasia collettiva attorcigliando i tendini dell’altro sulle proprie dita.  

Mi guardo intorno dal mio tavolino. La fauna intorno a me fa quasi ridere. Una donna mi sta palesemente fissando da un po’. Un bambino gioca con un aggeggio rumorosissimo. Il nonno lancia occhiatacce. Mi sembra che, al mio arrivo, tutti si siano accorti del mio nervo scoperto, del mio disturbo, della mia imperfezione. Ben venga. 

S: Un mondo, diversi mondi, miliardi di impulsi elettrici che muovono centinaia di migliaia di carni scosse dal desiderio, e io non mi fido di nessuno, non credo nella verità, e per quanto mi riguarda sono tutti dei manipolatori bugiardi. Trovo il clonarmi l’unica soluzione possibile, programmare ogni dettaglio per non essere traditi, prevedere i movimenti per non restare mai delusi. Può davvero essere così semplice? Dov’è la fregatura?  

S: Ah già, non può esserci desiderio dove c’è programmazione.

 

Ricordo il mio sogno di ieri notte. Venivo fattə a pezzi e poi rimessə insieme e mi sentivo piuttosto in forma. Mi guardavo allo specchio e con orrore mi rendevo conto che la parte sotto il bacino e sopra le gambe era fatta di alluminio. Non trovavo fessure penetrabili. Era un blocco di metallo compatto, granitico. 

S: È un occhio quello appena riemerso dal brodo? Decisamente non dovrebbe essere lì.

 Svuoto la bottiglia di birra. L’occhio mi scruta dall’interno. Sento il piccante irritante della salsa sweet chili che non arriva mai a piccare abbastanza. 

S: È solo una zuppa dai, ma per sicurezza ingoia l’occhio.

Ho un rapporto intermittente con le parti muscolari e tendinee che compongono il mio corpo mortale.

S: L’occhio sta risalendo su per lo stomaco, un moto di repulsione che mi scuote il corpo intero.

Sento di avere più filamenti scoordinati, un corpo indigesto, nauseato, con il mal di testa. Un corpo la cui temperatura è molto più alta del normale. Quello che sento ora è il mio corpo commosso. La mutazione che cerca compimento nel mio tavolo da lavoro. 

S: Non c’è niente di più propedeutico alla libertà del vomitare. Esperienza meccanica dei muscoli, assolutamente sincera. Non c’è sorveglianza che tenga, non puoi mentire di fronte al rifiuto.

Sento l’irrigidimento identitario, la comunità virtuale che mi circonda seduta al proprio tavolo. Il mio intero corpo cede a un moto involontario di rigetto dell’occhio.

 S: Finalmente mi sono mossa, e solo per rifiutare il lavoro della macchina paranoica che piazza gli occhi lì dove non dovrebbero stare. 

A: Ebbene, ricordi il tuo primo bacio?

P: Ti faccio notare che non tutto è traumatico nella vita. 

A: No, infatti non intendevo dirti questo. Parti sempre prevenutə, maledettə. Ricordi il tuo primo e unico bacio?

P: non è stato l’unico. 

A: Sì, lo è stato. 

AN: A nulla togliere, ovviamente. 

A: Cosa successe dopo quel momento?

P: Successe che una volta tornatə a casa mi misi a baciare il palmo della mia mano. Era un allenamento. Porto ancora i segni del risucchio. 

S: Movimenti inconsulti e riflessi primordiali dettati dal bisogno.  

P: Baciare sé stessi è come penetrare in un buco che è stato scavato apposta per noi. 

S: Desiderio puro.

AN: Devo andare a depilarmi, fa troppo caldo. 

A: Io non posso smettere. Magari si potesse.

S: Tre ore fa non ho saputo resistere alla tentazione, e ho accarezzato uno dei tuoi muscoli in costruzione. 

  

Il ristorante è pieno di voci, di gente allegra. Mi sento a mio agio, a dire la verità. C’è allegria. Sarà l’orario. 

S: la brodaglia fredda del mio pasto mista al rigetto fumante delle mie paranoie. Ripenso al tuo corpo decomposto in travaglio eternamente proteso alla nascita, a come involontariamente il tuo muscolo mi ha percepito, e per la prima volta mi guardo con tenerezza.

 

Sono al dolce, gelato nuvola vanigliato giallo verde rosa. Buono. Fresco. Mi accorgo che mi pizzicano i piedi. L’agone all’improvviso ricomincia. Non so se ordinare un’altra birra oppure starli a sentire. 

S: Ciò che ho lasciato al tavolo mi da la nausea, potrei alzarmi. Nessuno sembra accorgersi del mio shitshow, probabilmente, dopo le due di notte qui succedono cose ben peggiori.

 AN: vedi tu come sei ridottə. 

S: Restare al tavolo a sorbirmi i vapori del mio lavoro o alzarmi e andare a controllare, oltrepassare le porte della cucina, e scoprire cosa c’è di così divertente nel servire carne putrefatta. 

 P: Una volta che entri in un corridoio, o trovi una porta o ci rimani dentro. 

S: Ho il diritto di sapere cosa ho ingerito. Ma non sono sicura di poter reggere il rituale sanguinario di cuochi aguzzini che fanno a pezzi le loro puttane sacrificali mentre professionalmente discutono delle spezie con cui esaltarne i sapori.

 

 Afferro la bottiglia che ho ordinato. La svuoto, sento odori che mi riportano indietro nel tempo. Ricordo mia madre, ricordo che non riuscivamo più a parlare da sole come prima. Lei mi guardava come se non riuscisse più a vedere sincerità. Io avevo la coscienza sporca. Non avevo alcuna intenzione di farmi scoprire. 

 Mi metto a fumare la pipa. Mi ripulisco le labbra con la lingua. Sembra che tutto mi riguardi, dovrei occuparmi di tutto e subito. Crostacei, pentole di acqua bollente e tegami brodosi con animali crudi vengono portati da un tavolo all’altro. Due ragazze vivono il sogno del primo appuntamento e si offrono da bere a vicenda. Mi piace spiare la loro bolla. 

 S: Come sarò di fronte alla tua volontà? Sento già la macchina dispotica del controllo mettersi in atto davanti alla visione delle tue cosce spalancate, e sovrapponendosi ai tuoi gemiti, suggerirmi la mia mancanza di sincerità che mi ha condottə a replicarmi piuttosto che affrontare la mia completa assenza di agonismo.

P: Cosa volete da me? Cosa mi volete far fare?

A: Non ci hai mai allenato ai movimenti corretti. Mai.

AN: Non sapresti neanche riconoscere la fessura che ti potrebbe condurre fuori dalla gabbia. 

A: Non ti sei mai lasciatə addormentare di fianco a qualcuno, nello stesso letto. 

AN: Dormi con un cuscino tra le gambe, fai tu… 

P: Non mi serbate rancore…

A: Tu hai paura di abbandonarti al piacere semplicemente perché non lo conosci. 

AN: Tu non hai ancora chiaro cosa voglia dire semplificarsi la vita. 

Tu riesci a dialogare con la tua interferenza. E questo, credimi, non è un vantaggio. 

A: Ti ammazzerei subito e ricomincerei da capo. 

P: Guarda che bel disegno che sto facendo sulla tovaglia di questo posto lurido. È un ritratto. È in prospettiva. Quasi quasi lo regalo al mio vicino di tavolo. 

AN: Ci stai facendo atrofizzare.

 

Quando avevo vent’anni mi veniva duro con una scusa qualsiasi, e all’epoca mi sentivo all’altezza. L’epoca di una passione triste.  L’epoca della tentazione ineludibile. Chi usava il mio letto, mentre io non c’ero? 

O mi esibisco davanti a un pubblico, oppure niente. Non sono nulla. Come la sera, al locale. In quel locale di musica techno in cui le esistenze apparivano chiaramente per quello che erano: tentativi fatti a cazzo. Tutto mi ispira desiderio, non c’è nulla che davvero non mi piaccia. 

S: Ti ho ripensatə scarnificatə e avvoltə dai liquidi amniotici illuminati dalle luci del laboratorio, e ho pensato al rigonfiamento dei tuoi muscoli coreografati dal mio tocco. Forse è questo genere di sensazione che ci rende assuefatti alle carcasse processate da macchine chirurgiche che donano alla carne putrefatta una glassa lucida e invitante.

 

A quel punto, uno scopo altissimo mi folgorò il cervello.

Ripenso alla mia creazione. 

Ho posizionato la sua bocca, la sua pelle, i suoi tubi. Non posso comporre anche i suoi muscoli. Essi devono essere liberi di seguirla e di renderla felice. Sono loro che, forse, in un futuro, la porteranno lontano da me. L’interferenza sarà posizionata nei muscoli, il luogo in cui causerà meno danni. Ma avrà una vita più breve. Mi piacerebbe che il mio androide potesse arrossire. 

S: Ho avuto paura. Di te, ma anche di un sistema che preferisce produrre all’infinito oggetti da dare in pasto alla malattia carnivora e ossessiva di soggetti insoddisfatti.  

A: Poi ti racconti che non è così, nel quartiere della mente consideri la memoria un reduce resistente e aggredisci l’evidenza… Il fetore della novità, improvvisamente. È così che ti partono dei dolori atroci, succhi e acido lattico ai limiti dell’accettabile, e ti ritrovi distrattamente davanti, moscia e genuflessa. 

 S: è un blocco atrofico che mette  in dubbio la costruzione del mio pensiero, la sedimentazione di archetipi ancestrali, il confine eternamente paranoico tra verità e menzogna.

 

Prendo la carta di credito, mi alzo, pago, saluto. Esco dal ristorante asiatico di carne. O qualunque cosa fosse. La città e i suoi rumori. Il mio corpo stanco. I miei strappi muscolari. L’odore di pioggia, il campanile, gli uccelli. Il colore dell’orario indistinto, confuso tra le direzioni della mia emotività. Fasci di luce bianca. 

 S: Che cosa assurda la paura, eh? Sentirsi in diritto di conoscere e in grado di manipolare la realtà, ma abbastanza colpevole da non provarci.

 

Fumo l’ultima.

Qualcuno deve pur avere l’ultima parola. 

 

 

 

Rosaria Murolo

Dopo la laurea in Arti Visive all’Accademia di Belle Arti di Brera, si è specializzata nella critica e nella curatela presso la Nuova Accademia di Belle Arti (NABA) di Milano. Attualmente scrive per Artribune ed è alla costante ricerca di nuove piattaforme in cui esprimere la trasversalità dei suoi interessi e sperimentare nuovi linguaggi.

 

Matilde Crucitti

Laureata presso l’ABA di Bologna, attualmente frequenta il biennio in Arti Visive e Studi Curatoriali alla NABA di Milano, focalizzando la sua ricerca sull’arte contemporanea e sul cinema.