Questo articolo intende approfondire il peso crescente assunto dall’attuale processo di piattaformizzazione nel ridisegno di geografie di potere variabili. Le piattaforme, andando a mutare il volto del capitalismo e delle sue modalità di accumulazione e sussunzione, ripropongono la mappatura di vecchie asimmetrie e disuguaglianze sociali in base alla collocazione geografica, di genere, classe, sesso ed etnia, mettendo in atto modalità inedite di cattura di queste stesse istanze.

 

Genealogia della piattaformizzazione

 

Il processo di sfruttamento non ha a che fare solo con il plusvalore, ma anche principalmente con la dipendenza e la naturalizzazione della percezione. Lo sfruttato non aspira alla propria liberazione, al contrario, spera di ottenere un riconoscimento sociale attraverso il consumo e l’identificazione omologata. La violenza opera modellando un desiderio normativo che si impossessa del corpo e della coscienza, convincendo l’uno e l’altra a “identificarsi” con il processo stesso di estrazione della loro potentia gaudendi e di distruzione della loro vita (Preciado, 2023, p.271).

L’obiettivo di questo contributo è in primis quello  di indagare le dinamiche di potere che vanno a delinearsi in virtù della trasformazione socio-economica guidata dalle piattaforme. Per comprendere tale cambiamento, e come questo si ripercuota anche nelle definizioni di valori pubblici, risulta necessaria una prospettiva incentrata sull’economia politica delle piattaforme capace di svelarne l’architettura (Plantin, 2018), unitamente all’utilizzo di dispositivi ottici [1] necessari a leggerne le dinamiche complessivamente. Intorno ai concetti di piattaformizzazione e digital labor si sono diffusi, negli ultimi anni, termini quali “disruptive innovation” (Christensen, 1997), “uberizzazione” (Thomson, 2014), “tecnologie smart”, “numerique déroutant” (Bpi France Le Lab, 2015), “Industria 4.0” [2]. Sottesa a tali concetti vi è una sorta di “transizione”, “trasformazione” o “rivoluzione” digitale (Verdier, Colin, 2012). Ancora, termini quali “rivoluzione industriale 4.0” (Kagermann, Lukas e Wahlster, 2011) o “capitalismo 4.0” rimandano a processi che si dispiegano a livello planetario, quali il consolidarsi dell’Information Technology, accompagnata da una crescita dirompente del capitalismo di piattaforma e della dimensione bimodale [3] a livello industriale, portata avanti dall’industria 4.0 di origine tedesca (Shwab, 2016). 

Tutti i termini sopracitati hanno come minimo comune denominatore il tentativo di racchiudere la natura del processo tecno-comunicativo in atto che attiene, oltre agli attori che si servono della rete come unico canale di vendita (pure players), anche ai tradizionali sistemi produttivi sempre più aderenti al paradigma economico della piattaforma (Casilli, 2020). I processi di programmazione, informazione, automazione e connessione si intrecciano tra loro insediandosi nelle pratiche quotidiane, dalla generalizzata dimensione algoritmica all’Internet of Things, fino alle I.A. e alla robotica, naturalizzando la penetrazione dello strumento tecnologico in ogni ambito della vita (Into the Black Box, 2021). Tuttavia, tale innesto non è l’unico fattore determinante della piattaformizzazione. Vi sono altri processi storici che permettono di comprendere meglio la rivoluzione industriale e i suoi effetti: la cosiddetta accumulazione originaria; le piantagioni di cotone nordamericane [4];

lo sfruttamento delle materie prime tra il ‘600 e il ‘700 da parte di molti paesi europei delle colonie, il lavoro riproduttivo e la logistica che ha reso dispensabili le grandi concentrazioni nelle fabbriche. Occorrerebbe dunque considerare non solo le innovazioni tecno-organizzative, ma anche la dimensione globale sottostante a tali processi (Into the Black Box, 2021).

Nick Srnicek (2017) pone in evidenza come il consolidarsi dell’ecosistema delle piattaforme sia dovuto all’insorgere di due ordini di problemi: da un lato l’inadeguatezza delle aziende di trattare e valorizzare, in termini monetari, i dati immessi dagli utenti; dall’altro, l’incapacità del mercato classico di evitare l’insorgere di crisi, attraverso una riallocazione efficace delle risorse.

Il processo di piattaformizzazione ha visto, da una parte, l’ascesa della piattaforma come infrastruttura e modello economico dominante del web, e dall’altra la convergenza con i social media in quanto piattaforme, nella costruzione di un ecosistema sempre più integrato. Per rendere tale processo possibile le tech company hanno dovuto operare sulla decentralizzazione nella produzione dei dati, e poi sulla ri-centralizzazione della raccolta dei dati stessi. Tutto ciò per rendere i dati esterni (platform ready) pronti a essere operativizzati nella piattaforma (es. col pulsante mi piace su Facebook), al fine di rendere i dati interni utili allo sviluppo di terze parti, attraverso un utilizzo sempre più regolato delle Application Programming Interface (API), atte a fornire una parte di dati della piattaforma per i propri specifici fini (Van Dijck et al., 2019).

Nella loro operativizzazione, i dati grezzi sono soggetti a un processo di de-significazione preliminare alla loro calcolabilità attraverso il processo di standardizzazione. A tal proposito il collettivo Ippolita evidenzia come: «Attraverso i vincoli tecnici le operazioni sui dati comportano una deflazione simbolica. Una semplificazione straordinaria che impone una non-ambiguità espressiva, l’assenza di sfumature» (Ippolita, 2017, p.19).

Per questo motivo non si può parlare di “dati grezzi”: come sottolinea Lisa Gitelman (2013), tale definizione appare come un ossimoro, in quanto preliminare alla raccolta di questi dati vi è una preconfigurazione nei dispositivi di raccolta della stessa piattaforma, quali le interfacce utente.

Scaturisce, in tal senso, un effetto politico dal processo di datificazione, in quanto rendendo i dati esterni utili alla piattaforma, quest’ultima guadagna maggior controllo su come devono essere i contenuti prima di essere condivisi e dunque su come devono comportarsi gli utenti se vogliono accedere e condividere all’interno di quella comunità digitale. Il processo di datificazione coinvolge un duplice movimento e attiene due attori distinti, con gradi di potere a loro volta diversificati: da un lato vi sono i proprietari delle piattaforme che se ne servono come “strategia tecno-commerciale” (Van Dijck et al., 2019, p.78), in quanto la raccolta dei dati immessi dagli utenti da parte della piattaforma è preliminare alla circolazione poi tra le terze parti (ciò è reso possibile dalle sopracitate Api); dall’altro troviamo gli utenti che la praticano, e attraverso le interfacce utente seguono attività e contenuti raccogliendo  informazioni sui loro contatti. Riassumendo, la datificazione attiene la traduzione empirica di aspetti della realtà in dati, nello specifico meta-dati che vengono raccolti, ad esempio attraverso la posizione sul Gps o ancora dal tempo di utilizzo della piattaforma, e più genericamente dalle attività e dal comportamento quotidiano.

 

Dietro forme apparentemente leggere di interazione sociale si nascondono infrastrutture tecnologiche complesse in cui i dati sono costantemente aggregati e analizzati per mettere più efficacemente in connessione gli utenti con servizi e inserzioni pubblicitarie (Ibidem, p.79).

 

Tutto ciò significa che nella datificazione risultano centrali i processi di raccolta e circolazione del dato ai fini del monitoraggio delle attività degli utenti, consentendo un’analisi automatica e sistematica di queste. Il valore economico di questa risiede nell’istantaneità di circolazione del flusso dei dati, che assicura alle piattaforme un tracciamento immediato. La gestione tecnologica di tale flusso viene influenzata dalla scelta del modello di business da parte  dell’azienda. La datificazione potenzia inoltre il secondo processo, di mercificazione, in quanto la raccolta di dati e quindi interessi degli utenti sarà funzionale alla captazione delle loro preferenze e bisogni. La mercificazione consiste nella traduzione di emozioni e contenuti in merci; questi possono essere catturati in maniera endogena o esogena dalla piattaforma, e le modalità di valorizzazione di queste merci differiscono nelle valute, quali il denaro, l’attenzione, i dati e gli utenti (Ibidem).

Attraverso queste modalità di monetizzazione, le piattaforme incentivano la micro- imprenditorialità degli utenti, creando empowerment o disempowerment, e lo fanno dandogli la possibilità di mettere in commercio i propri beni (il proprio avere) attraverso la mercificazione delle loro stesse attività (il proprio essere). Tale processo sottostà allo sfruttamento del lavoro immateriale e culturale degli utenti, e a sua volta genera un permanere in una condizione di precarietà dei lavoratori dei servizi on-demand (Van Doorn, 2017; Fuchs, 2010; Moulier-Boutang, 2011).

 

Inoltre, questi meccanismi favoriscono la concentrazione del potere economico nelle  mani di pochi proprietari e gestori di piattaforme, in particolare quelli che governano  il nucleo dell’ecosistema e che possono posizionarsi strategicamente come aggregatori e gatekeepers (Van Dijck et al., 2019, p.84).

 

Tale processo si articola nei multisided markets, configurazioni economiche all’interno delle quali le piattaforme facilitano, aggregano e monitorano connessioni, scambi, transazioni tra imprese, fornitori di servizi, inserzionisti e utenti finali. Ciascun gruppo di utenti è  posizionato in un determinato lato del mercato, con un conseguente grado di potere all’interno di questo, e da  quanti di questi sono connessi dipende l’affermarsi della piattaforma come mercato multiversante (Ibidem).

L’ultimo processo, di selezione e curatela (curation), attiene invece alle modalità attraverso cui la piattaforma personalizza e rende virali i contenuti immessi dagli utenti. In tale processo si è  passati dalla logica dell’esperto (expert-driven) a quella del flusso informativo dei dati (data-driven). Nella selezione rivestono un ruolo centrale gli algoritmi e le interfacce, che direzionano le traiettorie di recepimento dei contenuti da parte degli utenti, attraverso l’attivazione e il filtraggio di questi.

Questo processo, apparentemente neutrale e democratico per gli utenti, rivela invece maggiore opacità in virtù della sua strumentalizzazione da parte di processi di influenza sociale o degli algoritmi, attraverso «strategie tecno-commerciali di black-boxing» (Ibidem). Da tali presupposti emerge come di fatto vi sia un continuo conflitto e confronto tra diversi sistemi valoriali all’interno dell’ecosistema delle piattaforme, e differenti modalità di interpretazione degli stessi. Cioè, non vi è un modo univoco di intendere il bene comune, perciò vi è un continuo oscillare tra perseguimento dell’interesse pubblico e privato.

 

La censura dei contenuti palesa ulteriormente tale aspetto, stabilendo, sulla base del rispetto di dati criteri e il possesso di determinati requisiti, sia cosa possa essere virale sia il suo grado di viralità. In questi ultimi mesi abbiamo assistito e stiamo assistendo a una massiccia operazione di censura e oscuramento dei contenuti riguardanti la diffusione di informazioni in merito al genocidio in Palestina, che ha visto coinvolti in segnalazioni e shadow ban su Instagram e su altre piattaforme gli account di divers* utent*, attivist* e militant* in sostegno al popolo palestinese. Dinamica che non fa che rimarcare il nesso tra le dimensioni tecno-digitale e socio-politica ed economica. Tale situazione mette in luce un ulteriore effetto politico, quello dell’apparente imparzialità dell’infrastruttura tecno-informatica. La piattaforma riveste un’identità indefinita: un ibrido tra un dispositivo neutrale operante dall’alto e una macchina estrattiva di processi di cooperazione sociale. Le piattaforme possiedono altresì uno status poco trasparente su più fronti (oltre che nel loro funzionamento):, sia nelle logiche e nei valori che le organizzano e orientano sia nelle politiche che le governano. A questa opacità si accompagna un livello di responsabilità indefinito verso gli utenti fruitori, offuscamento che deriva innanzitutto dal ruolo che esse assumono nel posizionarsi come semplici intermediari (Van Dijck et al., 2019). Lo straripare del potere e della politica della piattaforma al di fuori della stessa si concretizza in logiche di protocollo orientate all’adattamento dei contenuti esterni alle proprie necessità interne. Rende bene, a tal riguardo, il collegamento segnalato dai ricercatori di Into the Black Box con il concetto marxista operaista di general intellect e di come sia mutato nel tempo. Questo attiene al palesarsi dell’intelligenza collettiva all’interno di una produzione cooperativa, svincolata dal comando capitalista.

 

Oggi, tuttavia, le piattaforme sembrano porsi come sorta di capitale totale in grado non solo di depredare il general intellect, ma anche di penetrare al suo interno, plasmarlo, manipolarlo. Il lavoro tramite piattaforma macchinizza la razionalità collettiva nell’automazione algoritmica e spossessa la forza-lavoro della conoscenza del processo produttivo. I social network digitalizzano la sfera pubblica e trasformano il desiderio in dati da estrarre e abitudini di consumo da soddisfare. La disciplina stessa viene introiettata in forme di auto-controllo, una sorta di contratto intimo con sé stessi per la gestione delle proprie forze produttive fisiche e mentali secondo standard di valorizzazione neoliberali (Into the Black Box, 2021, p.26).

 

A tal proposito, Deleuze e Guattari ne L’anti-Edipo, riprendendo Marx, evidenziano come il capitalista centralizzi i “meriti” nella produzione di plusvalore, inglobando in sé le forze produttive: 

 

Man mano che il plusvalore relativo si sviluppa nel sistema specificatamente capitalistico e la produttività sociale del lavoro aumenta, le forze produttive e le connessioni sociali del lavoro sembrano staccarsi dal processo produttivo e passare dal lavoro al capitale. Il capitale diviene così un essere assai misterioso, poiché tutte le forze produttive sembrano nascere nel suo seno e appartenergli (cfr. Deleuze, Guattari, 1975, p.12 in Marx, 1956, p. 239).

 

Oltre all’abbattimento del capitale costante le piattaforme sono accomunate dallo svuotamento delle tutele e dei diritti del lavoro tradizionale e dall’utilizzo massiccio di dispositivi di controllo mirati (Telles, 2016; Cuppini, Peano, 2019). L’organizzazione del lavoro orientata da una logica di efficienza automatizzata ha portato a un incremento della sorveglianza sulle prestazioni de* lavorator*. Renato Curcio ne L’egemonia digitale (2017) evidenzia come nel passaggio dal capitalismo industriale a quello digitale  la trasformazione e la riorganizzazione dei dispositivi tecnologici di controllo abbiano giocato un ruolo decisivo, nello specifico attraverso due processi: la cancellazione dell’articolo 4 dello Statuto dei lavoratori attraverso l’emanazione del Jobs Act nel 2015, che ha permesso agli imprenditori di aggirare il ricorso a un’autorizzazione ministeriale o accordo sindacale, in maniera tale da far svolgere la prestazione lavorativa con l’ausilio di dispositivi tecno-informatici mirati alla misurazione e al controllo dell’efficienza produttiva. Inoltre, tale misurazione performativa porta, oltre al controllo sulla produttività tramite l’accesso ai dati del dipendente, a quello disciplinare attraverso eventuali sanzioni in caso di inadempienza ai ritmi lavorativi stabiliti dall’azienda (Curcio, 2017, pp.14-15).

L’aumento della sorveglianza, alla quale si accompagnano controlli capillari, porta a due esiti: da un lato la modulazione del tempo, quale causa della stessa digitalizzazione, che comporta l’adattamento umano nello svolgimento del lavoro in sinergia con l’IA. In tal senso, la coordinazione tra lavoro umano e macchinico nella catena di montaggio implica l’esigenza di un controllo dei corpi esteso temporalmente e spazialmente (Crawford, 2021). All’interno dei magazzini logistici il carico di lavoro presuppone un ritmo usurante (15/20 km al giorno), in quanto i dipendenti organizzano temporalmente la propria prestazione «con le cadenze algoritmiche di un vasto impero logistico» (Ivi, p. 23); dall’altro lato, la sorveglianza, quale effetto della digitalizzazione nella valutazione algoritmica, porta al ricorso da parte dei manager/supervisor a dispositivi di misurazione della produttività che implicano il monitoraggio estensivo, costante e automatizzato dei movimenti (Bellucci, 1996).

Tale aggiornamento di skills è presupposto dalla riorganizzazione del lavoro in relazione alle esigenze del mercato. Al contempo, come già detto, alla sorveglianza si accompagnano meccanismi di disciplinamento e di annichilimento dei corpi, anche attraverso la messa in atto da parte di diverse aziende di e-commerce di strategie di union busting (come Amazon) [5]. Sul fronte dell’opinione pubblica, la retorica che funge da specchietto per le allodole e che accompagna l’insediarsi di un polo logistico in un determinato luogo, gioca sulla valorizzazione economica dello stesso territorio in cui si innesta, che se caratterizzato da pregressi poli produttivi nocivi, tende a idolatrare l’instaurarsi del polo logistico, in quanto opera a minor impatto ambientale rispetto alla precedente. A tal proposito il nesso tra sfruttamento dei corpi e sfruttamento dei territori all’interno dell’organizzazione produttiva del capitalismo digitale non è innovativo, non si differenzia nel sussumere le stesse dimensioni del capitalismo industriale. Lo sfruttamento di materie prime e l’estrattivismo delle risorse materiali è strettamente legato all’estrazione dei Big Data, delle risorse immateriali: «A differenza di quanto supposto da un luogo comune assai diffuso, la filiera produttiva dei GAFAM [6] e delle data industries, articola strettamente, a monte e a valle della sua catena del valore, l’estrazione dei dati e quella di risorse naturali, spesso non rinnovabili» (Vercellone, 2019, p.12).

 

Elementi della piattaforma e tipologie di digital labor 

 

Per analizzare i legami e le interazioni che intercorrono a livello macro nell’ecosistema delle piattaforme, risulta utile comprendere più approfonditamente gli elementi che le compongono. Questi ultimi definiscono l’architettura della piattaforma e non attengono a una dimensione univoca. Sono dati di natura tecnica, economica, sociale, politica e giuridica. 

In primis, i Big Data, che sono dati relazionali, servono ad alimentare la piattaforma per farla crescere. In virtù di tale processo, vengono controllati e organizzati secondo fini informativi e commerciali. Poi vi sono gli algoritmi, “insiemi di istruzioni automatizzate” (Van Dijck et al., 2019, p.39), che permettono l’automatizzazione dei dati, ovvero il filtraggio automatico di una mole enorme di dati, in prima battuta raccolti, per poi essere stoccati, così da permettere una triangolazione tra utenti, contenuti e pubblicità. Le interfacce esterne, sulla base dell’organizzazione dei dati che presentano agli utenti finali, rendono diversamente visibili e accessibili i contenuti della piattaforma. Realizzate per facilitare la connessione attraverso una logica predittiva, orientano l’utente nei suoi comportamenti di consumo. 

I rapporti di proprietà, invece, permettono una formalizzazione dello status della piattaforma e attengono alla dimensione economica, politica e giuridica di questa. In base allo status che questa assume, vi sono differenti sistemi di regolamentazione e tassazione e differenti conseguenze sulle transazioni finanziarie (nel sito web e nelle interazioni tra questi e gli utenti). Gli status proprietari non sono statici, mutano nel tempo, come ad esempio ha fatto emergere il caso di Couchsurfing Inc. [7] (Ibidem).

Come anche questa esperienza palesa, la scelta e il cambiamento dello status proprietario ricadono sul modello di business da adottare. Questo, a sua volta, riguarda il modo in cui il valore economico viene creato e appropriato. La monetizzazione avviene sulla base di diversi tipi di valute: oltre al denaro vi sono l’attenzione, i dati e la valutazione da parte degli utenti. Quest’ultima dipende dalla numerosità degli utenti che garantisce l’incremento del valore azionario della piattaforma. Vi sono vari modelli di business, corrispondenti alle modalità con le quali si realizza la monetizzazione, come estrarre il valore mediante contenuti, dati, contatti degli utenti o richiedendo delle commissioni, ed eventualmente vendendo tali informazioni e dati ad aziende o governi interessati alla profilazione  (Ibidem).

In tal senso: «Il modello di business è parte integrante della “filosofia” di un sito, e si riflette a sua volta nell’architettura del sito stesso» (Ivi, p.42). I termini di utilizzo (ToS), infine, rappresentano elementi costitutivi e governano le piattaforme. Le condizioni di servizio possono essere definite come patti normativi tra piattaforme e utenti, che stabiliscono reciproci obblighi e possibilità di utilizzo della piattaforma stessa. Rappresentano una sorta di contratti in costante mutamento, le cui funzioni sono di imporre norme e valori in merito alla privacy. L’aggiornamento di questi non attiene solo alla piattaforma ma anche agli utenti e, in virtù delle modifiche apportate, viene introiettato un determinato modello di socialità, incoraggiando e/o scoraggiando determinate modalità di connessione e interazione (Ivi, p.43). «Considerati nel loro insieme, gli elementi tecnologici, economici e socio-legali dell’architettura di una piattaforma modellano le dinamiche di una socialità guidata dalla piattaforma (platform-driven)» (Ivi, p.44).

I ToS, come gli status proprietari e i modelli di business, sono soggetti a cambiamenti e revisioni. Tali ricalibrazioni sono guidate dall’intento da parte delle piattaforme di fidelizzazione dell’opinione pubblica. Come ad esempio ha mostrato Airbnb nel 2016, quando ha adottato una politica antidiscriminazione (washing), o quando introdusse una condizione per la quale gli utenti dovevano aderire a una concessione dei propri dati personali, rendendoli reperibili attraverso enti pubblici e casellari giudiziari, permettendo così un controllo preventivo da parte dei proprietari della piattaforma-host (Ibidem). Tali tendenze alla reversibilità della calibrazione dei dispositivi tecnici derivano dall’intento capitalistico di adattamento costante alle dinamiche socio-cognitive, al fine di evitare l’insorgere di potenziali critiche al suo modo di funzionamento [8]

In questo, il capitalismo digitale si è servito della piattaforma come spazio tecnico-economico e sociale, capace di rendere capillare la captazione del valore e di minimizzare, a livello di visibilità, l’apporto in termini di tempo, impiegato nell’esecuzione di una prestazione produttiva; ovvero, ha annullato i confini tra tempo di lavoro e tempo libero attraverso la ludificazione del lavoro (vedi piattaforme social). Così facendo, si è assistito alla proliferazione di una serie di professioni riconducibili al lavoro atipico, a cavallo tra il lavoro autonomo, freelance, a cottimo e il mercanteggio. Tale tendenza viene argomentata da Antonio Casilli (2020) come sintomatica della crisi dell’azienda, ovvero l’innestarsi all’interno dello stesso spazio aziendale di relazioni mercantili. Dunque, può dirsi in crisi lo stesso assioma su cui Ronald Coase (1937) sedimentava la teoria dell’impresa.

 

Non dovendo in ogni momento rinegoziare il prezzo di una materia prima, assicurarsi di nuovo le prestazioni di un professionista indipendente o ridefinire continuamente le tariffe di un servizio a pagamento, l’azienda riduce i suoi costi di transazione e ottiene di fatto dei guadagni di produttività. Le imprese barattano così la coordinazione del mercato in cambio di una coordinazione amministrativa incarnata da gerarchie definite e sotto l’autorità di dirigenti (Casilli, 2020, p.67).

 

In altre parole, come ribadito da diversi autor* la piattaforma rappresenta uno spazio ibrido a cavallo tra impresa e mercato. Appare come il luogo per eccellenza del capitalismo contemporaneo, generando una diluizione dei confini tra azienda — spazio di sicurezza, garanzia e gerarchia (al posto di questa, nella piattaforma vige l’apparente neutralità sottostante alla logica di abbinamento algoritmico) — e mercato — uno spazio di libera coordinazione tramite i prezzi. La piattaforma, quale apparente dispositivo di mera intermediazione, manifesta la sua efficacia proprio in virtù della capacità di minimizzare, invisibilizzare i costi di transazione (raccolta informazioni e contrattualizzazione), aspetti ai quali nessun attore economico può e vuole rinunciare (Into The Black Box, 2021). Rendendo così auspicabile il sacrificio della propria libertà — nel rendere accessibili i propri dati personali e la propria forza lavoro nella creazione di valore al di fuori di una retribuzione — sull’altare della gratuità.

La sottrazione del valore nel lavoro digitale non riguarda allo stesso modo tutte le attività sul web, come non tocca allo stesso modo tutt* l* lavorator* sulla base della provenienza geografica [9]. Altresì non attiene alla mera dimensione economica e professionale ma ha forti ricadute sul piano politico, sociale e cognitivo. Utilizzando il termine digital labor, sulla scia di Antonio Casilli (2020), non faccio riferimento alle professioni del data scientist o degli ingegneri high-tech, mi concentro piuttosto su come sono mutate le modalità estrattive del capitale attraverso il massiccio impiego di dispositivi sempre più capillari nello sfruttamento del lavoro sotto retribuito e/o gratuito.

Casilli (2020) propone di classificare in tre tipologie il digital labor, con differenti modalità di estrazione del valore da parte delle piattaforme: il lavoro on demand, il microlavoro e il lavoro sociale in rete. Il lavoro on demand o dell’“economia dei lavoretti” (gig economy), nella sua distribuzione spaziale appare circoscritto geograficamente (città, provincia, regione) e non richiede qualificazioni specifiche. Consiste in una prestazione eseguita in tempo reale da un utente-lavoratore, che può riguardare l’offerta di un alloggio (Airbnb), di un servizio alla persona, di una riparazione o di un servizio di trasporto (Uber) (Casilli, 2020).

Tuttavia, il carattere prettamente materiale della prestazione emerge a un livello pressoché formale, perchè sostanzialmente l’attività principale che sottostà a tali tipi di prestazioni consiste nella produzione ed estrazione dei dati. Solo che, rispetto agli altri tipi di digital labor, questo comprende anche lo sforzo fisico. La sua retribuzione si differenzia in virtù delle aziende a cui fa riferimento e del tipo di prestazione che eroga. La remunerazione può essere oraria, con subappalto e persino col cottimo. 

Il secondo tipo di digital labor considerato da Casilli è il microlavoro, chiamato anche “crowdwork” (lavoro della folla), facendo riferimento in particolare a portali quali Amazon Mechanical Turk o Clickworker, predisposti con caratteristiche volutamente ludiche, attraverso cui l* lavorator* svolgono mansioni frammentate e standardizzate per una bassa retribuzione (da pochi centesimi a qualche euro per mansione) e qualificazione. Tali attività lavorative possono spaziare dal taggare video al selezionare foto, contenuti, trascrivere documenti, smistare tweet, ecc. Si tratta di prestazioni svolte su committenza dell’azienda, dell’istituzione pubblica e anche di personalità private, prestazioni che richiedono la delega, esternalizzazione alla forza-lavoro umana di mansioni che la macchina non è in grado di svolgere (human-based computation). Il lavoro sociale in rete consiste, invece, nella partecipazione degli utenti ai social media quali Facebook, Twitter, Instagram, ecc. Vengono considerati lavori sociali in rete le mansioni che svolgiamo quotidianamente quando accediamo a un social network, che possono dirsi gratuite, almeno per quanto concerne la loro retribuzione nei nostri confronti. Tuttavia, queste operazioni che eseguiamo pressoché automaticamente, contribuiscono alla creazione di diversi ordini di valori quali: il valore di qualificazione, in quanto nel nostro utilizzo della piattaforma, concorriamo alla valutazione di beni e/o servizi attraverso voti e/o commenti; il valore di automazione, che garantisce uno sviluppo sul lungo termine attraverso l’addestramento e l’allenamento degli algoritmi grazie al nostro utilizzo dei dati e contenuti; il valore di monetizzazione, che riguarda la garanzia di liquidità nel breve termine, attraverso la cessione e la commissione di dati tra reciproci attori (Casilli, 2020).

L’espansione delle piattaforme ha portato alla creazione di una convergenza, da un lato nel controllo del lavoro e dall’altro nella sua organizzazione, caratterizzando quest’ultima per una sua standardizzazione e parcellizzazione. Questi due processi, che hanno accompagnato la tendenza a incentivare il lavoro autonomo, hanno anche decretato il riconoscimento della produttività di alcune mansioni prima escluse da forme di retribuibilità, quali quelle relative al lavoro di cura, al lavoro domestico e al lavoro digitale.

Nondimeno questa espansione delle categorie lavorative invisibilizzate e la stessa omogeneizzazione nell’inquadramento giuridico de* lavorator* non ha portato a un abbattimento delle disuguaglianze preesistenti sulla base del contesto di provenienza, del sesso, del genere, dell’orientamento sessuale ecc. 

A tal proposito gli autori Into the Black Box (2021), riprendendo la definizione di “disuguaglianze 4.0” di Arianne Renan Barzilay e Anat Ben-David (2017), evidenziano come le nuove configurazioni dei rapporti di potere si caratterizzino per un riconsolidamento delle gerarchie sociali pregresse:

 

Il passaggio al capitalismo 4.0, nonostante le trasformazioni profonde e gli elementi di rottura che introduce, non segna quindi una rottura radicale, ma incorpora e riconfigura rapporti sociali e gerarchie esistenti — di razza, di genere e di classe — riproducendo “tanto la divisione sessuale del lavoro, quanto la sua gerarchizzazione lungo la linea del colore” (Into the Black Box, 2021, p.32).

 

Carlo Vercellone (2019) ritiene che per comprendere appieno tale evoluzione sia necessario osservare due tendenze che attraversano il capitalismo cognitivo. Da un lato il peso rilevante che hanno assunto le modalità di rentier di valorizzazione del capitale e lo sfumare del confine, nel capitalismo industriale nitido, tra rendita e profitto. Dall’altro, la tendenza a un’attenzione ai concetti di comune e di beni comuni. Per l’autore, ciò che lega l’estrattivismo “classico” [10] all’estrattivismo digitale è proprio il dialogo tra logica della rendita e logica del comune.

Vercellone sottolinea come i concetti di comune e di beni comuni necessitino di ulteriori specifiche. Il comune in sé si riferisce alle risorse della terra, della cultura, della vita e delle interazioni sociali e produttive, che vi sono a prescindere dal capitalismo anche se, riprendendo Karl Polanyi, evidenzia come quest’ultimo sia teso a una continua sussunzione e appropriazione delle stesse risorse che esistono al di fuori da lui. Definisce invece il comune per sé dell’intelligenza collettiva che si ritrova a operare sia nel campo produttivo che in quello spazio di conflitto lavoro-capitale.

Da qui emergono con prepotenza le contraddizioni che scaturiscono dalle diverse strumentalizzazioni della stessa intelligenza collettiva. Ancora, evidenzia come quest’ultima sia basilare sia per l’organizzazione economica gerarchica, funzionale al coordinamento produttivo e degli scambi, e a sua volta come questa intelligenza permetta il sedimentarsi di modelli economici alternativi. A tal proposito risulta molto interessante la riflessione che Antonia Anna Ferrante sviluppa sul compost, a partire dalle influenze di Ursula K. Le Guin, Donna Haraway e Franz Fanon:

 

Il compost è un modo di guardare, osservare, accumulare e raccontare la terra che può riparare e che, attraverso le pratiche di alleanze trasversali, ci mostra cosa può accadere quando si investe sulla possibilità delle affinità, sull’interdipendenza, sulla simpoiesi – il fare comune – mentre si disgregano le identità (Ferrante, 2022, p.23).

 

Paradossi e contraddizioni nell’estrazione di valore nel digital labor

 

La retorica sottostante alla diffusione di dispositivi tecnologici sempre più smart, innovativi e autonomi ha fatto, ottimisticamente per alcun* e pessimisticamente per altr*, pensare alla fine del lavoro umano.Nel primo caso “fantasticando” su un mondo in cui saranno le macchine a lavorare per conto degli esseri umani, mentre questi ultimi potranno dedicarsi a mansioni più creative e appaganti. Nel secondo, ha generato paura per tant* verso una fine dell’utilità dell’apporto umano nel contribuire e determinare la produttività dei processi lavorativi, il che porta con sé il timore verso una precarietà ancora più marcata. Tuttavia, per Casilli (2020) tali scenari non segnano realmente la fine del lavoro umano, quanto piuttosto una sua frammentazione, un indebolimento della posizione lavorativa. Tale parcellizzazione deriva dall’occultamento che si cela, ad esempio, dietro la promessa di orientamento autonomo delle piattaforme ai fini di marketing attraverso l’utilizzo di dispositivi tecnologici che si servono di bot. Esempio che viene sfatato osservando quei microlavori che si danno principalmente negli infopoint, collocati prevalentemente nel Sud globale del mondo. Nello specifico, come viene evidenziato dall’autore, nell’Africa orientale (Uganda) e meridionale (Mozambico, Madagascar) vi sono quartieri interi composti da lavorator* occupat* in tali micromansioni. Queste ultime vengono retribuite pochi centesimi e sono nascoste, in quanto relegate all’interno di spazi privati, aspetto che influenzando ulteriormente la sua visibilità contribuisce al suo sfruttamento.

Un altro paradosso riscontrabile all’interno del digital labor si palesa soffermandosi sul supporto apportato dalla macchina, dall’I.A. Emerge come tra questa e l’uomo vi sia un rapporto di influenza rizomatica, che va per interruzioni (come il conflitto stesso tra lavoro e capitale). Se da una parte vediamo che «…le nostre vite diventano macchiniche, non potendo fare a meno di una serie di supporti che ne rendono possibili le attività quotidiane”, d’altra parte, “le macchine diventano viventi, si appropriano di una serie di capacità e prerogative che finora erano esercitate dalla forza-lavoro» (Into the Black Box, 2021, p.34). A tal proposito, non avrebbe senso parlare della fine del lavoro umano tout-court — in quanto l* lavorator* continuano ad assistere le macchine e ad allenare gli algoritmi, in virtù di un loro miglioramento — ma piuttosto di nuove modalità di disciplinamento e ri-territorializzazione dei processi produttivi (Into the Black Box, 2021). 

Altra contraddizione risulta dalla presunta predisposizione al perseguimento del bene comune, nonostante la stessa forma giuridica di impresa privata della piattaforma rende tale fine difficilmente perseguibile, in virtù della divergenza nell’interpretazione dei valori di bene collettivo che ne risultano. Le piattaforme, come già sottolineato in precedenza, tentano continuamente di inglobare insiemi di significato comuni al fine di coinvolgere l* lavorator*, che devono mostrarsi come partecipanti attiv* nel mantenimento di tale sistema. Tuttavia, si tessono trame di sfruttamento che seppur occultate non appaiono come meno violente: 

 

L’ecosistema delle piattaforme è di fatto percorso da diversi paradossi che producono stati di tensione, come quello tra il fatto di essere imprese private e contemporaneamente operare secondo logiche tese al valore pubblico, o il fatto di supportare retoriche dal basso, pur essendo strutture altamente centralizzate le cui dinamiche sono sostanzialmente opache (Van Dijck J. et al., 2019, p.19).

 

A tal proposito, Van Dijck, Poell e de Waal parlano di una contraddizione strutturale intrinseca alle piattaforme, che si manifesta in molteplici episodi al centro del dibattito pubblico [11], attinente alla dicotomia visibilità-invisibilità dei processi di connessione. Alle dinamiche comunicative e ai comportamenti sociali di individui, aziende e istituzioni viene data massima visibilità, mentre permane molta opacità nelle dinamiche sottese al funzionamento algoritmico e alla cultura sottostante all’azienda di riferimento.

Queste contraddizioni riecheggiano quelle che già si manifestavano all’interno del lavoro domestico. Difatti, è possibile riscontrare dei punti di connessione nello sfruttamento del lavoro domestico e del lavoro digitale. Tali analogie, si manifestano in virtù dell’occultamento e invisibilizzazione di quello che è un vero e proprio processo produttivo di creazione del valore, che nel suo essere naturalizzato o ludificato nella sua estrinsecazione viene minimizzato, ridotto a mera attività naturale e/o ricreativa.Laurel Ptak, con la sua campagna artistica ha ben reso tali linee di continuità, intitolando la sua opera Wages for Facebook, richiama l’assonanza con Wages for Housework [12]. Wages for Facebook ha l’obiettivo di mettere in tensione la stessa naturalizzazione della monetizzazione delle nostre relazioni sociali. Ciò che viene chiamato dal patriarcato “amore”, nel lavoro domestico, e dalle piattaforme “amicizia” nel lavoro digitale, viene definito dalle autrici “lavoro non remunerato” (cfr. Federici, 1975, in Casilli, 2020). 

Lo svelamento di queste contraddizioni insite nel lavoro riproduttivo e digitale diviene sempre più manifesto con la diffusione del Covid-19 a partire da febbraio 2020. De Simoni pone in evidenza come durante la crisi pandemica si sia assistito a una crescente centralità del lavoro di riproduzione sociale che tende a palesarsi sempre di più nel dibattito pubblico. L’autrice individua la correlazione tra questi due processi nell’emergere di tre dinamiche tra loro interrelate e che rendono visibili le contraddizioni insite nel rapporto tra capitale, lavoro produttivo e lavoro di riproduzione sociale. In primo luogo, sono emersi ulteriormente l’entità e il valore sociale del lavoro riproduttivo e del digital labor, «quei lavori ultra-proletarizzati (sia sul piano materiale che simbolico)» (De Simoni, 2020, p.67). Tuttavia a tale presa di consapevolezza non è corrisposto un riconoscimento sostanziale: non sono emerse delle corrispettive e adeguate misure di tutela e supporto materiale a sostegno del lavoro domestico e di cura sempre più chiamato in causa. In questo senso, durante la pandemia il lavoro domestico si è intensificato e nascosto ulteriormente all’interno delle mura di casa. Inoltre, sono emersi regimi produttivi differenziati sulla base spaziale, con livelli di contagio distribuiti sulle linee della razza, del genere, della classe e della marginalità più in generale. Appare evidente come la crisi sanitaria abbia trasformato le posizioni lavorative e abitative in “variabili di sopravvivenza”, segmentando il tessuto sociale in categorie più esposte al rischio rispetto ad altre. Come scrive Paul B. Preciado (2023): «la zuppa è sempre la stessa, con la differenza che alcuni mangiano ed altri no» (p. 290).

Terzo punto: «… a causa del confinamento di massa, si è innescata un’accelerazione abbastanza impressionante della sussunzione capitalistica di ampie porzioni di riproduzione sociale per mezzo di dispositivi digitali che impone una riflessione urgente sul rapporto tra riproduzione, processi estrattivi e valorizzazione oltre che di immaginare pratiche di sottrazione, contro-utilizzo e “ri-endogenizzazione” della riproduzione»  (De Simoni, ibidem). 

L’esempio lampante fornitoci da De Simoni concerne il mondo della formazione su tutti i livelli.  L’istruzione da remoto rende indispensabile l’utilizzo di piattaforme quali Google e Microsoft per permettere di proseguire con le lezioni a distanza, identificando così la risposta offerta da parte del mondo dell’istruzione alla crisi pandemica come «una sua ulteriore sussunzione alle logiche del capitalismo e con una forte endogenizzazione del processo educativo» (Ivi, p. 69).

Tale esempio fa saltare all’occhio l’importanza crescente assunta dalle piattaforme digitali sul piano lavorativo e formativo. Il lavoro digitale, come il lavoro di riproduzione sociale è sussunto in maniera latente alle logiche del capitale. In primo luogo, entrambi sono soggetti ai confini stabiliti dal capitale che sottendono l’interrelazione tra sfera produttiva e sfera riproduttiva, cui si riflette rispettivamente il rapporto tra sfera pubblica e sfera privata. Come suddetto, questi confini tendono a eccedere la propria demarcazione andando a invadere la sfera privata e così ampliando il tempo produttivo. In secondo luogo, all’istituzionalizzazione di questi, consegue un processo di occultamento che rende invisibile il valore sottratto dal capitale. Cioè, la definizione stessa di lavoro improduttivo va a definire l’incommensurabilità dell’attività lavorativa, data dall’incapacità di misurarne la produzione di valore (Casilli, 2020).

Tuttavia, occorre tener conto che il lavoro riproduttivo come quello sociale in rete può comunque essere utilizzato come mezzo di resistenza. Seguendo Federici e Vogel, la produzione capitalistica non controlla direttamente una grande quantità di lavoro riproduttivo sociale, in quanto gran parte della vita ha luogo in tempi e spazi al di là degli imperativi immediati della produzione di valore capitalista, e quindi al di là della supervisione dei padroni e delle loro pratiche disciplinanti.

A tal proposito, secondo Van Dijck, Poell e de Wall (2019) è possibile argomentare come seppur tali dispositivi tecnologici siano asserviti in funzione del sistema capitalistico, e dunque tendano all’accumulazione e all’aumento del plusvalore, non deve essere esclusa l’“ipotesi contro- algoritmica” che contempli la «formazione di soggettività algoritmiche di rottura all’interno della metropoli planetaria integrata che sta emergendo» (p. 37).
Concependo come inscindibile il rapporto tra sfera tecno-informatica e sfera sociale, occorre orientarsi nella direzione di una ri-appropriazione e ri-endogenizzazione di quello che è lo stesso  strumento implicato nella deterritorializzazione del processo produttivo, della digitalizzazione dell’attività produttiva (smart working, DAD), di consumo e riproduttiva (lavoro di cura, lavoro domestico, del vivente in senso esteso).

Per compiere un salto di paradigma, Ferrante (2022) evidenzia l’utilità di ricostruire le genealogie coloniali che affondano le proprie radici in strutture storico-legali ed epistemologiche, in modo da comprendere il peso dell’imposizione della cultura dominante, razionale, civilizzatrice e la sua attitudine disciplinante e inquinante sui corpi e i territori inscritti come selvaggi, misteriosi:

 

La tossicità marca una linea tra vite che devono essere protette e corpi, intere popolazioni, sacrificabili. Dannat* sono proprio coloro che cadono ferit* sotto i confini stessi dell’umano, sotto il non-essere, sotto la terra stessa: napoletana come un verme. Eppure capace di scavare le vie di fuga, produrre humus che non sia troppo umano, ma preparare un terreno di conflitto contro lo sfruttamento (Ivi, p.21).

 

Note

[1] Abilitano alla visione del mondo attraverso la prospettiva del socialismo possibile, della scienza per le persone e del femminismo-antirazzista. “I dispositivi ottici sono lenti di ingrandimento rosse verdi e ultraviolette che ci permettono di compiere una diffrazione per osservare gli elementi biofisici, le energie socioculturali, gli scambi economici, le tecnologie tanto quanto specifici desideri.” (Haraway, 2019, pp.52-53).

[2] Bundesministerium fur Bildung und Forschung (Bmbf), Zukunftsprojekt, Industrie 4.0, https://www.bmbf.de/de/zukunftsprojekt-industrie-4-0-848.html

[3] Ovvero l’integrazione di sistemi cyber-fisici nei processi industriali, portata avanti dall’industria 4.0 di origine tedesca (Into the Black Box, 2021).

[4] Per approfondire il legame tra industrializzazione e la tratta schiavistica e del sistema atlantico di piantagione di cotone, si vedano: Black Reconstruction in America (1935) di William Edward Burghardt Du Bois; The Black Jacobins (1938) di Cyril Lionel Robert James; Capitalism and Slavery (1944) di Eric Williams;  L’impero del cotone, una storia globale (2014) di Sven Bekert, che definisce la piantagione come primo terreno soggetto alla “disciplina industriale”, sottolineando il nesso tra estrazione di materia prima e sfruttamento di risorse (corpi e terre). Gli autori convergono nell’evidenziare l’importanza della schiavitù per l’accumulazione originaria.

[5] Per un approfondimento delle strategie antisindacali in Amazon si veda J. Logan (2021) Crushing unions, by any means necessary: How Amazon’s blistering anti-union campaign won in Bessemer, Alabama, Volume 20, Issue 3, doi: https://doi.org/10.1177/10957960211035082

[6] O FAMGA, o ancora le Big Five, ovvero i grandi colossi informatici occidentali. Rispettivamente: Alphabet-Google, Amazon, Facebook, Apple e Microsoft.

[7] Couchsurfing Collectives è un’organizzazione che nasce nel 2005 come “sito di scambio di ospitalità” su base volontaria e finanziata da donazioni. Composto da gruppi locali che si trovavano ad operare negli Stati Uniti, Nuova Zelanda, Austria e Canada, nel 2011 modifica il suo status proprietario da no profit a for profit. Tale cambiamento giuridico va a ripercuotersi chiaramente anche su un cambiamento di rotta nel modello di business adottato.

[8] Per approfondire le modalità di assorbimento delle critiche da parte del modello capitalista si veda Boltanski L., e Chiapello E. (2011), Il nuovo spirito del capitalismo, Milano – Udine, Mimesis.

[9] A tal proposito risulta opportuno richiamare il concetto di intersezionalità, introdotto per la prima volta nel 1987 da Kimberlè Crenshaw per sottolineare la condizione specifica delle donne nere povere. Definisce la multidimensionalità delle forme di oppressione e sfruttamento e come esse agiscono nella sovrapposizione di diverse identità sociali. La studiosa non guarda ai singoli gruppi minoritari ma ad una infrastruttura sistemica di ingiustizia sociale.

[10] Fa riferimento al settore primario.

[11] Si pensi al caso di Cambridge Analytica congiunto con le elezioni di Donald Trump alle presidenziali del 2016. Società di consulenza britannica fondata nel 2013 da Robert Mercer, che si è servita dei dati di reti di amici di 270mila iscritti ad un’applicazione (“thisisyourdigitallife”), creata ad hoc per la profilazione da parte di un ricercatore dell’Università di Cambridge, Aleksandr Kogan. Tale applicazione per essere utilizzata doveva passare da Facebook login, il che ha reso complice Facebook, in modo più o meno attivo, della sottrazione dei dati personali degli utenti ai fini di orientamento manipolatorio della campagna elettorale.

[12] Campagna per il salario domestico portata avanti a partire dal 1972 dalle femministe Mariarosa Dalla Costa, Silvia Federici, Brigitte Galtier e Selma James.

 

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Biografia

Eleonora Rassu è una ricercatrice indipendente laureata in Sociologia e Ricerca Sociale (LM-88) all’Università di Bologna. I suoi ambiti di ricerca gravitano attorno alla Sociologia del Lavoro e al Diritto del Lavoro, con particolare interesse per i Gender Studies e gli Studi sulla Migrazione.