La video arte nasce in America alla fine degli anni ’60, come conseguenza diretta dell’invenzione del portapak, la prima telecamera portatile e non troppo costosa. La sua rapida diffusione, unita alla possibilità di registrare video non più solo professionali ma anche per uso amatoriale, provocò in tempi brevi una crescita esponenziale di video registrati. Quando poi Internet – e di conseguenza la possibilità di condividere istantaneamente i contenuti – divenne accessibile a sempre più utenti, la rete si saturò in pochi anni con miliardi di input visivi di vario genere.

È da qui che nascono quelle che Hito Steyerl (2009, p. 1) chiama poor images. Notevolmente compresse a causa del loro viaggio all’interno di Internet, le poor images sono contenuti visivi condivisi e ri-condivisi all’infinito, caratterizzati da una bassa risoluzione e dalla mancanza di paternità. Facili da reperire e da archiviare, sono una fonte pressoché inesauribile per gli archival artists, come li definisce il critico Hal Foster (2004, p. 4), artisti che attingono i loro materiali grezzi da fonti popolari e/o profondamente radicate nella cultura di massa.

Un artista che rientra in questo discorso è il gallese James Richards. Nato a Cardiff nel 1983, sin da giovanissimo si interessa a libere improvvisazioni prima sonore e poi visive, partecipando alla 55° Biennale d’Arte di Venezia nel 2013 e figurando poi tra i finalisti del Turner Prize nel 2014. Richards lavora con un personale archivio di materiale tratto dalle fonti più disparate, spaziando tra documentari medici, film porno, video promozionali dell’industria alimentare, film educativi, meme, pubblicità e animazioni CGI, fino a giungere a scansioni di documenti e referti di raggi x. I raw materials, che danno origine alle opere di James Richards, vengono accostati tra loro sulla base del concetto di paratassi. Questo termine, che deriva dalla filologia, si riferisce all’unione di due elementi separati di qualsiasi tipo, la cui correlazione non ha una spiegazione immediata. Il significato si genera quindi per abbondanza, con allusioni ed ellissi, risultando coerenti all’interno di opere che integrano alle immagini una componente sonora.

Si può dire (con le dovute precauzioni, passatemi il paragone) che Richards usa il video come Renato Barilli usa la carta, cioè con la tecnica del collage. L’origine del suo lavoro è proprio il collage, lo afferma Richards stesso nel corso di un’intervista con la curatrice Anna McNay (2016): «raccogliere le cose che interessano o stimolano in qualche modo e tenere un registro di ciò che ci circonda. È una cosa molto quotidiana, quindi non si tratta di fare ricerche, […] ma di acquisire ciò che è accessibile, prenderne frammenti e conservarli in archivio».

Questa moltitudine di immagini, e soprattutto la loro stratificazione, apre all’artista una serie di infinite possibilità. I contenuti visivi che sovrappone, infatti, non sono mai per così dire vergini, ma sono ri-manipolati e trattati invertendo i colori, cambiando la grana o accoppiando più fonti nello stesso frame. Ciò che Richards vuole fare è «provocare un senso di fraintendimento e di confusione, senza che si arrivi mai a capire cosa l’immagine stia facendo o a cosa sia destinata» (Fullerton, 2017).

Questo approccio si nota chiaramente in Radio at Night, un’opera video di 8 minuti commissionata dal Walker Art Center di Minneapolis nel 2015. Qui, l’attenzione di Richards è posta soprattutto nei confronti dell’atto fisico del vedere, stimolando l’occhio come ricettore e codificatore di sensazioni ed emozioni. È con questo intento che in Radio at Night sono riproposti più volte gli stessi spezzoni video, elaborati in modo diverso a ogni comparsa, sino a essere completamente irriconoscibili, ma non per questo privi di significato o carica emotiva. Infatti, la tecnica del collage utilizzata dall’artista con la presenza ricorrente di scene acquatiche e di occhi è volta anche a porre enfasi sui processi percettivi e sulla linea sottile che separa conscio e subconscio.

 

James Richards, frame di Radio at Night; courtesy della Ruben/Bentson Moving Image Collection, Walker Art Center.

 

Alcune parti dell’opera mostrano scene di un carnevale veneziano. La prima impressione è che, in tutta la sua innocenza, si tratti di un documentario o un filmato amatoriale. In realtà, il segmento video è tratto da un film girato verso la fine degli anni ’80 da una casa di produzione erotica francese un porno dei tempi che furono, insomma, di quelli che proiettavano al cinema perché PornHub ancora non esisteva. Destinati principalmente alla proiezione pubblica e non al consumo privato, la video-pornografia dell’epoca tendeva ad essere più narrativa e comprendeva varie sequenze non strettamente erotiche, ragione per cui Richards la predilige come materiale grezzo da utilizzare nelle opere rispetto alla pornografia contemporanea.

 

James Richards, frame di Radio at Night; courtesy della Ruben/Bentson Moving Image Collection, Walker Art Center.

 

Come spiega Richards, Radio at Night cerca di trovare «un altro modo di osservare qualcosa di familiare» (Sung, 2016). Questi vuoti, su cui Richards insiste particolarmente, non sono solamente il soggetto dei found footages utilizzati, ma sono anche gli organi sensoriali di ricezione. A parte il tatto, le cavità oculari, le narici, la bocca e le orecchie hanno uno spazio fisico vuoto che viene metaforicamente riempito dagli stimoli recepiti sensorialmente e poi rielaborati dal cervello che cerca di decodificarne il significato.

 

James Richards, frame di Radio at Night; courtesy della Ruben/Bentson Moving Image Collection, Walker Art Center.

 

La comprensione dell’opera è strettamente legata alla presenza del sonoro, che conferisce una coerenza al video, seppur in apparenza manchi un filo logico nella successione di immagini che compongono Radio at Night. Sono infatti il suono e l’architettura acustica dell’opera a creare le condizioni di ricezione desiderate dall’artista. Restando fedele alla natura della sua arte, anche nel sonoro Richards impiega found footages (magari Hito Steyerl li chiamerebbe poor sounds), in questo caso accoppiati con del materiale registrato ad hoc. Alcuni brani della poesia The enemies of she who call her various names, composta nel 1972 dalla poetessa e scrittrice femminista Judith Grahn sono intervallati da una musica originale composta dall’artista ed eseguita dal trio inglese Juice, creando un’atmosfera di sospensione che persiste coerentemente per tutta la durata del video.

 

James Richards, frame di Radio at Night; courtesy della Ruben/Bentson Moving Image Collection, Walker Art Center.

 

In Radio at Night, la sapiente mescolanza di materiali d’archivio e originali, in termini visivi e sonori, si propone dichiaratamente di generare nello spettatore una forte risposta empatica ed emotiva, in un tentativo di esorcizzazione delle paure collettive, lavorando sull’immaginario comune e sulla percezione del singolo. Il video non è visibile online sui canali ufficiali del Walker Art Center o sul sito dell’artista, che per altro non ha, ma anche quest’opera è diventata a suo modo una poor image, che potete tranquillamente trovare su YouTube.

 

 

Bibliografia

Foster, H. (2004), ‘An Archival Impulse’, October, 111, pp. 3-22. Disponibile su: https://monoskop.org/images/6/6b/Foster_Hal_2004_An_Archival_Impulse.pdf (Accesso: 25 marzo 2023)

Fullerton, E. (2017), ‘Show of the Times: Please Don’t Let Me Be Misunderstood’, Elephant, 30. Disponibile su: https://elephant.art/show-times-please-let-misunderstood/ (Accesso: 25 marzo 2023)

Halter, E. (2015), ‘Will You Be My Version? James Richards’, Afterall, 38, pp. 38-49. Disponibile su: https://www.afterall.org/article/will-you-be-my-version_james-richards (Accesso: 25 marzo 2023)

Korczynski, J. (2022), ‘Internal Litter: James Richards interviewed by Jacob Korczynski’, BOMB. Accessibile su: https://www.rodeo-gallery.com/documents/193/Internal_Litter_James_Richards_Interviewed_by_Jacob_Korczynski_BOMB_2022.pdf (Accesso: 25 marzo 2023)

Leaver-Yap, I. (2015), ‘James Richards: Radio at Night.’ Walker, 2015. Disponibile su: https://walkerart.org/magazine/flow-james-richards-radio-at-night (Accesso: 25 marzo 2023)

McNay, A. (2016), ‘James Richards: I was really into making an exhibition space where there would be nothing to look at’, Studio International. Disponibile su: https://www.studiointernational.com/james-richards-interview-requests-antisongs-ica-venice-biennale-wales (Accesso: 25 marzo 2023)

Steyerl, H. (2009), ‘In defense of the poor imagee’, e-flux journal, 10. Disponibile su: https://www.e-flux.com/journal/10/61362/in-defense-of-the-poor-image/ (Accesso: 25 marzo 2023)

Sung, V. (2016), ‘The Peripheral, the Edges, the Off-Screen: A Conversation with James Richards’, Walker. Disponibile su: https://walkerart.org/magazine/the-peripheral-the-edges-the-off-screen-a-conversation-with-james-richards (Accesso: 25 marzo 2023)

 

 

Biografia

Diletta Piemonte (Vicenza, 1996) è curatrice indipendente e art advisor; attualmente collabora con la galleria Antonio Colombo Arte Contemporanea di Milano, dove vive dal 2018. Ha lavorato presso le Galleria dell’Accademia di Venezia e Flash Art magazine, continuando in parallelo con la sua attività di curatrice indipendente e autrice di testi critici, collaborando con la curatrice indipendente Amina Berdin.