Se possiamo dubitare del fatto che Internet non sia nato per rispondere a un’aspirazione utopica, possiamo però concordare sul fatto che abbia mostrato di possedere un certo potenziale in questo senso. Purtroppo, con il tempo, questo potenziale si è rivelato fallimentare. Che cosa è successo? In che modo i concetti di utopia e distopia vanno a scontrarsi con la realtà di Internet e le sue potenzialità politiche?

 

Il termine Utopia si riferisce a un luogo ideale e immaginario, socialmente perfetto. A partire dal ventesimo secolo, però, le utopie sono state più comunemente associate al comunismo e al socialismo di sinistra e ai regimi totalitari di destra. Ciò che accomuna tutti gli utilizzi del termine è il riferimento a politiche che «vogliono cambiare radicalmente il sistema» (Jameson, 2004, p. 35).

In ogni caso, destino delle utopie è rimanere incompiute, irrealizzate o, comunque, nella versione in cui un’utopia prendesse effettivamente forma sarebbe sempre estremamente distante dall’idea originale. Basti pensare, ad esempio, al decorso del comunismo dall’ideologia alla pratica. Dalla graduale scomparsa della divisione del lavoro e delle classi sociali (per come erano conosciute e delineate all’epoca di Marx), fino allo sgretolamento dello Stato e allo sviluppo di una sorta di internazionalismo sotto le spoglie di quella che chiamiamo globalizzazione, secondo il filosofo Maurizio Ferraris (2017, p. 96), stiamo assistendo al compimento di ciascuna delle caratteristiche fondanti del comunismo teorizzato da Marx. Ciononostante, la distanza tra l’utopia comunista originale e la società attuale non potrebbe essere più vasta.

Il motivo per cui le utopie non possono realizzarsi esattamente per come sono state concepite risiede in quello che lo scrittore e critico letterario Fredric Jameson (2004, p. 36) chiama «salto utopico», ovvero lo scarto tra il presente empirico e i meccanismi utopici di questo futuro immaginario. Per esempio, al giorno d’oggi, un programma veramente utopico proporrebbe l’occupazione universale e quindi un sistema in contrasto con la realtà capitalista dominante, che si sostiene grazie a una minaccia perpetua di disoccupazione nei confronti della maggioranza della popolazione. La realizzazione di un simile programma trasformerebbe il sistema per intero, ma, allo stesso tempo, per essere realizzato richiederebbe un sistema già trasformato, in grado quindi di accoglierlo e metterlo in pratica. L’occupazione universale potrebbe dunque essere raggiunta nel momento in cui coloro che detengono il potere per attuarla cambiassero ideologia e priorità, o se qualcun altro, qualcuno che creda nell’occupazione universale, li sostituisse. Per questo motivo si tratta di un programma utopico: non può mai essere messo in pratica, ma il suo valore risiede nel portare in superficie i limiti ideologici del sistema in cui siamo intrappolati. Non bisogna dimenticarsi che alla base dell’impraticabilità dell’utopismo c’è il fatto che le utopie derivano sempre da determinate ideologie. Nessuna classe sarà mai disposta a rinunciare ai principi costitutivi della propria identità e ideologia per il raggiungimento di progetti politici più elevati (Ivi, pp. 36-40).

Quale può essere perciò il lato positivo di aspirazioni così poco pratiche? Secondo la prospettiva di McKenzie Wark (2014), autrice e accademica, in un mondo falsato, l’Utopia simboleggia la verità e ricoprirebbe quindi una funzione rivelatoria. Avendo origine in periodi di immobilità politica, le utopie ci rendono più consapevoli del presente e forniscono gli strumenti per leggerne la chiusura e i limiti ideologici. Sono da interpretare come la calma prima della tempesta, o meglio prima delle agitazioni sociali e dei grandi cambiamenti (Jameson, 2004, pp. 42-45). Si può quindi affermare che le utopie svolgano la funzione di misurare gli umori e le temperature di determinati gruppi sociali in determinati momenti. Nonostante siano ancorate a periodi storici precisi, si estendono idealmente oltre gli stessi, all’infinito nel futuro, irrealizzate, grazie al potere dell’immaginazione.

Inoltre, in Anarchia, Stato e Utopia, Robert Nozick (1974, p. 312) descrive le utopie come luoghi in cui le persone sono libere di unirsi volontariamente per cercare di raggiungere la loro versione di una vita migliore, ma in cui nessuno può imporre a nessun altro la propria visione utopica. Questa definizione rinforza il concetto dell’Utopia come un’entità figurativa, senza però negarne il legame con la realtà da cui si origina. Come sostiene Jameson (2005, p. 15), le utopie sono «una specie di enclave, un’oasi territoriale immaginaria all’interno di spazi sociali reali» – per cui il termine immaginaria si pone in contrapposizione a uno spazio fisico – che riflettono le dinamiche degli spazi sociali entro cui si trovano, senza che queste le condizionino. È importante qui aggiungere una piccola parentesi sul fatto che l’enclave utopica si fa teatro della comparsa di nuove soggettività, in quanto una stessa persona si trova ad abitare diversi “mondi sociali” contemporaneamente; di conseguenza, una molteplicità di soggetti multipli influenza la dimensione collettiva, sia all’interno dell’Utopia sia al suo esterno. 

 

Internet come Utopia (?)

Tanti dei caratteri fondamentali del concetto di Utopia sopra riportati sono facilmente identificabili anche quando si parla di Internet, soprattutto per quanto riguarda Internet degli albori, un momento storico segnato dall’ottimismo e dalla fiducia nelle potenzialità della rete.

La storia delle origini di Internet è ormai conosciuta, ed è anche risaputo che sia stato concepito inizialmente a servizio del complesso militare-industriale americano (Beranek, 2000). Ciononostante, nel 1996 John Perry Barlow, fondatore della Electronic Frontier Foundation, pubblicò la Dichiarazione per l’indipendenza del cyberspazio, a sostegno di «un mondo dove tutti possano entrare senza privilegi e pregiudizi basati su razza, potere economico, militare o stato sociale», un mondo che superi l’alienazione e i governi «del Mondo Industriale, stanchi giganti di carne e acciaio» (Barlow, 1996).

Con gli anni e con la sua transizione a servizio pubblico, Internet ha certamente rivelato di possedere un potenziale utopico. Innanzitutto, il web supera i limiti fisici e geografici degli Stati Nazione – e più in generale di qualsiasi giurisdizione locale – e implica una sorta di «gestione senza governo» (governance without government secondo la dicitura originale in inglese): i network digitali rafforzano gli utenti e il loro potere, ma sono allo stesso tempo dipendenti da meccanismi di controllo. In altre parole, ciò che costituisce l’autorità nel contesto degli spazi digitali, fornirebbe parallelamente gli strumenti per distruggerla (Paul, 2006). Internet è quindi aperto alla partecipazione, ma ci sono delle regole di accesso (Ibidem). 

Inoltre, Internet è diventato una forma di spazio pubblico a sé, retto da sistemi di comunicazione che permettono a loro volta la creazione di gruppi comunitari. A tal proposito, la rete è utilizzata come un “legante” per comunità, i cui membri sono costantemente coinvolti e le persone sono in grado di formare relazioni «intime e disincarnate» (Bogost, 2006; Turner, 2006, p. 162). In un certo senso, Internet presenta alcune caratteristiche dello spazio pubblico fisico, con la differenza che appaiono qui potenziate. Non a caso, un altro termine usato per definirlo è «networked commons» (una possibile traduzione in italiano sarebbe beni comuni interconnessi), a indicare la sua rassomiglianza a uno spazio pubblico, proprio perché trae dal significato originale l’idea di un territorio pubblico ad uso comune, uno «spazio di risorse condivise» (Paul, 2006).

Riassumendo, il carattere utopico di Internet risiede nei seguenti fattori: il fatto che sia – o meglio fosse inizialmente – soggetto a regolamentazioni proprie, autoctone; la sua virtualità e quindi l’essere disgiunto, almeno in teoria, da qualsiasi localizzazione fisico-geografica; infine, conseguentemente alla sua localizzazione in un luogo “altro”, la possibilità di facilitare la creazione di nuove soggettività e gruppi di persone che altrimenti non si incontrerebbero mai. È facile notare la vicinanza con l’idea di Utopia come un’enclave distinta dalla realtà circostante, non più immaginaria, bensì virtuale e costruita a partire da una forte base ideologica.

A questo punto, è necessario puntualizzare che Internet, come tante altre utopie prima di esso, è semplicemente fallito. Come già detto, negli anni ha mostrato il suo potenziale utopico, regalando ai suoi utenti un assaggio di cosa volesse dire vivere e utilizzare uno spazio del genere, ma nel frattempo ha sempre più preso le somiglianze del mondo reale, arrivando addirittura ad adottare le sue regolamentazioni e i suoi meccanismi sociali. Internet è riuscito perfino a incarnare l’essenza dell’Utopia per eccellenza, ovvero quella descritta da Thomas More nell’omonimo testo del 1516, attraverso un processo di standardizzazione. Su quell’isola perfetta, infatti, non potevano esistere divisioni o conflitti, in quanto tutto è, appare e funziona allo stesso modo, dovunque (Jacobs, 1996). Oggi, grazie alla precisione algoritmica che regola le nostre azioni in rete, si ha un po’ la stessa sensazione, quella di una sovrabbondanza di contenuti tutti uguali, tutti dello stesso tipo e soprattutto di una formattazione obbligata di come abitare lo spazio virtuale. Dalla standardizzazione utopica a una perdita di diversità a dir poco dannosa, il passo è stato breve. 

Inoltre, si è assistito alla colonizzazione di questi beni comuni interconnessi da parte di aziende e multinazionali del mondo reale (Paul, 2006; Lovink, 2002); alla difficoltà nel raggiungimento di una diffusione equa e accessibile del servizio a tutta la popolazione mondiale e a tutti i gruppi di popolazione (Luger, Zebracki, 2019); alla replica di comportamenti violenti e discriminatori sulle piattaforme online (Baer, 2016) e infine alla perdita della dimensione privata (Lovink, 2022, p. 32). Questi sono solo alcuni esempi della trasformazione della rete: se inizialmente dunque funzionava come un vero e proprio enclave utopico, con il tempo questo spazio sociale alternativo è stato assoggettato allo spazio sociale circostante. 

Negli ultimi trent’anni, Internet è passato dall’essere un’Utopia in contrapposizione alla realtà distopica da cui è stato generato, al diventare esso stesso una Distopia virtualmente infinita, secondo un processo entropico che è ormai giunto all’estremo, tanto da ottenere l’appellativo di Internet dell’Estinzione (Extinction Internet) (Ibidem). L’Internet di oggi segna la fine di un’epoca di immaginazione collettiva in cui nuove strutture sociali sia verticali sia orizzontali si sono rivelate opzioni verosimilmente percorribili (Ibidem). 

Nonostante però Internet si sia trasformato in uno spazio fortemente contraddittorio, essendo contemporaneamente un luogo di «emancipazione e formazione identitaria» e di sorveglianza e auto-controllo (Baer, 2016, p. 24), e costituendo al contempo la fonte di intossicazione e la soluzione – un pharmakon, come lo definirebbe Geert Lovink (2022, p. 15) –, continua a rappresentare uno spazio adatto all’azione pubblica. Rimane cioè un luogo pubblico e di aggregazione per qualsiasi motivazione e scopo, per chiunque, anche per le persone più distanti geograficamente (Luger, Zebracki, 2019, p. 904). Anche se un altro Internet ormai non appare più possibile, bisogna pretendere e riappropriarsi di un futuro migliore, una rete non più serva dell’ottimizzazione, della produttività e non più assoggettata alle logiche di potere e di mercato dominanti; una rete diversificata, “noiosa” e senza scopo (Lovink, 2022, p. 42). Se le Utopie si sviluppano in momenti di stabilità politica, che ne permettono un’analisi e preparano il terreno per una futura agitazione, allora adesso, non di certo un momento stabile, è sicuramente il momento di agire.

 

 

 

What Now? The Internet from Utopia to Dystopia

 

The term ‘Utopia’ commonly refers to an imaginary, ideal place that is socially perfect. After the 20th century, however, Utopias have come to be associated with communism and socialism on the left, and with totalitarian regimes on the right. Overall, this use of the term implies a «politics which wishes to radically change the system» (Jameson 2004, p. 35). 

However, in all cases, Utopias remain unrealised, or unfulfilled. More accurately, realised versions of Utopias are always extremely distant from the original ideas. The realisation of communism constitutes a striking example of this. According to philosopher Maurizio Ferraris (2017, p. 96) we are now witnessing one by one the main features of Marx’s original theorisation of communism being achieved or realised: from the disappearance of the division of labour, and of social classes (as known in Marx’s time), to that of the State and to the establishment of a form of internationalism under the resemblances of globalisation. Nonetheless, the distance between the original communist Utopia and the society of today is extremely wide. 

Utopias can never be fully realised as they were conceived, because of the so-called «utopian leap», defined by writer and literary critic Fredric Jameson (2004, pp. 36-40) as the gap between «the empirical present and the utopian arrangements of this imaginary future». The author gives an emblematic example: in our times, a true utopian program would be demanding universal full employment. Such a system goes against the current capitalist economy that sustains itself on the threat of unemployment shared by the majority of the population. Its realisation would transform the system completely, but at the same time, it would require it to have already changed. In other words, full employment can be put into place only if those who currently hold the necessary power change mindset and ideologies, or if someone else, someone who believes in full employment, substitutes them. This is why this project can be characterised as utopian: it can never be brought into action, but still holds a significant value in revealing the ideological closure of the system in which we are trapped. We cannot forget that at the root of the impracticality of utopianism lies the fact that Utopias always stem from specific ideologies. As a result of what Theodor Adorno defines the instinct to self-preservation, no class formation will ever agree to renounce the principles constituting their consciousness and ideology for the attainment of higher political projects (Jameson, 2004, pp. 36-40). 

How can we frame such impractical aspirations in positive terms, then? From writer and scholar McKenzie Wark’s perspective (2014), «in a world that really is falsified, the Utopian is the false figure of the true». This idea highlights the eye-opening quality of Utopias. Originating in times of political stillness, they make us more aware about the present and able to read it in terms of its ideological closedness and boundaries. Utopias should be conceived of as the calm before the storm, before the taking place of social agitation and actual change (Jameson, 2004, pp. 42-45). Hence, it is possible to stress the value of Utopias, documenting the moods and the needs of smaller or larger parts of the population during a specific time. They are anchored in and intrinsically connected to a moment in history, but their imaginary qualities allow them to extend beyond fixed historical timeframes, and ideally exist forever, unrealised. 

Ultimately, Robert Nozick, in Anarchy, State, and Utopia (1974, p. 312), talks about Utopias as being places «where people are at liberty to join together voluntarily to pursue and attempt to realize their own vision of the good life in the ideal community but where no one can impose his own utopian vision upon others». This definition reinforces the notion of Utopias as figurative entities, without negating their rootedness in the ‘real’ world. As Fredric Jameson has argued (2005, p. 15), they are «imaginary enclaves within real social space» – with the term imaginary standing in opposition to physical spaces – where the dynamics of the surrounding social space are reflected without necessarily affecting them. It is important to add here that utopian enclaves allow for the emergence of new subjectivities, in that the same person inhabits “multiple social worlds” simultaneously; furthermore, different subjectivities impact the dimension of collectivity, which is perceived both internally – within the imaginary spaces of Utopias – and externally. 

 

The Internet as Utopia (?)
A lot of the fundamental aspects defining Utopias, here mentioned, are easily found within the public Internet, and especially in its very beginning, when a sense of optimism and hope for the potentialities of the net were still diffused and commonly agreed upon.

We are well aware of the history of this service, and of its original purpose to serve the American military complex (Beranek, 2000). Yet, in 1996, information technology journalist and pundit John Perry Barlow published the Declaration for the Independence of Cyberspace, advocating for a world “that all may enter without privilege or prejudice accorded by race, economic power, military force, or station of birth”, a world superseding alienation and nation states governments (Barlow, 1996). 

While we can argue that the Internet is not utopian in its inception, with the years and its transition to a public service, it has certainly disclosed utopian potential. First of all, it supersedes the physical, geographical limitations of the nation-state and implies what Christiane Paul (2006) calls «governance without government»: digital networks follow a both/and structure of empowering the user while being determined by control mechanisms. In other words, what constitutes authority, holds at the same time the tools for dismantling it. Internet is open to public participation, but has rules of access (Paul 2006). 

Moreover, the Internet has become a form of public space, functioning according to communication systems that enable the generation of communities. In this regard, the Internet is often employed as a “bonding agent” for communities of «constantly-involved constituents» where people are able to form «intimate, disembodied connections» (Bogost, 2006; Turner 2006, p. 162). In a way, the Internet reproduces some features of the physical public space, with the possibility to enhance them. It is no coincidence then, that another way of defining it, is “networked commons” recalling its likeness to the public space. As a matter of fact, the term draws from its original meaning the idea of a public territory available for common use, a «space of shared resources» (Paul, 2006). 

Thus, what makes it utopian is the fact that it is – or better, was – subject to its own regulation; its virtuality and therefore its being independent, at least theoretically, from any geographical location; finally, being located in a space that is ‘other’ and non-physical, fostering subject-formation and collectivity between people that would otherwise never meet. From this viewpoint, the Internet finds itself close to the definition of Utopias as an enclave separated from its surrounding reality, not imaginary anymore, but virtual rather and built upon a strong ideological basis. 

At this moment, we should point out that the Internet, like many other Utopias have done before, simply failed. As mentioned above, with the years it has come to display its utopian potential, by providing its users with a glimpse of what being in such a space would feel like, but on another hand, it has also come to mirror the physical, “real” world and its rules. The Internet even succeeded in embodying the essence of the Utopia-par-excellence, the one described in Thomas More’s 1516 eponymous text, through a process of standardization. On that perfect island, conflict could not exist, since everything was, appeared and worked the same, everywhere (Jacobs, 1996). Today, thanks to perfect algorithms regulating our online interactions, the feeling is kind of the same: there’s an overabundance of identical content, all of the same type and our existence inside this virtual space is formatted to be all the same. From utopian standardisation to a damaging loss of diversity, it’s been too short of a step. 

We came to witness the colonisation of the networked commons by real-world corporations (Paul 2006; Lovink 2002); the difficulty in achieving equal accessibility for users from all over the world and of all social groups (Luger, Zebracki 2019); the replication of discriminatory and violent behaviours in online spaces (Baer 2016); and ultimately, the loss of private space (Lovink, 2022, p. 32). These are only some examples of the transformation the net has undergone. Hence, if in the beginning it functioned like an actual utopian enclave, with time this alternative social space became subjected to the surrounding, pre-existing social space.

In the last thirty years, the Internet went from being a Utopia in contrast with the dystopian reality that generated it, to becoming a virtually endless dystopia in itself, following an entropic process already brought to the extreme. So much so that we can now talk of an «Extinction Internet [marking] the end of an epoch of collective imagination that in many ways demonstrated how alternative vertical and horizontal technological arrangements were possible» (Lovink, 2022, p. 32).

However, while the Internet may now be a deeply contradictory place, being both a site «of empowerment and identity formation» and «of surveillance and self-monitoring» at the same time (Baer 2016, p. 24); while being the «both toxic and curative» – a pharmakon, in Geert Lovink’s words (2022, p. 15) – it continues to provide the possibility for carrying out public actions. It still functions as a public locus bridging people together, even the most geographically remote, for any sort of reason and purpose (Luger and Zebracki, 2019, p. 904). Even if another Internet no longer seems possible, we need to reclaim and “squat” the future for the better, for a web no longer subjected to optimisation and productivity and no longer enslaved by the dominant logics of power and the markets; a diversified net, “bored” and pointless (Lovink, 2022, p. 42). If Utopias are developed in times of political stillness, allowing the time to reflect and making the grounds for future agitations, then now, not a moment of stability, is the time to act.

 

 

 

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Jael Arazi

Jael Arazi è una curatrice e creativa originaria di Milano. Dopo essersi diplomata in Pittura e Arti Visive alla NABA di Milano, si è trasferita a Londra, dove ha conseguito un MFA in Curating alla Goldsmiths University. È co-curatrice del progetto multidisciplinare In Lucid Dreams We Dance, sostenuto dall’Italian Council (2022), che comprende un programma di eventi e la pubblicazione di una zine sui temi di condivisione, senso d’appartenenza ed elementi rituali nel contesto fisico e relazionale del club e della musica elettronica. La sua pratica curatoriale si posiziona sulla sottile linea che separa la realtà fisica da quella digitale, analizzandone i risvolti sociali e le potenzialità politiche, con un particolare interesse per le ricerche artistiche audiovisive. Ha curato mostre sperimentali a Londra (2021-2022) e un programma di screening online sulla piattaforma Covideo (2021).