1 Il caso del DSM Bestseller

A marzo 2022 è stata pubblicata  la quinta edizione del DSM (Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders). Standard globale per la diagnosi e la classificazione dei disturbi mentali, il DSM è utile a medici, psicologi, infermieri, come pure a chi opera nel sociale o in ambito giudiziario: il DSM «traccia i confini tra normalità e malattia mentale, ha un’enorme importanza sociale, poiché definisce moltissimi fattori fondamentali per la vita della gente, come chi va considerato sano e chi malato; che tipo di terapia offrire» (Allen, 2013, cap. 0 par 3). 

Nonostante sia rivolta agli esperti del settore e presenti un prezzo tutt’altro che esiguo, la nuova edizione del volume ha costituito un vero e proprio caso editoriale, un bestseller. Questo incremento delle vendite è arrivato a seguito della persistenza di un certo dibattito pubblico attorno alle malattie mentali. La pandemia, l’iper-visibilizzazione delle guerre e le crisi economiche hanno favorito considerevolmente l’aumento di alcuni disturbi quali ansia e depressione, generando una maggiore richiesta da parte dei cittadini di interventi psicoterapeutici e di sussidi statali per l’accesso calmierato alle cure. Ma il discorso sulle malattie mentali non si è limitato all’ansia e alla depressione. A ora, uno dei disturbi più discussi su TikTok è l’ADHD (deficit dell’attenzione/iperattività) e i recenti trend sui social media mostrano un crescente interesse per autismo, Asperger e disturbo bipolare, per i quali non sembra esserci un chiaro collegamento con le attuali crisi, come invece era per i sintomi depressivi e d’ansia. Allo stesso tempo, molti utenti di queste piattaforme condividono la propria sintomatologia per aiutare altri utenti ad autodiagnosticarsi, citando il DSM e raccontando le difficoltà quotidiane del convivere con queste patologie. 

Considerando che non è mai stato tracciato un rapporto causa-effetto tra le attuali crisi globali e queste neurodivergenze, viene da chiedersi come mai online si parli così tanto di malattie mentali. Perché il DSM — usato e conosciuto soltanto in ambito psichiatrico — è diventato un bestseller?

Il DSM nasce nel 1952 a opera dell’APA, American Psychological Association, con l’obiettivo di fornire criteri oggettivi per la diagnosi dei disturbi mentali. Il suo contenuto si concentra esclusivamente sui sintomi del paziente per identificarli e attribuirli a un disturbo specifico, permettendo così agli specialisti di presentare diagnosi più efficienti e di fornire rapidamente cure e terapie farmaceutiche. Tuttavia, un’indagine esclusivamente sintomatica trascura l’eziologia, ovvero la ricerca di tutte quelle cause che precedono i sintomi. Ignora, dunque, i motivi stessi di emersione delle patologie. A ogni aggiornamento, il manuale aggiunge nuovi disturbi, cambia i metodi di diagnostica e riporta le innovazioni scientifiche. Ed è così che si rinnova il monopolio della concezione di salute mentale, di chi è normale e di chi non lo è.

Seguendo esattamente la logica del manuale, anche il discorso che domina le piattaforme social si concentra sui sintomi e non sulle cause. I contenuti presenti nell’ecosistema digitale trasformano le malattie in etichette sempre più facili da applicare, aggiungendo sintomi alle malattie e influendo nelle diagnosi ufficiali tramite le conoscenze che forniscono. 

 

In queste diagnosi e autodiagnosi, la malattia ci viene restituita priva della storia individuale, desoggettivata. Nessun conflitto, nessuna causa le provoca. Nel momento in cui la malattia appare senza soggetto, e dunque viene diagnosticata a un non soggetto, ne viene creato uno nuovo; un soggetto perfino più desiderabile. La malattia crea un proprio habitus dai modi di comportamento, percezione e interazione scritti, descritti e consigliati, costituendo un individuo e inserendolo in una collettività di persone con lo stesso disturbo. Ecco cosa producono in questo caso le etichette. 

La diagnosi costruita dal DSM e alimentata dai social produce una vittima che richiede attenzione. 

 

2 Se TikTok è la nuova istituzione dell’interiorità

 

Prodotta tramite la malattia, questa nuova identità va affermata, riprodotta e consolidata. TikTok, con gli intimi monologhi, gli sfoghi di rabbia o tristezza e le discussioni costruite intorno alle proprie ansie e ai propri problemi, offre il formato più appetibile per soddisfare queste necessità. Sicuramente la rapidità dello scrolling e la facilità dell’editing video rendono i contenuti più veloci da vedere e da creare, semplificando il lavoro sia al creator che all’utente. Inoltre, la brevità dei video fa sì che il messaggio debba essere necessariamente semplificato, riducendo ogni sua possibile sfumatura per renderlo facilmente digeribile. Per questo motivo, la piattaforma cinese si presenta come un nuovo dispositivo confessionale molto asciutto, con caratteristiche intrinseche che lo rendono più adatto a dar sfogo a questa nostra millenaria ingiunzione a parlare.

Come ci ricorda Foucault ne La volontà di sapere (2013 cap 3, par 8), la confessione è stata uno dei riti fondati della società occidentale, quello da cui si attende la produzione di verità:

 

L’individuo si è per molto tempo autenticato in riferimento agli altri e attraverso la manifestazione del suo legame con essi […]; in seguito lo si è autenticato attraverso il discorso di verità che era capace o obbligato a fare su se stesso […] Ci si sforza di dire con la massima precisione quel che è più difficile dire; ci si confessa in pubblico ed in privato, ai genitori, agli educatori, al medico, a coloro che amiamo; facciamo a noi stessi, nel piacere e nella pena, confessioni impossibili ad ogni altro, e di cui facciamo dei libri. 

 

L’obbligo della confessione «è ormai così profondamente incorporato in noi che non lo percepiamo più come l’effetto di un potere che ci costringe; ci sembra al contrario che la verità, nel più segreto di noi stessi, non “chieda” che di farsi luce». (Ivi. cap 3 par 7)

 

TikTok sembra accogliere questa richiesta, incentivarla e metterla a confronto con migliaia di altri utenti. La seduta psicoterapeutica freudiana, che trovava le sue origini nel secolare dispositivo della confessione, con TikTok si trova semplificata e svuotata della sua profondità. L’utente lascia così da parte tutte le sfumature, preferendo che la verità su di sé si costituisca non più attraverso la profonda ricerca interiore – in cui anche il più piccolo desiderio veniale veniva inseguito e rievocato – ma tramite una ricerca personale, che viene medializzata e verbalizzata nella maniera più superficiale possibile. Sono queste le dinamiche che ci possono aiutare a comprendere come TikTok e tutti i social media che ne hanno copiato i contenuti abbiano contribuito in modo significativo all’amplificazione del dibattito sulle malattie mentali. 

Video rapidi, definizioni brevi, liste di sintomi in assenza di spiegazioni: confessare la propria malattia mentale diventa un modo di farsi conoscere e far conoscere un disturbo. Se appena una decina di anni fa parlare di malattie mentali veniva sconsigliato ed era considerato socialmente problematico, ora questo parlare sembra essere, all’opposto, socialmente e medialmente incentivato. 

Alain Ehrenberg  ci ricorda che i mass media «hanno il potere di ridurre il tasso di imbarazzo o di colpa che potrebbe intralciare chiunque si attingesse a parlare in pubblico dei propri problemi personali […]. Essi sono un veicolo di legittimazione sociale e di rassicurazione collettiva». (2010 parte seconda, cap 4.1.3, par 7). 

A contribuire, spesso a dare il via a questa sensibilizzazione, sono le molte celebrità attive su questi argomenti. 

Selena Gomez, Billie Eilish e Serena Williams sono solo alcune delle figure che hanno maggiormente contribuito alla divulgazione e alla sensibilizzazione sul disturbo bipolare, l’ansia grave, la depressione borderline e la sindrome di Tourette, organizzando  importanti campagne e raccolte fondi. Elon Musk, Greta Thunberg e perfino Albert Einstein riesumato per l’occasione hanno contribuito ad allargare la discussione sulla sindrome di Asperger e sull’autismo ad alto funzionamento, permettendo una maggiore integrazione sociale delle persone con queste neurodivergenze. Insomma, ci si rivolge anche ai personaggi del passato e si diagnosticano loro quelli che sono i disturbi contemporanei. Ad esempio, di Leonardo Da Vinci si ipotizza che fosse affetto da ADHD (Dixon 2019). 

Le celebrità che parlano di malattie mentali non lo fanno solo per destigmatizzarle. Nei loro discorsi, la malattia viene presentata come una sfida da superare, quella difficoltà  che umanizza la star avvicinandola a noi, rendendola allo stesso tempo più forte perché, nonostante il suo disturbo (o addirittura grazie a esso), è riuscita a raggiungere risultati straordinari. Questa dialettica della malattia mentale produce un male da superare e una vittima da aiutare. 

Nel suo Critica della vittima, Giglioli (2014 cap 0, parte 1) afferma che «La vittima è l’eroe del nostro tempo. Essere vittime dà prestigio, si impone l’ascolto, promette e promuove riconoscimento, attiva un potente generatore di identità […] Immunizza da ogni critica, garantisce innocenza al di là di ogni ragionevole dubbio».

 

Essere vittima è desiderabile per le Star perché crea seguito e risposta. Fa parlare di sé. È un movimento discendente che da un lato umanizza la celebrità, e dall’altro la eleva ancora di più a testimone di un proprio problema e della sua autenticità. 

Per quanto concerne noi fruitori, invece, il solo dare ascolto alla vittima ci lascia la percezione di averla aiutata. Ed è nel movimento prodotto dal racconto della vittima che si crea uno dei modelli più immediati e facili per divulgare la malattia mentale sui social. Ascoltare la vittima ci illude di comprenderla, di starle vicino, e allo stesso tempo innesca in noi un movimento di immedesimazione. Ed è proprio nell’ immedesimazione con il malato che sorge in noi l’idea di poter essere malati a nostra volta. Non solo i Social ci fanno interrogare sulla nostra vita interiore, ma ci forniscono anche gli intimi vocaboli e la grammatica per poter comprendere questa interiorità:

L’interiorità, infatti, non è tanto dentro la testa di persone che sono incapaci di inventarsi da sole il proprio linguaggio, ma è simultaneamente nel mondo e in noi: presuppone l’azione di interpreti che sappiano formulare significati comuni, che ciascuno può comprendere e far propri per poter esprimere ciò che avverte dentro di sé. Senza le istituzioni dell’interiorità, non c’è, socialmente parlando, interiorità. Essa è il prodotto di una costruzione collettiva che, sola, le fornisce il quadro sociale all’interno del quale può esistere. Cambia, così, la percezione della sfera intima (Ehrenberg, 2010 Parte seconda cap 4.1.2, par 1). 

 

Così, TikTok, nuova istituzione dell’interiorità, modifica la nostra comprensione interiore e ci permette di appropriarsi delle stesse malattie mentali che mostra.

La nostra interiorità viene letta attraverso le convenzioni di una grammatica costruita da contenuti rapidi e semplificati, necessari a una piattaforma dai criteri molto stretti. È il medium che detta i format, i tempi e il layout ai contenuti; sono i dati e gli algoritmi della piattaforma a indicare cosa dire e cosa no. Il successo di una newsletter come di un video si quantifica con le condivisioni, le visualizzazioni e i like, e questi dati non sono neppure legati alla qualità del contenuto stesso. Se l’obiettivo è raggiungere molte visualizzazioni, il contenuto verrà  modellato per poterle raggiungere. 

A costruire il vocabolario corrente con cui si tratta la salute mentale sono: le vittime di un disturbo, gli psicologi, gli psicoterapeuti e alcune volte degli psichiatri. Il problema è che in questi video l’essere una figura professionale non è un requisito fondamentale: chiunque potrebbe essere legittimato a esprimersi su gravi disturbi psicologici solo per il fatto di essere lì, nel video, a parlarne. Così, l’autorevolezza della medicina sembra essere diventata superflua, comparendo solo come garante illusorio di un discorso parziale e semplificato. 

Migliaia di ragazze e ragazzi, senza laurea in psichiatria o psicologia, hanno sentito il bisogno di condividere la loro esperienza, di parlare della propria malattia — spesso neppure ufficialmente diagnosticata e comprovata — raccontando la loro personale esperienza, ma soprattutto citando informazioni ottenute autonomamente da libri e fonti online. Sono proprio queste ricerche autodidattiche a creare un circolo vizioso, dato che spesso le informazioni citate dagli utenti sono le stesse diffuse nei video creati da altri semi-professionisti. Gli autori dunque reiterano referti mal compresi, mezze verità e sintomatologie errate; sviluppando un discorso che a forza di ripetersi si afferma come quello corretto perché, se tutti lo ripetono, allora non può non essere vero.

In questa situazione di produzione orizzontale di conoscenze  — in cui è la sola allitterazione degli assunti a produrre la verità — la definizione di ADHD si fa sempre più ampia, riducendo quella già sottilissima soglia di normalità che incentiva a parlare online della propria malattia. 

Senza dubbio, questi profili virtuali di advocacy per la mental health creano consapevolezza e mobilitazioni intorno ai temi della salute mentale, ma allo stesso tempo modellano e forniscono una struttura di interpretazione dell’io interiore sempre più superficializzante. Approfittando della “rete a maglie larghe” data dal DSM, questi “esperti” di malattie mentali sono riusciti a sfondare la trama, e questo è sicuramente uno dei motivi per cui ora le diagnosi di ADHD sono inflazionate, spesso errate o addirittura date appositamente positive, come è successo recentemente a persone sane nel Regno Unito (Carson 2023).

3. ADHD, rapporto tra attenzione e ambiente 

 

Il DSM afferma che per diagnosticare l’ADHD in un adulto è necessario avere cinque dei seguenti sintomi: 

 

a.  Spesso non riesce a prestare attenzione ai particolari o commette errori di distrazione nei compiti scolastici, sul lavoro o in altre attività (per es., trascura o omette dettagli, il lavoro non è accurato). 

b. Ha spesso difficoltà a mantenere l’attenzione sui compiti o sulle attività di gioco (per es., ha difficoltà a rimanere concentrato/a durante una lezione, una conversazione o una lunga lettura). 

c. Spesso non sembra ascoltare quando gli/le si parla direttamente (per es., la mente sembra altrove, anche in assenza di distrazioni evidenti). 

d. Spesso non segue le istruzioni e non porta a termine i compiti scolastici, le incombenze o i doveri sul posto di lavoro (per es., inizia i compiti ma perde rapidamente la concentrazione e viene distratto/a facilmente).

e. Ha spesso difficoltà a organizzarsi nei compiti e nelle attività (per es., difficoltà nel gestire compiti sequenziali; difficoltà nel tenere in ordine materiali e oggetti; lavoro disordinato, disorganizzato; gestisce il tempo in modo inadeguato, non riesce a rispettare le scadenze).

f. Spesso evita, prova avversione o e riluttante a impegnarsi in compiti che richiedono sforzo mentale protratto (per es., compiti scolastici o compiti a casa; per gli adolescenti più grandi e gli adulti, stesura di relazioni, compilazione di moduli, revisione di documenti). 

g. Perde spesso gli oggetti necessari per i compiti o le attività (per es., materiale scolastico, matite, libri, strumenti, portafogli, chiavi, documenti, occhiali, telefono cellulare).

h. Spesso è facilmente distratto/a da stimoli esterni (per gli adolescenti più grandi e gli adulti, possono essere compresi pensieri incongrui).

i. È spesso sbadato/a nelle attività quotidiane (per es., sbrigare le faccende; fare commissioni; per gli adolescenti più grandi e per gli adulti, ricordarsi di fare una telefonata; pagare le bollette; prendere appuntamenti). (American Psychiatric Association, 2013 pp. 68-69) 

 

Per risultare affetto da ADHD è sufficiente che un adulto abbia manifestato cinque di questi sintomi per almeno sei mesi consecutivi. Inoltre, dev’esserci stata traccia dei sintomi prima del compimento dei dodici anni e questi devono essersi presentati in più contesti (non solo a casa ma anche nel luogo di lavoro o scuola). Dev’essere inoltre chiaro e manifesto l’impatto della neurodivergenza  sull’attività lavorativa o di studio. Infine, l’ADHD non può sussistere se si hanno già altri disturbi diagnosticati, quali autismo, bipolarismo o dislessia. 

 

Io ho perso quattro volte il portafoglio, dimentico costantemente lo zaino, il cellulare e le chiavi in giro. Mi distraggo facilmente, soprattutto mentre leggo, e sono molto disordinato. Ho dimenticato le volte in cui ho lasciato l’ombrello in treno o saltavo gli appuntamenti dal dentista, a scuola guida o a lezione di inglese. Se dovessi autodiagnosticarmi l’ADHD, leggendo i sintomi descritti dal DSM, ricadrei appieno in questo disturbo: sei sintomi su nove. Sono anche sicuro che a molte delle persone che hanno letto l’elenco precedentemente riportato sia sorto il dubbio di soffrirne. 

Su TikTok, #ADHD è una delle categorie video più popolari, vantando complessivamente diverse decine di miliardi di visualizzazioni. Uno studio del 2022, analizzando i cento video più visti su TikTok a tema ADHD, ha mostrato come il 52% di questi fossero fuorvianti e il 21% legati a esperienze personali, mentre solo una piccola parte conteneva informazioni effettivamente utili. In generale, questi video erano facilmente comprensibili ma poco fruibili (Yeung, Ng, Abi-Jaoude, 2022).

 

Lo sviluppo del dibattito intorno l’ADHD pone delle questioni sia sociali che culturali: chi stabilisce l’organizzazione personale? Con quali parametri una persona è da considerarsi attenta? Per trovare risposte, però, dobbiamo prima chiederci in quale ambiente ci stiamo ponendo queste domande.

Nel nostro contesto storico attuale siamo circondati da un’infinità di tecnologie che fanno a gara per catturare la nostra attenzione. Le piattaforme producono un flusso costante di avvisi che inducono una continua connessione al mondo virtuale. Così, la nostra attenzione viene capitalizzata, e ci ritroviamo sempre più spesso immersi in un rabbit hole atemporale che ci distrae, tirando la nostra concentrazione di qua e di là, arrivando perfino ad alterare i nostri obiettivi personali. 

In Internet ci rende stupidi? Come la rete sta cambiando il nostro cervello, Nicholas Carr (2010) si domanda in che maniera Internet stia cambiando la nostra capacità di concentrazione. Pertanto,  l’autore traccia un percorso attraverso le evoluzioni tecnologiche che hanno portato alla creazione di quello spazio di contemplazione solitaria che chiamiamo attenzione, concludendo che oggi tale spazio è costantemente  minacciato dalle tecnologie, le quali impongono altri criteri di concentrazione.

Insomma, con l’avvento di Internet, i paradigmi di concentrazione novecenteschi sono divenuti sempre più confusi e frammentati. Nonostante l’attività produttiva continui a imporre un regime di concentrazione simile a quello dei vecchi sistemi disciplinari, la nostra attenzione si è trasformata in qualcosa di più vicino a quella che esisteva in un periodo pre-letteratura, nella quale ogni minimo stimolo riceveva una risposta immediata. 

Questa nuova forma di attenzione — per alcuni disattenzione — è diventata sistemica poiché funzionale al sistema stesso, la più adatta a navigare  nella  continua eterogeneità dei contenuti forniti online. È in questo nuovo ambiente che l’ADHD si configura come un pretesto palliativo, una scusa per le nostre distrazioni, presentandosi quale causa e/o effetto di questo manifesto e collettivo slittamento nel concetto di attenzione.

Il pop-psicoterapeuta Thomas Hartmann (2019) afferma che la persona che soffre del disturbo da deficit di attenzione è come un cacciatore in un mondo di agricoltori. Il cacciatore deve sempre mantenersi in stato di allerta perché il pericolo o la preda possono spuntare da un momento all’altro, ma questa condizione non lo rende adatto ai lavori metodici e pianificati. Tuttavia, non sono anche gli stessi videogiochi, i siti web e il nostro cellulare a richiedere un’attenzione diffusa, da cacciatore? 

Osservando le pratiche mediali  che ci circondano attualmente, sembra che McLuhan (2015) avesse ragione nel dire che i media elettrici ci stanno riportando a una società tribale. Ed è proprio in questa società tribale che conviene essere cacciatori piuttosto che contadini. Sempre Hartmann sostiene che il disturbo dell’ADHD è genetico, vale a dire che è un gene a rendere l’individuo più propenso a prestare attenzione a tutto senza fossilizzarsi su nulla, ad annoiarsi facilmente e a necessitare di continui cambiamenti. Inoltre, per Hartman, l’ADHD è il gene che contraddistingue gli imprenditori, i politici e gli insegnanti

Tuttavia, considerare l’ADHD di origine esclusivamente genetica appare particolarmente problematico. L’ADHD, infatti, si presenta come un disturbo dalle cause non meglio definite e, sebbene sia plausibile che ci sia una piccola componente genetica, gli indicatori biologici non sono sufficienti a sostenere questa tesi. Diversamente, svariati fattori ambientali, con cui si entra in contatto specialmente nel periodo dell’infanzia, sembrano agire come trigger per l’insorgenza del disturbo.

 

 Insomma, di fronte ai galoppanti cambiamenti di cui la nostra attenzione è una delle vittime, l’ADHD ci fornisce una spiegazione chiara, semplice e concreta del nostro essere distratti. Grazie a essa il problema può essere diagnosticato come un disturbo: in un’ottica deresponsabilizzante, la colpa non è nostra ma della genetica. Una diagnosi di questo tipo fa sorgere — nel paziente-utente — la paura di avere un disturbo che influisce sul comportamento sociale, unita allo sconforto di non essere mai stati autentici perché da sempre mossi da una malattia. 

Tuttavia, l’idea di avere un disturbo diagnosticabile e condiviso con altri utenti induce anche un certo sollievo, perché dà la possibilità di scoprire che non siamo mai stati noi la causa dei nostri problemi. In fondo, è solo comprendendo sé stessi, attraverso la lente della propria malattia, che si può sperare di scoprire la panacea di tutti i propri mali.

La fascinazione verso l’ADHD esiste perché è molto più semplice giustificare le proprie mancanze organizzative come conseguenza di una malattia mentale piuttosto che riconoscere la difficoltà di vivere nella nostra società. Si cercano spasmodicamente questa o altre diagnosi a causa delle assurde aspettative socialmente imposte. 

Il discorso delle malattie mentali rischia perciò di oscurare e invisibilizzare le vere ragioni  dietro i nostri comportamenti. Il voler spiegare sé stessi tramite una patologia psichiatrica compromette la nostra capacità di comprendere il mondo attorno a noi. 

 

4. Relatability: i video dell’ADHD

 

L’illustratore Ice Cream Sandwiches (2022), in un video YouTube di pochi minuti, racconta  come ha scoperto di avere l’ADHD: la clip inizia con un’introduzione ricorrente in diversi video sulle malattie mentali: «tutto è iniziato con la buona e classica negazione». Così, l’autore racconta di aver manifestato per lungo tempo i sintomi dell’ADHD ma di averli negati, credendo fossero dei comportamenti normali o al massimo stravaganti. Il creator realizza di avere l’ADHD quando vede «dei video molto buffi ma relatable» registrati da altri utenti: contenuti che all’inizio ignorava, ma che a forza di guardare gli hanno fatto sorgere diversi dubbi sulla sua “normalità”. 

In italiano non esiste un equivalente dell’aggettivo «relatable», ma in sostanza è relatable tutto ciò che riguarda, si riconduce o si identifica in relazione a qualcuno o a qualcosa. Come vedremo di seguito, i video che trattano i sintomi dell’ADHD sono, per la maggiore, prodotti da altre persone come noi, figurando perciò come relatable. 

Gli indizi di malattia che Ice Cream Sandwiches aveva trovato nelle sue ricerche online per poi ritrovarle in sé stesso erano:

 

  1. Dimenticarsi di bere acqua per intere giornate.
  2. Avere decine di schede aperte su Google.
  3. Chiudere la porta a chiave, ma, pochi secondi dopo, controllarla per sicurezza.
  4. Parlare con se stessi camminando in cerchio.
  5. Rileggere diverse volte gli stessi paragrafi di un libro per poterli capire.
  6. Avere un compito da svolgere, ma nel frattempo dimenticare cosa bisognava fare.
  7. L’assenza di effetto della caffeina se non per aumentare la propria agitazione.
  8. Impiegare molto tempo per rispondere ai messaggi.

 

Questa sintomatologia lo ha portato in una clinica a richiedere una diagnosi che è risultata positiva. Il video termina con lui mentre afferma che aver scoperto di avere l’ADHD gli ha permesso di stare meglio perché ha motivato le sue distrazioni e i suoi comportamenti aiutandolo a comprendere la sua responsabilità d’azione. 

Ho usato l’esempio Ice Cream Sandwiches perché con il suo video ha raggiunto milioni di utenti e illustra, in maniera rapida e chiara, come è arrivato a diagnosticare il suo disturbo. Allo stesso modo, la storia raccontata dallo youtuber ci mostra il funzionamento video di questi “sintomi relatable”.

L’esperienza dell’illustratore parte dalla negazione della malattia. All’inizio del suo video lui non credeva di avere l’ADHD. Questo esordio funziona da grimaldello, minando la nostra sicurezza. Implicitamente ci chiede di immedesimarci in questi sintomi negati, ci chiede di considerare i nostri comportamenti come possibili conseguenze dell’ADHD. Successivamente ci viene mostrato l’elenco dei sintomi che lo hanno portato a dubitare della sua salute. Questo comportamento, quello di rivedersi in una serie di sintomi, di sentirsi riguardati, è la relatability, la quale innesca poi l’interesse del pubblico, aumentando le visualizzazioni a migliaia o milioni di utenti.

Infine, nell’ultima parte del video,  Ice Cream Sandwiches ci mostra la diagnosi sollievo, quel tipo di diagnosi che finalmente ci aiuta a comprendere i nostri comportamenti e che diventa fondamentale per conoscersi meglio. 

Questa visione dell’ADHD come chiave della conoscenza di sé è uno dei discorsi più importanti e frequenti che si trovano nei contenuti prodotti dagli utenti. Per esempio, sulla pagina ADHD e oltre, l’admin Paolo Raffin sostiene che il comprendere di avere l’ADHD lo abbia aiutato a smettere di autogiudicarsi. Tutto ciò è stato possibile perché la malattia gli ha permesso di conoscere sé stesso. Ma è il video della coppia di creator YouTube ADHD LOVE  quello che più di tutti ci mostra come la diagnosi stravolga completamente il modo di concepire il nostro sé: per presentare il loro nuovo libro sull’ADHD, la coppia inizia a elencare in modo molto emotivo delle problematiche che una ragazza o un ragazzo potrebbe avere, non riuscendo  a collegarle a questa malattia.

 

hai l’ADHD o pensi di averla? […] passi molto del tuo tempo a sentirti a pezzi? Ti senti inconsiderato, come se non si preoccupassero di te? Ti vergogni perché fai fatica con compiti base quali pulire e l’igiene personale? Ti senti frustrato a fare questi compiti? Senti che, dentro di te, hai un potenziale straordinario ma che, non importa cosa fai, non potrai mai raggiungerlo?

 

Il video termina affermando che il loro libro ti aiuterà a smettere di credere di essere rotto, ti farà accettare quello che sei e, finalmente, ti aiuterà a vivere autenticamente.

Ma quali sono gli adolescenti che non hanno questi pensieri? Chi non si è mai sentito sbagliato o inconsiderato? Chi non ha mai dubitato del proprio potenziale senza riuscire a esprimersi appieno? 

Prima di essere delle emozioni specifiche (delle persone affette da ADHD), è importante riconoscere che questi sentimenti sono umani e che queste domande possono sorgere in ognuno di noi. Insomma, si tratta di sentimenti comunemente ambigui a cui l’ADHD permette di dare una risposta facile. Così, il disturbo da deficit di attenzione diventa anche uno strumento per migliorare il rapporto con noi stessi, utile a capire perché ci sentiamo tristi e soli. Con queste caratteristiche, chi non desidererebbe questa etichetta?

Nel libro La meccanica delle passioni, da una prospettiva neuroscientifica, Alain Ehrenberg  si chiede: 

[Le scorciatoie cognitive] trasformano realmente le nostre rappresentazioni e la nostra comprensione dell’essere umano? Le persone si stanno riconoscendo o identificando attraverso giochi linguistici di tipo cerebrale o cognitivo, della serie «è il mio cervello, non sono io», e qual è la ricaduta sulle loro vite? (…) Le «scorciatoie cognitive» stanno per rimpiazzare gli atti mancati e la gestione delle emozioni, l’esplorazione dei conflitti del desiderio? […] In che misura e in quali contesti il cervello diventa un sistema di riferimento per vivere, un criterio d’identificazione per gli individui che si riconoscerebbero nel loro cervello sano o malato? (2018 Cap. 0.1 Par 3).

 

A vedere il contesto dei social network, il livello di questa identificazione sembra molto alto. Trattando sé stesso come malato, distaccandosi da sé stesso, ma, allo stesso tempo, immedesimandosi nel proprio io, Il creator su TikTok — quando produce un video — tratta il proprio io come un oggetto a lui esterno, una cosa che esiste indipendentemente dalla propria coscienza, non interpretando sé stesso, bensì questo sé dal cervello neurodivergente visto in terza persona. Questo sé è divenuto oggetto ed è contemporaneamente “soggetto” di un’indagine empirica, in cui si mostrano i suoi modi di manifestarsi. Sono io che ho e sono questi sintomi, sono sempre io che devo rivelarli e performarli davanti a una videocamera per mostrarli a un pubblico. 

Su TikTok, Eric LA^ interpreta sia persone senza il disturbo che persone affette dal deficit. L’autore cerca di simulare situazioni in cui può mostrare cosa significa vivere con questa malattia. Finge di trovarsi sul posto di lavoro, di dover montare dei mobili IKEA o di avere un appuntamento al ristorante. Attraverso questa rappresentazione, egli oggettivizza i propri comportamenti, li evidenzia come comportamenti correlati all’ADHD e li utilizza come esempi per descrivere la sua situazione e quella di altre persone con lo stesso disturbo. Inoltre,  Eric LA^ trasforma i suoi sintomi in espedienti comici. Il messaggio che vuol far passare non è quello che l’ADHD o altri disturbi siano divertenti. Piuttosto, egli sfrutta elementi paradossali e ironici del disturbo per farlo conoscere, dunque per sensibilizzare altri utenti. In questa sua traduzione l’ADHD diventa più interessante e ulteriormente relatable. Difatti, il video pullula di commenti come «assolutamente io!» o «me tutto il tempo».

5. Il mito del potenziale nascosto

 

Se tutti ci possiamo riconoscere nei comportamenti ADHD, dove sta la specificità di questo disturbo? L’ADHD è disturbo o neurodivergenza? Si tratta di un cervello diverso o di un cervello malato? Il neurodivergente, infatti, è colui che ha un cervello che diverge da quello che viene definito “normale”; diverso, non-comune, non malato. Insomma, neurodivergenza è un termine senza connotazioni negative usato per descrivere cos’è l’ADHD o l’autismo. Chi ha l’ADHD basa la propria identità su questa differenza con gli individui tipici. Ma questa divergenza rende il vivere quotidiano più difficile. Alcuni creatori di contenuti sono chiari in questo punto: l’ADHD è un disturbo debilitante e ha bisogno di farmaci. Ma la questione continua a rimanere aperta: l’ADHD non è e non può essere solo disabilità e come ogni disturbo popolare sui social deve in un qualche modo essere speciale. 

La soluzione a questo dilemma sta nel fatto che l’ADHD è bifronte, non è solo handicap ma è anche superpotere: è allo stesso tempo utile e dannosa. Limita l’attenzione e rende disordinati, ma potenzia la creatività e permette di accorgersi prima degli altri dei problemi e delle loro possibili soluzioni. Inoltre rende le persone più carismatiche. I discorsi tra i pro e i contro non mostrano la malattia mentale come qualcosa di esclusivamente negativo e debilitante. Certo, essa ti dà qualche svantaggio, ma ti permette anche di avere capacità diverse dagli altri, di avere talenti nascosti. Il disturbo, per essere appetibile, deve dunque offrire un potenziale nascosto che ti renda unico. 

La malattia mentale è sempre stata una grande matrice di identità, produttrice di molteplici sé. Oltre a offrirsi come un’etichetta in cui identificarsi, il disturbo mentale è anche riuscito a fornire archetipi e personaggi: la malattia, da secoli a questa parte, si fa portatrice di modelli morali sia negativi che positivi molto più utili alle persone sane che ai malati. 

La storia della follia nell’età classica di Foucault (2011), partendo dal medioevo per arrivare alla psicoanalisi freudiana, ci racconta come i folli, gli uomini e le donne di «sragione» siano stati frequentemente investiti da etichette e siano spesso diventati portatori di identità negative imposte dalle varie autorità. 

Tra gli anni Ottanta e Novanta, tuttavia, l’identità del malato muta completamente. Importanti autori come Oliver Sacks (2013) o Temple Grandin (Grandin, Panek. 2014) sono riusciti a raccontarci come la malattia renda l’identità degli individui fuori dalla norma, come tale deviazione rappresenti un valore e non una gogna. I neurodivergenti diventano individui dalle caratteristiche uniche, che riescono a vedere il mondo da prospettive completamente diverse, offrendo all’umanità nuovi modi di vedersi, interpretarsi e conoscersi. Attraverso questi testi si è abbandonata l’idea che la malattia mentale fosse un semplice male, un paradigma delle peggiori virtù umane. 

A distanza di tempo, con l’appropriazione del racconto in prima persona delle persone affette da disturbi e le meccaniche dei social network, la malattia ora si presenta come un nuovo modello morale positivo e valido per tutti: quello di chi supera le proprie diversità e i propri problemi trasformandoli in punti di forza per aspirare al successo. Ognuno di noi può essere unico, può diventare essenziale a qualcuno: esattamente come il neurodivergente, ognuno di noi può farcela

I video su TikTok seguono questo paradigma: permettono di destigmatizzare una malattia e di riconoscersi in essa, facendo in modo che questa non venga rigettata o combattuta, ma che piuttosto si configuri come punto di partenza ideale su cui costruire la propria identità e addirittura la propria carriera lavorativa, finanche il proprio futuro, diffondendo questo nuovo modello morale della neurodivergenza. Come sostiene Ehrenberg (2019), anche i discorsi online attorno alla malattia mentale ci forniscono la seguente lezione:

 

bisogna essere se stessi e, per essere se stessi, bisogna trovare il potenziale nascosto, risvegliare la scintilla divina dentro di sé. Questi modelli di grandezza con cui ciascuno può identificarsi mostrano la diversità dei modi in cui ognuno può convertire un male in bene acquistando fiducia in se stesso. Sono modelli di essere: delineano vie vitali o credibili per l’utopia di una società organizzata sull’individuo.

 

Questi discorsi non influenzano solo gli individui malati ma la società tutta. Se, come nella serie TV The Good Doctor, l’autistico ad alto funzionamento riesce a trovare il suo posto nella società e a far fruttare i suoi talenti, ritrovando la propria autonomia o addirittura il successo, perché non riusciamo a farlo tutti noi? L’ADHD, l’Asperger o il disturbo bipolare stanno diventando il modo più semplice per ottenere e rivendicare il proprio posto nel mondo, per scoprire e manifestare il proprio potenziale come individui. 

6. La posta in gioco

 

Com’è potuto diventare tollerabile che così tante persone, e in particolare così tante persone giovani, siano malate? La «piaga della malattia mentale» che affligge le società capitaliste lascia intendere che, anziché essere l’unico sistema che funziona, il capitalismo sia innatamente disfunzionale; il prezzo che paghiamo per dare l’impressione che il capitalismo fili liscio è davvero molto alto (Fisher 2018 cap 3, par 10).

 

Mark Fisher, in realismo capitalista, ha individuato tre aporie che possono rivelarci come il nostro sistema economico, sociale e culturale sia insostenibile. Queste aporie sono la crisi climatica, l’aumento della burocrazia e, infine, la salute mentale. Sono anch’io convinto che la salute mentale sia un evidente parametro negativo della salute del nostro sistema economico e culturale e – aggiungerei – che questo parametro sia stato neutralizzato e digerito dalla discussione attuale, specialmente sulle piattaforme social. 

Byung-Chul Han (2020 cap.1 par.1) sostiene che i disturbi quali depressione, ADHD, borderline o la sindrome di Burnout non provengano da nessuna negatività: essi non sono il prodotto di un’alterità immunologica «ma sono determinati da un eccesso di positività». Sono infarti neuronali provocati da un eccesso dell’eguale: «La violenza neuronale non è originata da una negatività estranea al sistema. Essa stessa è piuttosto una violenza sistemica, vale a dire immanente al sistema» (Ivi, par. 9). 

La violenza dell’eguale è subdola, inaccessibile alla percezione immediata. La nostra società si è sempre più sottratta dalla negatività: abbiamo rimosso le regole del vecchio sistema disciplinare e pertanto siamo virtualmente liberi di fare tutto. Abbiamo soppresso tutti i limiti permettendo che l’imperativo del lavoro sfociasse nell’autosfruttamento. Ci sfruttiamo fino all’esaurimento delle nostre possibilità fisiche e cerebrali senza che nessuno ci possa fermare: «Le malattie psichiche della società della prestazione sono appunto le manifestazioni patologiche di questa libertà paradossale» (Ivi, cap 2 par 6). 

Come sottolineavo all’inizio di questo testo, nei discorsi presenti  online e sui  social l’origine di questi disturbi psichici è completamente ignorata, oppure, nel migliore dei casi, ne viene data solo un’origine genetica, senza considerare nessuna alterità o influenza contestuale. Eppure, questi disturbi vengono presentati esattamente come alterità e potenzialità in essere. Oggi possiamo affrontare questi disturbi con le autodifese fornite da alcuni blog su Medium, conoscere i nostri talenti segreti tramite TikTok, oppure superare le difficoltà del deficit di attenzione grazie all’aiuto di un ADHD coach. Tuttavia, nello sviluppo e nella ricerca di queste difese, non riusciamo più a individuare la causa di questi disturbi o a chiederci perché sono venuti fuori se non tramite una spiegazione genetica. Gli scompensi fisici del nostro cervello, epurati da ogni eziologia, ci hanno portato di fronte a un male senza storia. 

Lo psicoterapeuta Oliver James (2008 Cap 1 Par 1), critico di qualsiasi visione genetica delle malattie mentali contemporanee, ritiene che la maggior parte dei disturbi che stiamo affrontando adesso siano di origine sociale, ed è per questo che lui non li chiama disturbi ma «sofferenze emotive […], risposte psicologiche a una varietà di gravose influenze ambientali».

Quasi per convivere il più possibile con queste gravose influenze ambientali, i medicinali hanno iniziato a prendere il posto della psicoterapia. Stimolanti e antidepressivi modificano le prestazioni del nostro cervello, diventando farmaci che persino le persone neurotipiche utilizzano per accrescere la loro produttività. Questa forma di “cura” o “potenziamento” lega ulteriormente le malattie a una mera questione biochimica, rischiando di ridurre l’interpretazione dei nostri comportamenti e del nostro io a un groviglio di attività cerebrali.

La posta in gioco della discussione sulle malattie mentali è molto alta. Per quanto saremo ancora disposti a ignorare questi eloquenti segnali del malessere della nostra società? Per quanto saremo propensi a tapparci gli occhi e le orecchie ingurgitando farmaci come cura ai nostri problemi? La risposta farmaceutica e le discussioni sui social hanno portato la malattia a divenire un ente in grado di creare nuove soggettività mediante una sintomatologia completamente desogettivata, non aderente all’unicità dell’individuo e alle sue condizioni complessive. Il mondo interiore si ribalta trasformandosi in una questione sempre più biologica e neurochimica: di fronte a questi disturbi ci mostriamo nudi, depersonalizzati. Questo capovolgimento riveste il soggetto di un’etichetta performativa a cui aderire convincendolo che quella sia l’unica realtà possibile. 

 

Bibliografia

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Giglioli Daniele, Critica della vittima. Un esperimento con l’etica, Nottetempo, Roma, 2014, epub.

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Videografia

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Eric LA^, profilo personale,  https://www.tiktok.com/@lifeactuator, consultato il 19 novembre 2023Ice Cream Sandwich, adhd, 4 dicembre 2022, https://www.youtube.com/watch?v=-NVoikSV-cQ, consultato il 17 Novembre.

 

Biografia

Stefano Stoppa (Venezia, 2001) è un artista visivo che vive e lavora tra Treviso e Venezia. Laureato in arti multimediali all’università IUAV di Venezia, la sua attuale pratica artistica si muove tra performance, installazioni, grafiche e video. Nel suo lavoro, l’artista prova ad affrontare i diversi modi di produzione di identità personali tipiche della nostra contemporaneità indagando fenomeni quali l’auto-sfruttamento e la hustle culture, il self improvement e il mondo della salute mentale online. Dal 2021 fa parte del collettivo editoriale Ipercubo, dedito alla produzione e alla curatela di libri d’artista.