L’ultima fatica di Vincenzo Estremo, il saggio Indistinzione. Tre movimenti dell’arte sulla guerra, edito da Politi Seganfreddo edizioni (FlashArt), è un libro che rinnova e ribalta la visione di questo povero mondo – ricco per pochi altri –, o meglio ne traccia nuove coordinate. Ciò che trasuda dalle sue righe è una consapevolezza che supera concettualmente ciò che è stato teorizzato in merito ai conflitti e più in generale sul potere: non parliamo più dei dispositivi di potere foucaltiani, il panopticon è andato, niente soggettivazione basata sulla sorveglianza. Anche Agamben può essere superato, i dispositivi di potere non desoggettivizzano più. Il soggetto odierno vive invece nel caos e lo accetta nelle sue più lugubri, compromettenti o catastrofiche sfumature. Nella visione complessiva di Estremo, oggi il meccanismo di potere globale è quello dell’indistinzione, un sistema che confonde e rende ogni cosa reversibile. Una macchina di potere che permette la convivenza pacificata (e non pacifica) nelle contraddizioni, mentre ogni individuo è portato a subire questo effetto: vivendo nel compromesso e nella nell’indifferenza se nasci nel privilegio degli oppressori, oppure morendo per una bomba in testa sotto il quieto silenzio politico dei vicini.

 

Christian Nirvana Damato: Ciao Vincenzo, mi piacerebbe che ci introducessi un po’ il tuo libro. Prima dell’autore c’è sempre la persona, e in questo caso possiamo dire che il tuo impegno sociale e di classe – dalla semplice presenza in piazza durante una manifestazione a Torino fino alla stesura di un saggio teorico – rende questo libro qualcosa di sentito e non una semplice masturbazione intellettuale.  Di cosa parla Indistinzione, da quale necessità nasce? 

Vincenzo Estremo: Ciao Christian, grazie per aver pensato a questo dialogo. Effettivamente, il testo nasce anche da una sommatoria personale di esperienze e di interessi che in questi anni ho accumulato rispetto alla diffusione del militarismo. Se la cosa logia era quella di pensare al militarismo come la classe dei guardiani dello stato (nazione), per parafrasare trans-storicamente il pensiero socratico e platonico, successivamente ho pensato che forse era necessario ricontestualizzare – almeno esteticamente – quell’idea, ricollocando il fenomeno all’interno di un nuovo sistema produttivo. Se il militarismo era per natura il contenitore del militare, il pistone repressivo, il braccio armato della biopolitica moderna, col passare degli anni, e con l’affermarsi di nuove forme di produzione connesse alla smaterializzazione digitale, osservavo delle forme di mimesis che non avevano di certo a che vedere con le mimetiche. Infatti, di fianco alla concezione repressiva e alla sorveglianza foucaltiana, si faceva largo una sorta di indistinguibile surrogazione del controllo – spesso declinatasi con l’auto-controllo – e dello sfruttamento militare di reti di conoscenza cresciute e sviluppatesi in seno alla convivenza civile. Ho pensato a come figurare l’indistinzione e ho provato ad analizzarla prevalentemente attraverso la lente delle pratiche artistiche, del cinema e della cultura visuale.  

 

C.N.D.: Nel testo troviamo il neologismo immagine-conflitto, un termine in apparenza chiaro e afferente a quelle che sono le “immagini dei conflitti”. In verità, come affermi, questo termine può abbracciare un significato più ampio. Cosa sono dunque le immagini-conflitto? Potresti fornirci dei casi studio visuali in merito alla rappresentazione bellica ma anche oltre?

V.E.: La necessità di estendere l’immagine verso il territorio dell’immagine-conflitto è qualcosa che ho pensato come qualcosa di necessario, perché ponendomi di fronte alle immagini mi sono chiesto se queste avessero ancora una funzione indessicale-cognitiva. Ovviamente la risposta è no, perché oggi, indipendentemente dalla precisione e dall’eloquenza, ogni immagine può sempre essere sovvertita. Il nostro modo di pensare attraverso le immagini, e il cinema in particolare, può essere ribaltato, trasformato in qualcosa di completamente diverso. Se entriamo in un territorio instabile, dove il flusso continuo e sovraccarico di immagini – reso possibile dalle tecnologie dell’informazione – ci ha reso insensibili a tutto ciò che si ripete, forse dobbiamo accettarne la stessa natura conflittuale. Siamo immersi in un campo di battaglia. In questo ambito strategico del visuale, la mente lotta per non soccombere, per non essere sopraffatta. Parafrasando il grande Guy Debord, ogni teoria sull’immagine è un battaglione gettato nella stessa guerra dell’immagine. Le ipotesi sull’immagine muoiono, cadono vittime del tempo e dell’evoluzione tecnica, oppure vengono uccise dal fuoco amico della lotta, consumate, esaurite, neutralizzate fino a diventare nient’altro che merce. La crossmedialità contemporanea non ci offre altro che un rifugio anestetico nelle stesse immagini. È un meccanismo di mascheramento, come lo definisce Nicholas Mirzoeff, un’apofenia in cui il mosaico digitale si presta a interpretazioni infinite, come di fronte a macchie informi. Non stiamo più parlando solo dell’immagine del conflitto e delle rappresentazioni di eventi bellici. No, in questo regime di iperproduzione e competizione iconica dobbiamo parlare di immagine-conflitto. Un’immagine di sintesi che gira su media in continua evoluzione, inglobando molteplici esperienze di rappresentazione. Un paradosso di ermetismo, un eccesso di significati e interpretazioni che convergono in un vortice caotico. E così ci troviamo immersi in un mare di immagini che lottano tra loro, un conflitto visivo che non si ferma, un balletto di significati che si intrecciano e si sovrappongono. Ma, forse, in questo caos, possiamo trovare la chiave per comprendere il nostro tempo, per sfidare la noia dell’iperproduzione e per vedere attraverso il velo delle rappresentazioni. Sì, perché in ogni immagine-conflitto c’è la promessa di una nuova visione, di una nuova comprensione, se solo abbiamo il coraggio di guardare oltre la superficie.

 

C.N.D.: Qual è il ruolo e l’influenza delle immagini-conflitto nella condizione di “indistinzione”?

V.E.: Ripartendo da quanto detto sopra, credo che una delle condizioni peculiari dell’indistinzione sia la sua collocazione all’interno di un panorama culturalista in cui i livelli si sovrappongono, come in una sorta di enorme narrazione citazionista e postmoderna in cui si è persa la traccia degli archetipi. Con l’avvento massiccio dei media di trasmissione globale e la dematerializzazione degli strumenti di documentazione, come le immagini digitali, anche le guerre che si combattono sul campo trovano una loro immediata codifica e trasmissione. I conflitti bellici diventano un contenuto mediatico, che con gli smartphone si trasformano in qualcosa di portatile. La guerra tascabile diventa gadget, al pari dell’idea dello strambo inventore del film cult degli anni ottanta Gremlins (1984), che prova a brevettare un improbabile bagno in tasca. Allo stesso modo, l’immagine della guerra, che da televisiva e stanziale diventa diffusa e portatile, da merce si ricicla in contenuto e si diffonde al pari di ogni altro godimento idiota della contemporaneità medializzata. Ovviamente, affermare l’esclusiva idiozia della trasposizione mediale dei conflitti significherebbe ignorare colpevolmente le altre funzioni che le reti sociali e mediali hanno avuto negli anni in relazione alle guerre. Per non andare troppo indietro nel tempo, basta considerare le tante sfumature che il passaggio dei macro-conflitti in essere stanno acquisendo a partire dalla massiccia diffusione di video, balletti, appelli, propaganda e tanto altro su Tik Tok. Le dinamiche di comunicazione condizionano la percezione dello scontro e non lo fanno a posteriori, ma contestualmente alle armi. La medialità, insomma, è entrata definitivamente nel vivo delle operazioni, e la guerra si fraziona come in un database fatto di milioni di contenuti che cercano la via del racconto. Di nuovo, a essere stata profondamente modificata è la logica austera del militarismo, che al contrario diventa un frammento dell’economia della presenza in cui apparire è  importante quanto impaurire.

 

C.N.D.: Il tuo testo sembra profetico per certi versi, penso al fatto che si chiude parlando proprio del knock on the roof, la tecnica di allarme bomba israeliana che consiste nel bussare sui tetti con piccoli ordigni prima di bombardare le case, aggirando in maniera vigliacca e machiavellica le leggi internazionali e legittimando il massacro di civili palestinesi che portano avanti da tempo. Se dovessi aggiungere un capitolo contingente al post 7 ottobre sulla guerra in atto, attraverso le coordinate concettuali del tuo libro, cosa diresti? (Penso anche alla disseminazione di contenuti visuali nei social, dalla teoria complottista Pallywood alla propaganda)

V.E.: La pratica del knock on the roof, che descrivo nell’ultimo capitolo del libro, era stata portata alla luce da Foresic Architecture in un’investigazione del 2014. In quel caso, il 9 gennaio del 2009 un’intera famiglia a Beit Lahiya, nella striscia di Gaza, fu sterminata da un attacco missilistico Israeliano. Stiamo parlando quindi di un incidente avvenuto quasi 15 anni fa, e che paradossalmente testimonia come quel fungo mediatico esploso all’indomani del 7 ottobre 2023 sia solo l’evidenza o la riattivazione di un conflitto pressoché permanente. Il Pallywood, con le sue teorie antipalestinesi e la sua fiction da quattro soldi sulla auto-vittimizzazione di persone che invece sono costantemente e da anni sono assedio, si mostra essere l’ennesimo prodotto avariato di una ipertrofia iconica che di per sé è parte del conflitto. L’ennesimo tentativo di trasformare tutto questo dolore in una farsa senza senso. La guerra esiste, è decennale e non è in grado di risolvere nulla; a voler scrivere ancora si troverebbe tanto – troppo – materiale, ma soprattutto si ribadirebbe che in una società tecnologicamente avanzata la guerra è ancora più inutile, perché l’unica resa o fine del conflitto implica l’annientamento dell’avversario. Oggi come mai la guerra non trova soluzioni. La crisi Israelo-Palestinese rappresenta l’evidenza ineluttabile che una soluzione militare al conflitto è una contraddizione in termini. L’unica soluzione stabile al conflitto è una pace giusta tra israeliani e palestinesi. Il superamento dello stato di guerra non può passare dall’annichilimento e la distruzione di una delle due parti – cosa che al momento l’esercito israeliano sta provando a fare in maniera chirurgica –, ma necessariamente dalla distruzione definitiva delle barriere etniche, politiche e religiose, e dall’abbattimento dei muri imposti da stati-nazione anacronisticamente religiosi e politicamente idioti.

 

C.N.D.: Ho la sensazione che il conflitto stia prendendo la stessa direzione di quello russo-ucraino a livello di attenzione e copertura mediatica, o meglio, sta lentamente – per citarti – cadendo nel baratro dell’indistinzione e, aggiungo, dell’indifferenza. A cosa collegare questa caduta? Pensando alla classica e ormai spezzata dualità separata di natura-cultura, pensi che questo processo di indifferenza sia parte di una condizione di memoria corta (o meccanismo di difesa) propriamente umano oppure – ovviamente – è anche (soprattutto) un prodotto della cultura e della tecnologia?

V.E.: Tutto ciò è vero nella misura in cui il conflitto viene diviso, separato, scorporato dal proprio racconto. Se Paul Virilio sosteneva già anni fa che la comparsa del cinema aveva trasformato in maniera radicale la narrazione dei conflitti, che diventava qualcosa di diverso dall’evento bellico in sé, oggi dobbiamo portare queste posizioni a uno stato esponenzialmente più alto. Il prodotto surrogato della narrazione bellica, della rappresentazione dei conflitti, diviene contenuto di mercato soggiacente alle regole e alle norme dell’economia dell’attenzione. La nostra memoria corta è una conseguenza del sistema di potere socio-tecnico determinato dall’apparato di produzione, vendita e circolazione dei “prodotti” mediali. Questa è più o meno una norma consolidata – che Debord per primo ha messo in evidenza –, ma che oggi, in una società iper-circolazionista, viene accelerata ancora di più. Non siamo noi ad avere meno memoria, ma è quest’ultima a non essere adatta epistemicamente alla circolazione dei prodotti mediali.

 

C.N.D.: La terza parte del libro è una vera e propria indagine sulle relazioni politiche, economiche e di potere tra arte e guerra. Qui si crea un ulteriore livello di quella che chiami indistinzione. Quali sono le considerazioni fondamentali che trarresti da questa ricerca?

V.E.: Qualche tempo fa mi sono imbattuto in un sit-in di protesta di un gruppo anarchico a Torino. Ho scambiato qualche parola, ho seguito qualche riunione e poi ho iniziato a fare ricerca. La protesta era rivolta contro un grande gruppo imprenditoriale compartecipato (Leonardo SpA) che sta penetrando il territorio metropolitano della città, provando a rilanciare l’economia post-industriale dell’ex capitale dell’auto italiana puntando su innovazione e sviluppo. La protesta era contro la nascita della cosiddetta cittadella dell’aerospazio in corso Marche a Torino. Dalle mie ricerche ho capito che in realtà Leonardo SpA sta radicalmente trasformando la propria modalità di produzione, investendo massicciamente nelle cosiddette Emerging and Disruptive Technologies (EDT), ovvero tecnologie come l’intelligenza artificiale (AI), i sistemi autonomi e le tecnologie quantistiche. A supporto di Leonardo SpA c’è un programma dell’Alleanza Atlantica (NATO), ovvero DIANA (Defence Innovation Accelerator), che sarà sviluppato anche a Torino trovando ospitalità temporanea negli spazi di OGR (Officine Grandi Riparazioni). DIANA è un capolavoro di indistinzione; infatti, il programma intende sviluppare tecnologie innovative finanziando in venture capital delle start-up che si occupano di tecnologie legate all’aerospazio. In sostanza la NATO finanzia startupper civili nello sviluppo di tecnologie che possano essere poi applicate anche in ambito militare. Il modello del venture capital ovviamente riecheggia le modalità di sostegno e sviluppo della Silicon Valley, e sfrutta le potenzialità duali del digitale, ovvero una tecnologia a tal punto flessibile da servire sia per un ambito che per l’altro. In tutto ciò va ricordato che OGR è innovation and networking partner di Take Off (l’acceleratore che gestirà DIANA a Torino) e che a sua volta Leonardo SpA è parte dell’ecosistema innovativo di OGR. Un capolavoro – non artistico – di rimandi incrociati in cui è davvero facile perdersi.

 

C.N.D.: Mi piacerebbe chiudere con una domanda scomoda che scaturisce come un personale effetto collaterale alla lettura del tuo libro, ma può essere anche una riflessione complessiva sull’attualità e l’inattualità. Qual è il potere delle manifestazioni di protesta oggi? Hanno il potere di cambiare concretamente qualcosa? La resistenza e il dissenso dovrebbero essere disarmati o armati? Considera il libro (o la cultura) come metafora di arma e l’arma come metafora di libro. Serve un nuovo disordine che parta dal basso, non troppo ordinato e pacifico? 

V. E.: Io vado alle manifestazioni da quando ero alle scuole elementari, i miei genitori mi hanno portato alle occupazioni di fabbrica e alle barricate sui cancelli dell’Indesit. Sono certo che anche quando ero ancora un progetto di nascita, questo sarà stato intorno a un fuoco o a un picchetto. Si potrebbe dire che non so fare tanto altro se non manifestare il dissenso, quindi, se accettassi l’inutilità completa di questi incontri, forse dovrei accettare la mia inesorabile inutilità e ti assicuro che non ne ho voglia. Però c’è qualcosa che va cambiato, c’è qualcosa che deve essere implementato, adattato. Al netto del fatto che le grandi manifestazioni servono non più che a organizzare o rendere qualcosa visibile, resta la forza disarmante dell’incontro fisico della presa di possesso dello spazio urbano e non solo. Se anche solo servisse a convincere qualcuno ad andare più in profondità rispetto alla coltre indistinguibile della pornografia spettacolare, ecco, sarebbe già un successo. Io invito tutti a scendere in piazza sempre e per sempre. L’indistinzione digitale si combatte anche con la materializzazione dei nostri corpi vivi.