Internauti è un laboratorio di scrittura creativa volto a stimolare un approccio critico ai linguaggi artistici propri della cultura contemporanea. Sviluppato all’interno del Master of Arts in “Multimedia Arts and Design” RUFA, il progetto ha visto coinvolti le studentesse e gli studenti del corso di Regia Multimediale, che durante l’anno accademico hanno riflettuto sulle tematiche proprie della condizione post-mediale.

 

SPiN-OFF-LiNE: Hackeraggio dell’identità virtuale per una trasformazione dell’identità reale 

di Raffaele Esposito

 

Erving Goffman (1959) presenta una teoria sulla formazione dell’identità individuale, sottolineando che ogni individuo, nelle società moderne, sviluppa la propria immagine attraverso tre dimensioni, che riguardano l’identità sociale, l’identità personale e l’identità dell’Io. L’uso di dispositivi come smartphone e la presenza di Internet of Things contribuiscono a una manifestazione-dati dell’identità che può essere interpretata come una sorta di verità del sé. Tuttavia, comprendere il fenomeno della costruzione sociale nell’era dei big data richiede una riflessione più ampia sulla psicologia sociale, poiché siamo di fronte a una dinamica che va oltre il semplice riconoscimento intersoggettivo.

Il crescere dell’ambiente mediatico nell’era digitale, che comprende Internet e Information and Communication Technologies (ICT), ha portato almeno a tre distinti cambiamenti rispetto all’epoca analogica, con impatti significativi anche sull’individuazione dell’identità. Dal punto di vista tecnologico, il passaggio dai mezzi analogici a quelli digitali ha comportato un cambiamento nei modelli di trasmissione dell’informazione. Un secondo cambiamento si osserva dal punto di vista sociale: Internet promuove nuove modalità di interazione tra individui e supporta l’emergere di nuove forme di organizzazione e aggregazione sociale online, delineando i contorni di una nuova struttura sociale che Manuel Castells (1996) definisce Società in Rete. Dal punto di vista dello spazio, Internet riduce le distanze e modifica la geografia dei luoghi, portando l’individuo in una dimensione globale fluida. In questo contesto fluido dell’era digitale, l’identità vive una tensione tra dimensioni locali e globali, portando a cambiamenti significativi rispetto al passato.

Nell’epoca di Internet, la visibilità ha un potere pari, se non superiore, al segreto. Per questo motivo, molti artisti si focalizzano sulla tematica della sorveglianza online o, usando le parole di Eric Sadin sul data-panotticismo, ribaltando i ruoli di chi osserva e di chi è osservato. All’interno della cinquantottesima Biennale di Venezia, Shu Lea Cheang, pioniera della Net Art presenta 3x3x6, un’installazione interattiva e site-specific curata da Paul B. Preciado, che trasforma le stanze del Palazzo delle Prigioni in un ambiente iper-sorvegliato. Attraverso 3x3x6, il pubblico è coinvolto in un esperimento di auto-sorveglianza e nella costruzione di una narrazione alternativa, dal sapore cyberpunk. 

L’artista penetra nel monitoraggio delle sue stanze (le quali misurano 3x3x6 metri) e altera le sembianze dei visitatori, creando una mescolanza di etnie e generi, e, ciò che è più significativo, rendendoli impermeabili alla sorveglianza. Al fine di ribaltare le pratiche di identificazione l’artista Shu Lea Cheang attraverso l’opera fa riferimento al morphing come una tecnica digitale precedentemente utilizzata da numerose artiste associate al movimento Cyberfemminismo. Questo processo porta i corpi ritratti ad essere privati di ogni caratteristica di identità sociale, etnica e sessuale, offrendo un’alternativa priva di ogni forma di riconoscimento e categorizzazione visivo. Le opere carcerarie di Shu Lea Cheang offrono una nuova prospettiva sulla criminologia, contribuendo a creare una contro-storia Queer e anti-coloniale. In questo contesto, il concetto stesso di verità è influenzato dalle dinamiche digitali. Attraverso la sua pratica hacker, Cheang esplora tematiche legate alla sorveglianza, alla proprietà delle immagini e alla ridefinizione di ruoli, generi e strutture nella società dell’informazione. In un mondo in cui l’identità online è multipla e frammentata, l’artista sostiene la necessità di sovvertire i paradigmi attuali della rete. La sua indagine critica si estende anche alla questione della privacy online, evidenziando le contraddizioni di una società connessa che esibisce e categorizza tutto e tutti. In definitiva, l’opera di Cheang si inserisce in un contesto più ampio di lotta per il potere, in cui l’artista sfida le strutture dominanti e rivela le contraddizioni di una società interconnessa. 

La costruzione dell’identità avviene quindi in una zona intermedia tra mondi prossimi e lontani, reali e virtuali, online e offline. Considerare i media digitali come ambienti significa esaminare come gli individui, attraverso di essi, agiscano riflessivamente per affermare le proprie identità, poiché tali spazi sono diventati i nuovi luoghi in cui avviene la costruzione dell’identità contemporanea. 

 

Hackerare la comunicazione: strategie di sovversione e adattamento di collettivi artistici e movimenti politici.

di Valerio Borgognoni

 

La diffusione del web negli anni 90 ha inizialmente rappresentato un mezzo potente per creare comunità e per diffondere idee alternative al sistema dominante. La Net Art nasce da una forte spinta utopista che individuava nel computer e nella rete dei mezzi innovativi in grado di sovvertire il mercato dell’arte ed essere veicolo di nuove idee.   Tuttavia, a partire dal primo decennio del XXI Secolo, le spinte utopiche che avevano caratterizzato questo movimento artistico si scontrarono con l’ineluttabilità di un sistema che gradualmente ne assimilò pratiche e rivendicazioni. In quegli stessi anni la repressione violenta e capillare dei movimenti di piazza comportò un rallentamento anche nell’ambito sociale e politico. I movimenti artistici e sociali, nel tentativo di sopravvivere, iniziarono a cambiare pelle adattandosi al sistema pre-esistente e lasciarono indietro le spinte che miravano a sovvertire il sistema stesso.
Il «There is no alternative» professato da Margaret Tatcher e imposto con la violenza da parte dello Stato aveva invaso la visione comune del futuro.

Al giorno d’oggi i social e le nuove tecnologie ci pongono di fronte a grandi criticità: se infatti in senso strettamente pragmatico siamo in possesso dei mezzi di produzione, c’è una sensazione diffusa del non sentirsi realmente padron3 della nostra identità digitale e di ciò che produciamo attraverso di essa. Questo fenomeno viene esplorato da Yanis Varoufakis che afferma che il sistema attuale sia passato da capitalismo a TecnoFeudalesimo in cui il capitale diventa cloud. Secondo l’economista, dagli anni Novanta in poi, il confronto tra oppressi e oppressori si è concluso con la vittoria di questi ultimi ed è iniziato un processo in cui gli utenti del neonato cloud si sono trasformati in inconsapevoli produttori di capitale per altri.   

In ambito artistico questi meccanismi sono stati studiati dal collettivo DISNOVATION.ORG attraverso il progetto Profiling The Profilers. Per dimostrare quanto fossero pervasive le politiche di profilazione dei dati gli artisti ne hackerano i meccanismi e li usano contro gli stessi colossi tecnologici che li avevano ideati e attuati. Attraverso quest’opera si svela la profittabilità delle identità virtuali degli utenti e il controllo massivo ma impercettibile applicato su di esse. Queste dinamiche, secondo Varoufakis (2024) creano servi del cloud che: «[…] producono direttamente capitale con il loro lavoro gratuito. Non è mai successo prima. I servi della gleba sotto il feudalesimo producevano materie prime agricole. Non producevano capitale[…] Al contrario, gli utenti moderni contribuiscono alla formazione del capitale semplicemente interagendo con le piattaforme, offrendo manodopera gratuita per aumentare il cloud capital per il capitalista.»

La sovrapposizione utente-merce-lavorate (inconsapevole) fa sì che l’uso che facciamo dei social e, più in generale, della rete sia apparentemente libero e contemporaneamente regolato da leggi non dichiarate che determinano la visibilità e la profittabilità – rubata dai proprietari delle piattaforme – dei contenuti che creiamo.

Per riuscire a liberare il noi digitale è quindi fondamentale avere coscienza delle leggi e dei meccanismi dello strumento così da poterne hackerare i meccanismi:  Hakim Bey,  in TAZ – Zone Temporaneamente Autonome (2020) lo suddivide in: Rete (come contenitore generale), Web (una  rete non gerarchica e alternativa) e la contro-Rete (contenitore di pratiche illegali e parassitismo della Rete stessa).

Al fine di generare nuovi approcci è importante analizzare come alcuni movimenti socio-politici abbiano hackerato i mezzi di comunicazione specifici del loro periodo per poter liberare e muovere il pensiero collettivo.

Un esempio si può ritrovare nell’approccio all’arte e alla comunicazione di Emory Douglas: figura centrale della comunicazione del Black Panther Party (1966). Douglas ne divenne Ministro per la Cultura nel 1967 e fu il curatore grafico del giornale  “The Black Panther”.

L’approccio delle Black Panter all’arte nei media metteva al centro la riappropriazione della narrazione e della rappresentazione: l’estetica di Douglas partecipò alla diffusione di ciò che era l’identità afroamericana e contribuì alla creazione del suo immaginario futuro attraverso gli ideali centrali del partito: nazionalismo nero, socialismo e autodifesa armata.

Sfruttò il giornale, ma piuttosto che hackerare il sistema mediatico-artistico preesistente si concentrò sul comprendere l’iniquità delle leggi che lo regolavano e crearne uno alternativo che potesse parlare direttamente alle persone marginalizzate. Attraverso la sua arte le persone che fino a quel momento erano state discriminate venivano invece ascoltate e rappresentate come le figure centrali e attive del cambiamento. Un approccio diverso rispetto a quello del Black Panther Party si può ritrovare nel collettivo artistico Gran Fury che organizzò la comunicazione e la rappresentazione del movimento Act Up a partire dalla sua nascita alla fine degli anni ‘80. Sfruttò i luoghi pubblici come strade e piazze con un doppio intento: spingere le persone colpite dalla crisi dell’AIDS a unirsi e insorgere e, allo stesso tempo, portare all’attenzione pubblica le principali problematiche e le responsabilità legate alla crisi. Decisero di appropriarsi del linguaggio della pubblicità e del marketing per diffondere slogan e immagini dirompenti con cui impadronirsi della narrazione e della rappresentazione. Hackerare il linguaggio del guerrilla marketing e unirlo ad azioni di contestazione fece si che il movimento fosse padrone della stampa e dei media riuscendo a sfruttarli, parlando attraverso di loro e non a loro.

Se la sconfitta degli oppressi, teorizzata  da Yanis Varoufakis, è avvenuta  forse per riuscire ad uscire dalle logiche che dominano il panorama artistico-sociale dovremmo hackerare il concetto stesso di vittoria rivendicando, come espresso da Halberstam (2022, p. 211),  il fallimento e trasformandolo in «un modo di rifiutare l’acquiescenza alle logiche dominanti di potere e disciplina e come una forma di critica. Come pratica, il fallimento riconosce che le alternative sono già incorporate nel dominante e che il potere non è mai totale o coerente; anzi, il fallimento può sfruttare l’imprevedibilità dell’ideologia e le sue qualità indeterminate.»

I movimenti analizzati hanno saputo individuare nelle pratiche artistiche uno strumento fondamentale per il raggiungimento del cambiamento socio-politico. In entrambi i casi la strada, tappezzata di manifesti e annunci, era il luogo da dove si prendevano le informazioni e avvenivano scambi di idee, oggi quel luogo è rappresentato dalle piazze digitali e dai luoghi di scambio nel Web. Nell’era del tecno-feudalismo il ruolo dell3 artist3 multimediali è quindi quello di comprendere come poter sfruttare le nuove tecnologie per poter diffondere l’immaginario di futuro alternativo.

 

 

Onesti plagiaristi: l’Hacker Art come lotta sociopolitica.

di Annarita Debellis

 

Un’analisi approfondita della realtà e dei fenomeni culturali sembra evidenziare come la ricerca artistica si ponga l’obiettivo di contrastare due gravi problematiche: l’apatia e l’anestetizzazione del sentire collettivo che dilaniano la società moderna. Nonostante ciò, la reiterazione della parola “contemporaneo”, in campo artistico, non è un esercizio alla Carmelo Bene, ma un ritornello ossessivo, un aggettivo vincolante, un concetto a priori che toglie qualità e senso all’opera d’arte relegandola in una gabbia stilnovista fino a privarla del suo significato ontologico.

L’arte, ormai ancella di questo sistema, si spinge sempre di più verso percorsi autoreferenziali e privi di vitalità. Seguendo il suggerimento anarco-situazionista proposto da Hakim Bay in T.A.Z. (2019, p.66), sorge spontaneo porsi una domanda: «è possibile immaginare un’estetica che non sia impegnata, che si sottragga alla storia e addirittura al mercato? O almeno tenda a farlo? Che voglia sostituire la rappresentazione con la presenza?». Per quanto paradossale, per l’autore il disdegno e il rifiuto della realtà, espresso nella fuga ideale, rappresenta il primo passo verso la formulazione e costituzione di un mondo nuovo. In questi termini sparire significa affermare la propria volontà di potenza o, per dirla in termini situazionisti, «la sparizione dell’artista è la soppressione e realizzazione dell’arte» (Ivi, p.67). 

Estendendo il discorso, apparentemente ostico e caotico, l’artista si muove verso la scoperta di strade alternative, affinché l’arte ritorni a farsi politica incidendo sulla realtà piuttosto che rappresentandola. L’artista da sempre mette in discussione i codici contemporanei, li appropria e li reinventa, diventa un décollage del virtuale, un remixer di culture, un onesto plagiarista per professione; occupa il suo tempo senza ottimizzarlo (una pratica invece propria della nostra epoca) per arrivare, dopo un lunghissimo training autoimposto, alla materializzazione (o no) dell’opera. In questa prospettiva, la figura dell’artista potrebbe essere associata a quella dell’hacker. Vi è infatti un legame di cui non si parla spesso tra arte e pirateria informatica, intesa come pratica artistica e dichiarazione socio-politica. Oggi internet rappresenta un terreno insidioso, ma altamente fertile per la proliferazione di nuovi agenti e nuovi linguaggi, mostra un nuovo modello di relazioni tra soggetti (utenti) e oggetti (dati). D’altro canto, la rete è un ambiente complesso, pieno di controversie politiche, economiche e sociali. Per questo motivo la ricerca artistica indaga attivamente sulle sue forme e sulle sue funzioni. Come spiega il filosofo finlandese Pekka Himanen in L’Etica dell’Hacker e lo Spirito dell’Età dell’Informazione (2007, p.10), l’hacker prima ancora di essere un ladro di dati, il cosiddetto cracker, è per natura etimologica un esploratore, colui che tenta, assalta e, soprattutto, naviga nel mondo della non-rete osservando un’etica rigida e sovversiva. Difatti “l’etica hacker” è innanzitutto una sfida per la nostra società in quanto rappresenta una rottura radicale con quell’etica di stampo calvinista che Max Weber aveva rintracciato nei fondamenti dell’economia capitalistica. Allo stesso tempo, lungi dal porsi come mera ideologia dell’abnegazione, essa fornisce un importante contributo all’elaborazione di una teoria anarchica contemporanea basata sulle nozioni di “aggiramento” e “inganno” del sistema. Alla base dell’etica hacker vi è l’approccio ludico alla vita: la centralità associata al gioco ne è la condizione esistenziale, dal momento che la motivazione organizzativa dei gruppi di hacker non è il lavoro o il denaro, ma la passione e il desiderio di creare insieme qualcosa di socialmente prezioso.  Emblematica a riguardo è la vicenda del noto sistema operativo Linux, nato grazie al lavoro collettivo di più hacker mossi da una causa comune e da valori fondamentali rispetto alla loro etica. Uno di questi è certamente la predilezione per l’open source: molti hacker distribuiscono apertamente i risultati della loro creatività, affinché altri li usino, sperimentino e sviluppino ulteriormente. 

Oggi molti artisti che si occupano di software e Net Art spesso si comportano come hacker sociali, ovvero sovvertono la struttura semiologica dei dispositivi tecnologici comunemente usati, alterandone l’uso sociale. L’artista come net-hacktivist gioca con la rete, con il design delle sue interfacce, con la costruzione di scenari alternativi dove tutto è potenzialmente permesso. In questo contesto, la pratica dell’hacking si rivela uno strumento docile e sovversivo allo stesso tempo: l’artista, appropriandosi di uno spazio virtuale, sparisce temporaneamente dalla realtà per agire laddove ha la legittima responsabilità di usare, creare, discutere, inventare e rivendicare le sue lotte socio-politiche. Non a caso infatti lo spazio virtuale è il campo ideale per le figlie artistiche di Donna Haraway: la prima generazione di hacktivisti ha un’impronta cyberpunk, tanto entusiasta quanto critica verso la tecnologia, ma anche e soprattutto femminista, come nel caso delle artiste e ricercatrici Cornelia Sollfrank e Tatiana Bazzicchelli, che fondando nel 2002 il collettivo artistico AHA, Activism, Hacktivism, Artivism

Nel 1989 l’artista italiano Tommaso Tozzi conia il termine Hacker Art, teorizzandolo nell’agosto dello stesso anno all’interno del libretto Happening/Interattivi sottosoglia. Tozzi è un artista interessato ai movimenti underground e al settore delle autoproduzioni, ma soprattutto è un grande sperimentatore dello spazio virtuale, infatti alla fine degli anni Ottanta è stato tra i fondatori di alcuni network telematici indipendenti di stampo artistico e sociale e siti on-line come Strano network, Isole nella rete, Netstrike. Quest’ultimo in particolare nasce nel 1995 con l’obiettivo di creare una nuova forma di protesta in rete. Si trattava della trasposizione in rete di un consistente numero di persone che attraversano la città munite di cartelli e striscioni e che riescono a bloccarne le strade per un determinato periodo di tempo. Il primo sciopero globale in rete ha colpito i siti del governo francese che in quel momento stava bombardando con testate nucleari l’atollo di Mururoa. Da allora il netstrike ha avuto una risonanza significativa, con la diffusione in tutto il mondo di molti altri scioperi virtuali. Oggi il sito Netstrike.it è stato sequestrato e rimosso dalla rete dalla questura di Bologna su richiesta del compartimento della polizia postale di Genova. 

È affascinante notare come questa pratica artistica possa diventare un efficace escamotage di evasione futurista e visionario. In questo senso l’opera degli artisti hacktivisti rifiuta l’ostentazione estetica e diventa violentissima azione politica volta a mettere in discussione le preesistenti gerarchie di potere (nel web corrispondenti alle date, alla loro esposizione o segretezza). Di conseguenza l’artista hacktivista deve innanzitutto comprendere l’impossibilità di vivere esclusivamente in un cyberspazio, proteggendosi dall’ideale trascendenza del corpo: coinvolgere tutti i sensi è fondamentale per evitare di cadere nella stessa trappola dalla quale sta cercando di scappare. Dunque, internet non è un fine in sé, ma un mezzo, un’arma che permette di hackerare la realtà virtuale per poi riorganizzare le forme della realtà tangibile. Anziché continuare ad annegare in questa specie di wasteland letteraria, scambiata per illimitata libertà, è necessario navigare in mondi nuovi, «smontare e reinventare il dispositivo per suscitare esperienze sensoriali inedite, destare meraviglia e smuovere moti d’animo, creare un contesto di condivisione dell’esperienza estetica per generare delle memorie individuali e collettive» (Balzola, Rosa, 2011, p.163), perché lo spaesamento possa riportare alla strada di casa.  

 

Biohacking: la ricerca biologica tra dubbi e certezze.

di Carola Imbesi

         

Il biohacking è un termine moderno, impiegato per indicare una vera e propria riprogrammazione riguardante la mente e il corpo. Questa parola ha iniziato a circolare sul finire degli anni Ottanta, in un periodo in cui i più curiosi, tra cui tantissimi giovani, attraverso l’utilizzo del computer iniziarono a fare una ricerca biologica all’interno del movimento hacker, ovvero al di fuori delle istituzioni che condividevano informazioni. In Biohacker. Scienza aperta e società dell’informazione, Alessandro Delfanti (2014) afferma che si tratta di esperienze in cui, tramite la rete o costruendo laboratori accessibili, si cerca di rendere la biologia più collettiva e aperta.

Un’artista che ha segnato la storia del biohacking parlando in termini di genetica è l’americana Heather Dewey-Hagborg. La sua ricerca si colloca fin dagli esordi nel confine tra arte e scienza, con una particolare attenzione al superamento del concetto di naturalità. Una ricerca complessa che si muove in diversi campi tra cui la biologia, la matematica, l’arte e il design. L’arte è lo strumento prediletto dall’artista per sondare le strutture profonde e spesso nascoste di media, tecnologia e scienze che dominano l’era contemporanea e condizionano il nostro immaginario culturale.

L’artista è famosa per la sua ricerca sulla ricostruzione dell’identità a partire dal DNA; Stranger Visions, realizzato nel 2013, è uno dei suoi progetti più riconosciuti: una serie di ritratti creati dal DNA recuperato da oggetti scartati come capelli, sigarette e gomme da masticare di sconosciuti. Dal DNA estratto ha ricavato dati come sesso ed etnia, utilizzando un software per la generazione di volti e una stampante 3D per crearne un ritratto speculativo e determinato algoritmicamente.

«Sono rimasta davvero colpita dall’idea che proprio le cose che ci rendono umani, capelli, pelle, saliva, unghie, diventano una vera e propria responsabilità per noi poiché le perdiamo costantemente in pubblico. Chiunque potrebbe venire ad estrarle per ottenere informazioni» (Hagborg, 2013).

L’artista sperava di innescare un dibattito sul potenziale uso o abuso della profanazione del DNA, della privacy e della sorveglianza genetica producendo sculture realistiche di persone anonime.

 

Heather Deway-Hagborg, RADICAL LOVE, 2016, Courtesy of the artist.

 

Ha iniziato questo progetto chiedendosi quante molteplici ed infinite informazioni si potessero comprendere su una persona che utilizzava i detriti genetici lasciati da sconosciuti nelle strade di New York.

Malgrado molte persone sostengano il concetto di biohacking altri si chiedono se tutto questo oltrepassi o meno i confini etici e legali. I critici di Stranger Visions fanno una distinzione tra il diritto di un’artista di esprimere preoccupazioni sociali per mezzo di opere d’arte e l’atto di raccogliere informazioni genetiche personali senza il consenso informato. Il fatto che i campioni di DNA vengano regolarmente abbandonati non significa che quelle persone abbiano rinunciato al diritto di decidere come utilizzare queste informazioni. Alcune leggi, ad esempio, vietano ai privati di raccogliere campioni biologici per l’analisi del DNA.

È radicale cercare giustizia? È radicale essere salvati dall’amore? È radicale essere fedeli a se stessi?

Chelsea Manning, donna transgender, editorialista del Guardian e leader nei movimenti per la giustizia transgender, a un mese dall’uscita dal carcere torna alla ribalta con una mostra Radical Love a New York in collaborazione con l’artista Heather Dewey-Hagborg. Radical Love è un omaggio all’esplorazione degli stereotipi dell’identità di genere nella fenotipizzazione forense del DNA. Heather Deway-Hagborg ha ricostruito il volto in 3D di Chelsea Manning, tramite analisi del suo DNA, estratto da tamponi sulla guancia e ritagli di capelli inviati all’artista da Chelsea tramite posta mentre era in prigione. Chelasea Manning, inoltre, ha dichiarato di essere molto felice del progetto in quanto le avrebbe dato una possibilità di riappropriarsi della sua identità negata a lungo dagli anni duri in carcere.

Nonostante ciò, vi sono ancora molte persone dubbiose. Valerio Rosso, psichiatra, interessato alle nuove aree di studio tra cui la medicina digitale, realtà virtuale e intelligenza artificiale, sostiene che la parola biohacking racchiude in sé una fastidiosa vibrazione di marketing connessa ad un’idea di manipolazione. Il biohacking non esiste, è solo una parola che rappresenta un problema. L’unico modo reale e scientifico per migliorare noi stessi è il contrario di quello che sostengono la stragrande maggioranza dei biohacker laici. Di fatti il miglioramento delle nostre prestazioni ha a che vedere con il concetto di prevenire e di curare, il contrario esatto di ciò che dicono molti hacker.

 

Bibliografia

Balzola, A., Rosa, P. (2011), L’arte fuori di sé, Feltrinelli, Milano.

Bey, H. (1991), T.A.Z.– the Temporary Autonomous Zone ontological anarchy poetic terrorism, Autonomedia Anti-copyright, Houston; trad. it. (2019), TAZ – La Zona Autonoma Temporaneamentea, Shake edizioni, Milano.

Delfanti, A. (2014), Biohacker. Scienza aperta e società dell’informazione, Eleuthera, Milano.

Donna J. Haraway, (1985) Manifesto cyborg, Donne, tecnologie e biopolitiche del corpo, Feltrinelli, Milano.

Fisher, M. (2009),  Capitalist Realism – Is There No Alternative?, O Books, UK; trad. it. ( 2018), Realismo capitalista, Produzioni Nero, Roma.

Goffman E., (1959) The Presentation of self in everyday life. La vita quotidiana come rappresentazione teatrale, Il Mulino, Bologna.

Halberstam, J. J. (2011), The Queer Art of Failure, Duke University Press, USA; trad. it. (2022), L’arte queer del fallimento, Minimum Fax, Roma.

Himanen, P. (2007), L’etica hacker e lo spirito dell’età dell’informazione, Feltrinelli, Milano.

Lowery, J. (Autore) Vikas, A. (Narratore), (2022), It Was Vulgar and It Was Beautiful, Bold Type Books, NY.

 

Sitografia

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DANAE.IO,  (2022),  What is hacktivism ? The artist as hacker in the digital age, Medium. Disponibile su: https://medium.com/danae/what-is-hacktivism-the-artist-as-hacker-in-the-digital-age-df7ca098a5e0 (ultimo accesso: 07 marzo 2024).

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Hagborg, H. (2009-2024), Radical Love: Chelasea Manning, disponibile su: https://deweyhagborg.com/projects/radical-love (ultimo accesso: 25 marzo 2024).

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Isole nella rete. Disponibile su: https://www.google.com/maps/d/u/0/viewer?mid=1zGE0OJF-Cq0sN616hn_zto9q3-H3BmpM&ll=42.12494582469725%2C14.653976499470154&z=6 (ultimo accesso: 26 marzo 2024).

Moscrop, D. e Varoufakis Y. (2024), L’ascesa del tecnofeudalesimo, JacobinItalia. Disponibile su: https://jacobinitalia.it/lascesa-del-tecnofeudalesimo/ (ultimo accesso: 07 marzo 2024).

Netstrike – Web Protest for the Masses! the art of connecting all together to collapse a site for political espression, disponibile su: https://web.archive.org/web/20011201005151/http://www.netstrike.it/ (ultimo accesso: 26 marzo 2024).

Rosso, V. (2023), Biohacking: facciamo un po’di chiarezza, disponibile su: https://www.youtube.com/watch?v=ORjW4XzPLg (ultimo accesso: 25 marzo 2024).

Sotto accusa. Disponibile su: http://www.ecn.org/sotto-accusa/ (ultimo accesso: 26 marzo 2024).

Strano network. Disponibile su: https://www.strano.net (ultimo accesso: 26 marzo 2024).

What is hacktivism ? The artist as hacker in the digital age, disponibile su: https://medium.com/danae/what-is-hacktivism-the-artist-as-hacker-in-the-digital-age-df7ca098a5e0 (ultimo accesso: 26 marzo 2024).

 

Biografia

Daniele Falchi è un giovane artista, critico e curatore che focalizza la propria ricerca nel campo del cinema e della media art. Ha completato il suo percorso di studi in RUFA – Rome University of Fine Arts, dove ha continuato ad insegnare in qualità di cultore della materia. È docente di “Elementi di Produzione Video” e “Digital Video” presso la DAM Academy di Roma. Dal 2019 collabora con Dancity Festival organizzando talk, mostre e incontri sulla cultura contemporanea. Nel 2020 ha partecipato al Romaeuropa Festival con l’installazione “THE POST-FUTURIST CAVE”, nell’ambito della rassegna Digitalive. La sua ultima pubblicazione, “Techno-menadi. Dal mondo classico all’Occidente contemporaneo” è contenuta all’interno di “L’Elettronica è Donna. Media, corpi, pratiche transfemministe e queer“, edito da Castelvecchi Editore nel 2022.