Il 14 Luglio scorso è uscito il ventitreesimo album di Habibi Funk. Ma sarebbe anche potuto essere il 14 Luglio del 1973, un altro giorno d’estate nella calda Beirut. L’album è Marzipan del polistrumentista libanese Charif Megarbane. Il sound dell’album è fortemente influenzato da musicisti del mondo arabo del ventesimo secolo come Ziad Rahbani, Ahmed Malek, Issam Hajali e Sharhabil Ahmed. Il suono è analogico, la chitarra elettrica è fuzzy, la batteria e il basso sono caldi. Ancora una volta, il nuovo suono del 2023 non è altro che il vecchio suono del 1973. 

Il passato che non abbiamo vissuto esiste per noi soltanto come qualcosa di virtuale e fantasmatico. Ma che cosa significa quando il passato di un altro spazio, differente dal nostro, per esempio quello del mondo arabo, ritorna nel presente?

Quando il passato non c’è più, è lo spazio che resta invece del niente. Una caratteristica dei titoli delle canzoni di questo album è infatti proprio il riferimento a una dimensione spaziale: il mercato di Beirut (“Souk El Ahad”), un agriturismo nella campagna libanese (“Chez Mounir”), un albergo sul litorale mediterraneo (“Portemilio”). Infine, il titolo dell’ultima traccia, “Bala 3anouan”, potrebbe essere tradotto in italiano come “senza indirizzo”. Il passato fa ritorno al presente anche se non c’è ormai più niente verso cui tornare

Come Mark Fisher ha rilevato in un articolo pubblicato su Film Quarterly, “La scomparsa dello spazio avviene di pari passo alla scomparsa del tempo: ci sono dei non-tempi così come ci sono dei non-luoghi” (Fisher, 2012, p. 19). E ancora, come ha ribadito in Spettri della Mia Vita: “La lotta per lo spazio è anche una lotta per il tempo” (Fisher, 2019, p. 200). L’album di Charif Megarbane è il suono di un futuro perduto. È la lotta per uno spazio che è lentamente cancellato. Mi chiedo, perciò, quanto tempo ci vorrà finché un nuovo centro commerciale sarà progettato al posto del vecchio mercato di Beirut?

Cinquant’anni fa, nel 1973, il Libano era economicamente prospero ma stava attraversando tensioni interne sempre maggiori che avrebbero portato poi alla guerra civile nel 1975. La musica satirica di Ziad Rahbani, una tra le sopracitate influenze di Charif Megarbane, ebbe un grande successo proprio in quel periodo. Invece, la musica di Charif Megarbane è senza parole (anche se talvolta c’è un “bom bom bom” in sottofondo). Per quarantadue minuti, ci sono soltanto i suoni della musica e i titoli delle canzoni da un altro luogo e da un altro tempo. 

Proprio come la musica occidentale, la musica che viene promossa e distribuita da Habibi Funk Records rappresenta la nostalgia per un passato che non esiste più. I fantasmi masterizzati e mixati di Habibi Funk tuttavia non sono già quelli di un passato che è stato a sua volta presente e rappresentato ma che esiste pur sempre “al di là di ogni presente vivente”, come ha scritto il filosofo Jacques Derrida nell’esordio di Spettri di Marx, “al cospetto dei fantasmi di coloro che non sono ancora nati o che sono già morti, siano o meno vittime delle guerre, delle violenze politiche o d’altro tipo, degli stermini nazionalisti, razzisti, colonialisti, sessisti e così via, delle oppressioni dell’imperialismo capitalista o di tutte le forme di totalitarismo” (Derrida, 1994, p. 9). Nel caso di Habibi Funk Records, i fantasmi sono infatti quelli del nazionalismo, del razzismo, del colonialismo, e del sessismo; l’hauntologia araba è, per definizione, postcoloniale.

Il termine “hauntologia”, introdotto nel 1993 da Jacques Derrida in Spettri di Marx, è stato popolarizzato da Mark Fisher e Simon Reynolds due decenni dopo e usato per definire una certa “nostalgia per il futuro perduto” nella cultura contemporanea. Ancora oggi, viviamo in una cultura caratterizzata dalla nostalgia e dalla idealizzazione del ventesimo secolo. Il futuro non è mai arrivato. Il presente non è nient’altro che la riproduzione senza fine del passato. Come nella canzone di Kate Bush, stiamo sempre risalendo quella collina, barattando la cultura del presente con quella di un’altra decade.

Fin dal 2015, l’etichetta discografica di Habibi Funk, pseudonimo di Jannis Stürtz, è specializzata nella riedizione di musica dal mondo arabo degli anni ’60, ’70 e ’80. Con sede stabile a Berlino, Habibi Funk Records ha rilasciato negli anni musica dall’Algeria, Egitto, Libia, Marocco, Tunisia e Sudan, tra gli altri. Tra il 2016 e il 2020, inoltre, Habibi Funk Records ha ripubblicato la musica di tre maggiori influenze di Charif Megarbane: due album di Ahmed Malek (Musique Originale de Films e The Electronic Tapes), uno di Issam Hajali (Mouasalat Ila Jacad El Ard) e uno di Sharhabil Ahmed (The King of Sudanese Jazz). Le canzoni dell’album di Charif Megarbane tuttavia sono la primissima uscita contemporanea dell’etichetta berlinese. Ecco allora che i fantasmi di Ahmed Malek, Issam Hajali e Sharhabil Ahmed fanno ritorno al presente attraverso la musica analogica di Marzipan.

L’hauntologia araba di Charif Megarbane rappresenta come il tempo non sia “fuor di sesto” soltanto nel mondo occidentale ma anche in quello spazio che pur sempre esiste tra il mondo occidentale e quello arabo. In questo caso, lo spazio non-euclideo tra i due mondi non è nient’altro che Berlino. È infatti Berlino — non Beirut, Il Cairo, Khartum, o Tunisi — il luogo in cui Habibi Funk Records ha sede. È Berlino il luogo in cui il ritmo del passato, del presente e del futuro ritorna. Talvolta, comunque sia, il suono della musica non è più nemmeno quello di Beirut: la prima canzone inizia con un koto giapponese suonato alla maniera del “re del jazz sudanese” Sharhabil Ahmed.

La domanda è come rimettere il tempo al suo posto. L’altra domanda, ancora più difficile ma pur sempre in relazione alla prima, è come rimettere lo spazio al suo posto. “Il mondo è sottosopra”, “le monde est à l’envers” in francese, sarebbe un’altra traduzione possibile della citazione Shakesperiana, “the time is out of joint” (Shakespeare, 1954, I, v, 189), tradotta altrimenti come “il tempo è fuor di sesto” (e tra l’altro, discussa da Jacques Derrida nel primo capitolo di Spettri di Marx). 

L’hauntologia araba non è più soltanto un concetto che riguarda gli spettri del passato ma le fantasmagorie di un altro mondo. Come Habibi Funk ha dichiarato in un’intervista all’Independent, la musica dell’etichetta discografica è da analizzare in un contesto postcoloniale nel quale forme di scambio ingiuste e colonialiste sono rimosse, e nuove relazioni economiche (e politiche) prendono forma e sostanza. Inoltre, anche i luoghi comuni del Medio Oriente sono purificati dalla cultura delle immagini di Habibi Funk Records: niente più piramidi, niente più cammelli e niente più sfingi. Neanche il deserto del presente ma, al suo posto, una fotografia di una collezione privata e un mare di suono e luce. L’immaginario è sempre più che un’immagine, eppure è soltanto quando l’immagine del passato è modificata che un altro immaginario è possibile: quando la cultura del passato non è più né passata né presente, il presente stesso non può che diventare qualcos’altro. La musica di Habibi Funk Records non è perciò soltanto il suono della musica del passato nel presente ma quello che la musica del presente, nel bene o nel male, non può comunicare se non attraverso il passato. Quando il passato sarà cambiato, anche il futuro non sarà più lo stesso.

Habibi Funk Records è caratterizzata dalla sua nostalgia per il futuro. Allo stesso tempo, la nuova musica di artisti mediorientali come la musicista kuwaitiana Fatima Al Qadiri o il rapper e produttore palestinese Julmud è già il suono di un altro futuro. Il futuro inizia di nuovo. È la primavera araba digitale. Ascoltiamo, per esempio, la canzone “Falnukmel فلنكمل”, il primo singolo dell’album di Julmud Tuqoos | طُقُوس. Come ha scritto un recensore, “La libertà trasuda da Tuqoos, evadendo qualsiasi identificazione di genere con la stessa facilità di un artista che ha vissuto la propria vita spostandosi da una frontiera all’altra” (Gui, 2022). In Palestina, lo spazio e il tempo sono fuor di sesto dal 1948. Ma la musica sta cambiando. In contrasto con il suono passato dell’hauntologia araba, il futuro della musica palestinese è appena iniziato. I fantasmi del futuro ritornano nel mondo arabo. Il suono di un altro spazio e tempo che non esisteva nel presente è adesso riprodotto grazie alla tecnologia digitale. È ciò che Matt Bluemink, in una serie di articoli, ha chiamato “anti-hauntologia”, definendo una nuova sonorità che è tanto contro quanto oltre l’hauntologia. 

La parola falnukmel (فلنكمل) in arabo è tradotta in italiano come “continuiamo”. Se il suono di Habibi Funk Records è il suono di un futuro perduto, tra poco dovremo dire anche noi andiamo avanti.

 

Bibliografia

Bluemink, M. (2021). Anti-Hauntology: Mark Fisher, SOPHIE, and the Music of the Future. Blue Labyrinths.

Derrida, J. (1994). Gli Spettri di Marx: Stato del Debito, Lavoro del Lutto e Nuova Internazionale (Trad. G. Chiurazzi). Milano: Raffaello Cortina. (Opera originale pubblicata 1993).

Embley, J. (2018). Habibi Funk: The Label Dedicated to Reissuing Stereotype-Busting Sounds From the Arab World. The Independent.

Fisher, M. (2012). What is Hauntology? Film Quarterly, 66(1), 16–24.

Fisher, M. (2019). Spettri della Mia Vita: Scritti su Depressione, Hauntologia e Futuri Perduti (Trad. V. Perna). Roma: Nero (Opera originale pubblicata 2014).

Gui, J. (2022). Julmud, “Tuqoos | طُقُوس”. Bandcamp Daily.

Shakespeare, W. (1954). The Tragedy of Hamlet, Prince of Denmark. London: The Folio Society.

 

*La versione originale di questo articolo è stata pubblicata su Blue Labyrinths.

 

Alessandro Sbordoni è nato a Cagliari nel 1995. È l’autore di Semiotics of the End: On Capitalism and the Apocalypse (Institute of Network Cultures, 2023) e The Shadow of Being: Symbolic / Diabolic (2a edizione, Miskatonic Virtual University Press, 2023). Alessandro collabora con la rivista inglese Blue Labyrinths e la rivista italiana Charta Sporca. Vive a Londra e lavora per la rivista scientifica Frontiers.