I

Fragore

 

Guardò al di sotto della grata interrata sterrata imbrattata a violenti tratti dal fango ritratto all’aria dallo strattone d’un tuono temporale dall’asma claustrofobica d’una salma elegante dilavata dalla stessa acqua ma carezzevole lei che invece non ha grazia quassù. Sentì il fetore d’una fallita riesumazione lo svuotamento che vanificato s’era con botto di cristalli su marmo di vene ostruite a carta da parati di crollate pareti dell’equilibrio su spillo conficcato in dubbia fenditura di mura che a capriccio si scelgono confessorie di quell’equilibrio di dare il soffio al marcio e assopire d’un sonno docile calmo agguinzagliato slaringato il pulso di cuore di polso che è vita srotolata che più non s’arrotola e tenti sedarla. Guardò al di sotto della grata insanguinata di ruggine di longevo ossigeno dilavatore e di antiche ferite di carogne incanalate come fiori zampillanti all’aria scura sotto il caldo letto verde freddo di brina al mattino lacrimante di taciuto supplizio. 

 

Guardò e sentì al di sotto lo schianto. 

 

Un fragore come di schiuma metallizzata d’onda di vetro infranta allo scoglio diamantato sotto l’occhio vigile d’ignoto gabbiano in sorriso ameno distaccato rivolto al guizzo d’un pesce che tenta l’ultima fuga dal destino di soccombere. Guardò al di sotto della grata e vide il gabbiano guardare al di sopra della grata e vedere il pesce e il pesce correndo affannato perdendo ogni vezzo d’argentea sfumatura e di brillantato manto guardare sopra e sotto nella concitazione il velo del mare infuriato e boccheggiare gonfiandosi d’acqua e guardare l’ombra sul ponte e vedere il gabbiano. 

Morir tra becco insalivato masticatore putrido o darsi all’abisso all’urto fatale? S’abbandonò alla morte. Non tentò più di sviare la corrente e s’armonizzò al suo singulto e si fece onda acqua vento gabbiano ombra erba cadavere verme formica fango legname a bara forgiato. Fu solo lui che prese l’anima sua a danzare in tempesta con spiacevole inaspettato diletto. Guardò allora il pesce prendersi il fantasma suo di attentato fantoccio stomachevole ad abbeverarsi di rude sorgente immacolata. 

Lo guardò e gli sentì vicino lo schianto. 

 

Era caduto il suo corpo? S’era discucita la pelle del pesce s’era squagliato? Era stramazzato il gabbiano? Era il lenzuolo del suo involucro che s’era staccato stancato del robotico suo vivere quieto e s’era dato al folle vortice d’acqua in delirio? Era l’occhio suo a guardare sotto la grata e vedere gabbiano affamato pesce suicida contento acqua in litigio col cielo? Eppur un qualche sentore di forza di gravità le percorreva le vertebre su linea retta sino ai piedi partendo da un sussurro a scavalcare silenziosamente d’assalto crudele lo spigolo della sua sinistra scapola per colarle sul seno sinistro fino al muscolo di pompa gassata stremata strenua instancabile martire dell’autoconservazione. Ancora il muscolo non sapeva che più forte di quella dell’acqua impazzita sarebbe stata la corrente che l’avrebbe taciuto e smascherato dell’invincibilità. Tanto può tentar la fisica il corpo materia che sempre sopperisce sperduta là dove il viandante omicida la incontri con la falce.

 

Sentì lo schianto.

Vicino al pesce

vicino al gabbiano

suicida contento

affamato

bestie.

Ma il suo corpo era ancora sul ponte? 

Passanti raminghi che il caso disperde avrebbero giurato d’averlo visto in volo all’alba sulla lingua distesa del mare rosato intinto di veleno ossigenato. 

Ma il suo corpo era ancora sul ponte. 

Nemmeno vedendosi cavaliere insensato che il male del mondo arrotola in giravolte casuali e fendendosi profondamente con spada puntuta avrebbe creduto d’aver ancora il suo corpo.

Nell’aria qualcosa era rimasto di quel folle volo fotogrammi perduti brina rugiada distillata da unghie stridule che rovistano muri di rossi mattoni tristi e ne risuona il vento.

Sentì lamine spezzarsi le gambe rottami accatastati senza affinità e vetrate intere sgretolarsi sotto l’usignolo d’una punta di martello dalle dolci convulsioni che conducono lente alla morte. Sentì ferraglia commista e uno scrosciare d’insetti reduci d’un inverno infernale rigido e disseccati d’improvviso dal saluto fugace del sole. Sentì piedi grandi come navi schiacciare quei gusci fossili e scheletri incancreniti di carne da macero per topi.

 

Quando capì d’aver forse ancora il suo corpo e che quello schianto non fosse stato veramente il suo si precipitò d’una corsa scomposta che aveva incontrato la grazia di sfuggita anni innanzi in un abbraccio ghiacciato e così rimasto dissepolto ma immobile.

La sua mente andò subito al Mare di nebbia di Caspar David Friedrich: certo preferiva chiamarlo Naufragio della speranza.

Compianse la caravella sventurata anch’essa in questo viaggio di dispersi e regalò all’aria lacrime amare per quella sorella caduta. Cantò carme funereo spargendo cenere brulicante d’intorno che fecondò di morte anche la terra livida e fervida. Abbracciò in un ultimo commiato l’intero paesaggio inerme spettatore tutto rappreso nell’inerzia del respiro meccanico e del gesto interrotto. 

«T’attendo al mare, al vaglio, in limine. Ancora sfoggia il sorriso distratto e non confidenziare all’uomo il talismano. Nascondine il colore sotto l’occhio con burla e lacrime. Ergiti ancora salda statua e crepati dall’interno e godine» parve al suo orecchio sentire.

Così risalì il greto che lacrimava pietre e camminò per molti sassi e pietre e mattoni e pareti e soffitti e controsoffitti e fragile cartongesso per nulla fonoassorbente. Compianò il lieve dislivello di quel paese selvatico e lo risalì sino alla fonte. Al passo rispondeva l’eco di quella voce riemersa da chissà quale torace dismesso dagli organici arredi di vene e ossa. Eppur era parsa ‘sì viva, come vivo quel corpo s’era sentito mai, come viva mai la sua voce s’era illusa attraversar la nebbia dell’eloquio. 

Aveva ancora una voce? 

Era stata sua quella voce? 

Era stato suo quel corpo nello schianto?

 

II

Rigonfi pennuti

 

‘Bello il falco

sicuro sull’aria

belle le ali

le piume

queste sue mani

forgiate ad arte

che libere e nude

ballano e

cantano

ridono e saltano

e quando si posa

anche in terra

fiero

il petto rigonfio

guarda il cielo

e i poveri piccioni

e si compiace

di non esser 

come loro:

grigio.

Ma quando

lo sento cantare

parlare

così lungamente

nel nido che ombra

i più piccoli

sotto di lui

volentieri

lo zittirei

e legato

ad un tronco latino

gli ruberei

una piuma

dal petto

e dopo averla vista

qui

sfeltrita

lei così prima

splendente

scriverei

da brutto

grigio

piccione

un canto spoglio

libero all’aria

spirante

distrutto

decostruito

sanguinante

dai polpastrelli ruvidi

stillante rossa rugiada

a fiotti

a fiumi

nel mare.

Scriverei 

il brutto

disarmonico

canto incorrotto

del grigio piccione

da grigio piccione

spennato

strozzato

starnazzante

come l’oca ciarliera.

Il piccione

ch’ombra non fa

perché è

esso stesso

d’ombra’

 

pensò a sentire quelle voci d’alterigia, a scorgere quelle mani agitate, quei sorrisi fieri d’illusione. Capì che non avrebbe mai potuto far branco con le aquile. A quale volo darsi? Forse la gru potrebbe essere buona compagna. Dov’era la sua gru? Forse il volo era da farsi in solitudine, planando, leggeri solo a se stessi, senza peso. Un volo amaro al sapore di sangue nell’anidride imbevuto, di pece spento, a cristalli rotto nella voce. Un giorno, pensò, avrebbe di sfuggita incrociato un paio d’occhi, due stelle, in quella traiettoria cosmica, e avrebbe loro lanciato il suo animo, in corsa: sarebbe precipitato? Qualcuno l’avrebbe raccolto? Scia di cometa nel sole. Stelle cadenti, o morenti, chissà. 

 

III

Rami di gru

 

Un insetto immenso bianco strisciante ho visto dimenarsi davanti a un paio d’occhi miei. Sembrava volersi districare da un qualche intrigo di bave e labirinti, ma forse semplicemente voleva concedersi attimi di furia dal sonno. Erano rami invecchiati e bianchi, quasi il ghiaccio li stesse abbracciando. E sembravano dondolare scricchiolando, sul punto di cadere, ma poi non cadevano. Si infrangevano all’aria, rimandando un crepitio lontano, quasi sussurrato. Per la prima volta i miei occhi hanno visto le loro mani, e gli sono parse legna avanzata dall’inverno, troppo fredda perché potesse scaldarsi, non ancora abbastanza gelata da poterne morire. In quel limbo quelle mani scoccarono quei gesti scomposti zampillando al cielo. 

 

IV

Scalata del mostro

 

È un mostro

che sovrasta il ponte vecchio

e il letto del fiume

il mio balcone

il mio cielo

quello che per abitudine

gli occhi miei hanno imparato

a riconoscere

qualcosa di reale di lassù.

Ma ora un dinosauro

bianco e rosso

bianco e rosso

mi sta davanti

e lo ritaglia

e lo figura

ancor più finto

ancor più carta

ancor più tinto.

Ma ora un drago

rosso e bianco

rosso e bianco

dai tentacoli di piovra

avido campeggia

e comanda al cielo mio

un riflesso ancor più tetro

e questo a lui risponde

come a un monito di dio.

Ed è questa commistione

di carta e metallo

d’altezza e lunghezza

di nero e bianco

e nero e rosso

che mi commuove

e porta il pianto.

Braccia fili e articolazioni

un pachiderma in carnevale…

 

Lascia a noi

eterni dannati

il volo disperato della gru

dalle ali piumate.

È poca grazia in te

che si libra nel suo volo.

 

Sento viva l’urgenza

di estirpare il mostro

o di scalarlo e darmi

leggera

al volo delle sue

membra monolitiche.

 

V

Invocazione alla musa

 

Tu che mi insegni

ogni forma esser

opera di riso

distogli quella

che m’impedisce il respiro

da quell’ombra

che l’illumina

che guardando

ella prende a prova

di vita.

 

VI

Breve e triste sticomitia

 

– Cosa prende il mio animo quando voglio la morte urlando, ansimando un futuro lontano, anni luce stanco?

– Prendi il largo.

– È predestinazione, è azione? Cosa mi muove? Sento di andarmene: lo voglio?

– Prendi il largo.

– Cosa trovo al fondo? Qual è maggior pena? Cadere, foglia d’autunno, per venir pestata, o ghiacciarsi al tronco, e resistere?

– Prendi il largo.

– Ma talvolta questo dolore amo, soltanto. Ne sorrido. Mi sento un’erta irta che sovrasti signora una piana valle, che signoreggi i formicai felici, sentendosi ella padrona di vera gioia, che del dolore è figlia. 

– Prendi il largo.

– Ma amo il fiore nero, del suo inchiostro voglio tingermi, nel suo catrame voglio rimanere imbrigliata, voglio imbrogliare gli stolti. Voglio salire l’eremo, non prendere il largo.

– Prendi il largo volo, che plani sull’acqua o che salga le montagne. T’aspetto al confine, al vaglio, in limine.

– Porterò il fiore nero, brinderemo all’alba, saremo rinati. Porterò buon vino. Sarà dolce compagnia. Chiudi le porte, ché entrano i mostri. Taglia le corde, o ci risvegliamo morti.

 

VII

Lamento funebre

 

Consolazione

dove sei 

se ti cerco

grigia consolazione?

Quando scendi 

mi trovi

in quell’angolo nero

ma non chieder di me

ché quell’angolo è in cielo. 

 

VIII

Testamento

 

Io non voglio vivere.

Penso che il mio animo

s’adatti piuttosto

ad altra faccenda.

La vita è cosa

sterminata

ché il mio animo vi affoga.

La morte forse

con il suo niente

con la sua nulla misura

sarebbe più compatibile

sarebbe più calzante

al mio animo nichilista.

Lui cerca disperato

la morte in questa vita

cosciente menzognero

a se stesso

ch’egli sa che la sola

vera morte

l’unica faccenda

ch’egli potrebbe saper abitare

non si trova che in se stessa

e in questa vita mai.

Finché strenuamente

si burlerà di sé

sarà la vita

abitabile un poco

per il pianto ch’è in lei.

Quand’anche la burla cadrà

e l’animo mio allora vedrà davvero

la sua ombra

stampata affissa

all’aria che questa strenua inerzia

pare scuotere

allora l’animo mio

dolce e sereno

tornerà a se stesso

nel silenzio del sonno eterno.

Sarà allora pace.

 

IX

Al ponte dell’ombra

 

Erano storie di molti decenni quelle che di bocca in bocca giunsero a colpire il suo orecchio con freccia di sangue rappreso. Lo stesso che tra ossa d’osteoporosi con ragni di tele labirintiche carpiva alla luce il suo pulviscolo, e la luce restava pura onda ritmica, lineare e insieme, incostante, mossa da ventri e creste, incerta. Era giunta in quel paese per caso, per noia, per inerzia, per la vita, che forse è per se stessa noia, quando non si comprende, quando più si sopporta, e più si regge, in soppalchi, dai quali si sporge a vedere il mare. Quando il mare ondeggia alto, ebbro, allora il soppalco, anche il più alto, si sgretola, e la noia riemerge, grigia, intatta, da tanti sonni sott’acqua. Aveva camminato lungo strade sconosciute, al saluto di volti in sorriso, alla compagnia d’alberi complici. In quel paese non aveva scelto dimora degna d’un uomo, ma un giaciglio primitivo, di quelli che oggi più non si vedono, più non si costruiscono, più non si scelgono. Una grotta scura, fredda, nell’antro d’una foresta inospitale forse, gentile sempre, indiscreta mai. Ché il verde sapeva sentirla, senza nulla chiederle, sapeva conoscerla, senza vederla, abbracciarla senza svegliarla. Vedeva al mattino un uomo ricurvo sui suoi anni, con le sue vertebre a rincorrere i piedi, a salvare il collo dal bagliore del sole e votarlo piuttosto all’innocenza della carne di quei lombrichi striscianti verso il nulla d’una terra umida. Alla soglia del suo labbro vedeva l’alba incontrarsi con il rigoglio luccicante del fiume in discesa, ed era come se una sveglia gli scoppiasse in pieno petto. Di getto il capo si rizzava e i capelli volteggiavano, e l’occhio cercava il contadino, la sua zappa, il suo baffo scomposto, proteso al primo raggio di caldo, carezza, benvenuto, ad un nuovo giorno, forse sperato, forse maledetto. Un giorno di primavera, con il piede bianco in cancrena sull’acqua fredda del ruscello che faceva sosta ogni giorno innanzi alla sua capanna, fermò il contadino.

– Maestro di terra, voi che sapere piegarla al vostro volere, come posso dominarmi? Cerco la morte, ma sono aggrappata alla vita. Come costringete il seme a farsi pianta, a mutarsi eppure vivere ancora, a non essere più eppure ad essere?

– Leggi, son leggi.

Quali leggi? C’è una legge che regoli il respiro, che faccia d’un morto un convinto vivente?

– Il seme non prende il largo in solitudine. Dolce l’accompagno, e dono lui speranza, promettendogli azzurro avvenire. Intanto con la mano l’accompagno alla morte, cantando una dolce melodia, e sono quel che è l’artigiano per la cruda materia: carnefice e fonte di vita nuova, di rinascita. Allor dopo tante albe ritrova vita il mio seme, che uccisi in nome d’un riscatto, che forgiai a forma d’incudine che si lasci felicemente scalfire.

– Non è forse questo un inganno? E come posso ingannarmi? Non si tratta  qui d’ingannar altri, che è cosa più facile…

Lasciandoti vivere, ombra, già t’inganni. Altrettanto agile è l’inganno della morte. Basta soltanto fingere un qualche riscatto, una fioritura. Sufficiente è creder nella forza della pioggia, che generi colore e non soltanto imputridisca le viscere di questa terra che riemerge in fango disperato. Così spingo il seme alla sepoltura, ad una bara che lo trasformi in rigogliosa pianta di sapore esplosivo. Ma egli non sarà più seme, e sola sarà la pianta, nuova creatura nel mare dell’essere, e il seme più non sarà: ma crederà d’essere.

– Ma ora che m’hai svelato il segreto, come posso ingannarmi? Sono ancora in veglia, ancor non m’ha preso il sonno che oblia la mente tutta. La mia mente oscurata meglio ragiona che non limpida. Ché limpida non le pare d’aver chiare le cose, ritti gl’orizzonti, nitidi i frammenti del suo cammino. Come posso ingannarmi, ora che so, ora che ancora non ho del tutto disperso i miei passi?

– Al ponte dell’ombra.

– Cosa?

– Al ponte dell’ombra potrai conoscere persone, fantasmi, che hanno fatto quello che tu credi di non poter fare. Non so se fossero altrettanto smarriti, altrettanto raminghi, altrettanto relitti. Certo avevano desiderio d’un folle volo al niente.

– Dove trovo il ponte dell’ombra?

– Cerca tra le perle che il vento fa danzare tra gli alberi del verde che sboccia d’ora in giorno, tra i fiori che colorano l’aria di minuto in secondo. Venere impazzisce in primavera, e tu cerca il ponte tra gli odori che porta nel vento.

– È un vero ponte?

– Chiedi ai viandanti. Chi ha passo fermo non ha risposta. Io zappo e poco mi muovo. Chi vola sorvola i miei campi, i miei solchi, i semi miei tutti legge. Lui solo sa le traiettorie, i sogni, le speranze. Chiedi al viandante, lui solo sa l’attesa che prefigura una rinascita, luminosa.

– Almeno dimmi il tuo nome, così ch’io possa parlar a nome tuo. Chi mi darà fiducia?

– Non sono niente, pulviscolo, polvere, residuo. Cerca, e volti nuovi sapranno dirti. Al ponte capirai, saprai cos’hanno avuto in cuore coloro che hanno creduto in una speranza nera, in un’altra vita dietro un angolo scuro, nel sole dentro la bufera crudele. Io altro non posso darti che scansioni e movimenti, ore precise al minuto, al secondo d’una campana, e direzioni di solchi per far risorgere il catrame di questi tempi. Ma affidati alle voci del ponte, e troverai risposta, troverai anime sorelle, pronte alla danza.

– Ti cercherò nel ponte, fratello.

– Ma io son ancora qui, al ponte non corro!

– Corro al ponte, fratello, spero d’incontrarti!

– No cara! Quest’autunno di semina ancora è lungo per me!

– Alla mietitura allora, compagno!

 

Si svegliò alle ultime luci dell’alba, che la chiamarono al limite, come volendola preservare ma, allo stesso tempo, scuotere da un sogno di morte, da un assaggio d’eterno supplizio, quell’anima disfatta. Scese in paese: avrebbe ad ogni costo scoperto dove si trovasse quel ponte dell’ombra. Voleva una voce compagna, e sentiva che solo l’avrebbe trovata nell’acqua torbida d’una corsa folle sotto un ponte di ombre derelitte, o vive. Che ombre sarebbero state? Ci sarebbero state ombre, o era solo un nome? Scese in paese, e tutto fu nuovo. Il mercato affollato, pur ‘sì povero rispetto a tempi addietro, e vetrine chiuse, col bandone calato in basso, a dar notizia d’un repentino suicidio o d’un lutto naturale. Un paese in festa funerea, che si avviava a celebrare carnevali di lacrime. Pochi banchi al mercato avevano resistito alla competizione di più larghe e affollate piazze, e strenui si ergevano come castelli lungo la piazza scoscesa, che disegnava un ebbro fiume al martirio. Si fece strada tra queste tende colorate, di paesano in paesano, di venditore in venditore, finché trovò il giusto uomo. Aveva un cappello sfeltrito, una giacca più che abbondante, e cantava.

– Che ne è stato del vecchio ponte dell’ombra? – gli chiese.

– Vecchio? È ancora forte, ch’ancora s’erge stretto sul colle dell’est, a seguir la fonte del Castagno, traversandolo là dove tocca i campi dell’abbazia di Monsignor Vogliandra. Egli volle costruirlo per meglio poter raggiungete i grandi frutteti che i novizi curavano con tanto zelo, dopo averli raggiunti, per molti anni, a nuoto, quando ancora non esisteva ponte alcuno. Ora non ci sono più alberi da frutto, ma croci, tante croci, e nuovi fiori, appassiti ancor prima di nascere. Perché tu dici vecchio? Ancora ha tanti colori, ancora ha tanti fiori in grembo. E, vista la via, ancor tanto germoglierà.

– Se volessi cogliere qualche fiore dei tanti che, di molti colori, quel ponte nutre, quale strada dovrei fare?

– Attraversa il paese in lungo e prendi l’uscita per un paio di stazioni. Poco prima della terza vedrai, alla tua sinistra, un ponte di vecchio legno, con una corona di croci diroccate alle spalle, ma ancora bianche: come un cielo di stelle, ma senza luce; come un mare di luce, ma senza la luna a far chiarore; come un temporale alla luna, ma senza speranza. Come una speranza, ma che non si sente.

Lungo le stazioni passò come gliel’avesse comandato un qualche tiranno, duro nella voce e impetuoso nel corpo, irreprensibile, irremovibile. Capo chino e spalle ritte, in una smorfia scomposta e innaturale, che di tanti e dolorosi crampi era la culla. Primogeniti figli maledetti, loro avrebbero avuto la meglio. Percorse chilometri lungo le prime due stazioni, con il dolore appresso, sulle spalle in pacche, sul cuore a fiotti, sul corpo macigni. Alla soglia della terza stazione sobbalzò, e il cavallo dal crine dorato che la scorse in lontananza dietro un ramo di biancospino se l’immaginò incoronata da una corolla di petali sgualciti ma ancora fulgidi: la vide come uno scrigno di speranza, senza serratura e con una preziosa perla a riposare all’interno. Quale delusione, il povero novello nitrì di disperazione: nessuna preziosità, tutt’al più un germoglio strozzato ai primi vagiti, e nessun fiore in procinto di nascere, ma solo vene, solo radici, solo miseria, organi, niente. Che sperare? Dove andare? Il cavallo pensò fosse miglior sorte l’essere imbrigliato per imposizione d’altri che non per propria cancrenosa disperazione. Ma passo dopo passo lei si trascinò dinnanzi agli occhi del cavallo, incredulo che vele e relitti d’altre tempeste potessero dopo infiniti mari ancora solcare il velo dell’aria. Eppur quel fantasma solcava il vero dell’aria, e pareva persona umana più di quanto non credesse. E credeva d’esser morto più di quanto non lo fosse.

 

X

Il volo

 

‘Perché non lo facciamo saltare in aria questo ponte del cazzo? Non si sa più per che verso attraversarlo, questo ponte. Le persone stanno iniziando a impazzirci.’ Devo ammettere che non ci avevo mai pensato prima d’allora. Ma, in quel momento, quelle parole mi parvero una buona soluzione. Una soluzione perfetta. E se non perfetta, la sola. Ancora una volta guardai sotto di me, e non vidi altro che illusioni stare al di sopra di qualunque cielo. Sogni vuoti che si infrangono in un niente, ad aspettare l’ennesima anima avvelenata che cerchi in loro un’ultima via d’uscita, per uscire da questa vita senza confine. Quasi non mi fossi mai guardata dentro, quasi tutti quei “me stesso”, che avevo mandato a raccogliermi il sapore della vita, non si fossero mai detti che mai, anche senza alcun profumo, anche senza di me, avrebbero rinunciato alla vita che io, ancora principiante in questa strana arte di amarla, gli avevo raccontato essere fredda e bagnata come la pioggia; mi resi conto che questa guerra l’avevo combattuta da sola, e che ormai non l’avrei più vinta. Non ero solita amare me e le mie scelte, così  decisi di amare ciò che mai avrei voluto scegliere, qualunque me avessi deciso di essere. Era poco il tempo che mi restava, così lasciai che la pioggia se lo portasse via.

Certo, non lo feci saltare in aria quel ponte del cazzo, ma ci ballai una danza lunga e fresca, e lo scoprì essere così turbato da tutto quel casino che gli stava sulla schiena che, forse ormai per abitudine o forse per vendetta, fu lui che fece saltare in aria me.

 

Chissà quant’è forte l’amore di niente, 

per starci attaccati, 

fingendo la vita… 

 

pensai, mentre cadevo, e poi più non pensai.

 

XI

Non ripensare la tua rinuncia

 

Costruire

disfare 

ricostruire – rifare.

Sabotaggio? Sono io

la vela

che abbandona il suo albero

al largo?

Leggera galleggio

sull’acqua guardando

quel legno morente

guardarmi e dirmi

– sento parole

che l’acqua non tace:

«Quest’acqua non torna:

non tornare con lei,

non ripensare

la tua rinuncia.»

 

Biografia

Anita Loli (Marradi, 1998) è filologa e poetessa. Laureata in lettere classiche, attualmente è laureanda in Filologia Classica presso l’università Alma Mater di Bologna, città in cui vive e lavora.