Fino a che punto Internet influisce oggi sulla formazione dei rapporti interpersonali e ne regola le dinamiche?

 

«Il processo per cui [gli elementi] diventano compatibili attraversa campi eterogenei dell’essere e li ripiega sul principio di connettività» (Berardi, 2011, trad. mia).

 

Nel 2023, dopo una pandemia che ha costretto gran parte della popolazione mondiale a stare chiusa in casa e affidarsi a forme virtuali e digitali di interazione, ci ritroviamo ad aver sperimentato un’esperienza di digitalizzazione totale della vita. Lungi dalla pandemia lasciata alle nostre spalle, l’accelerazione e l’esperienza lasciano dei segni attivi e indelebili nel presente. Forse siamo cambiati, forse percepiamo la mediazione tecnologica sotto nuove vesti ancor più normalizzate di prima. A seconda della disciplina, esistono diverse definizioni del termine “mediazione”, come qualcosa che ha a che fare con un mezzo, una forma di comunicazione o un incontro. A volte il termine è legato a un desiderio o a una visione critica della vita come forma di merce. In questo caso, la mediazione va intesa come una «organizzazione della vita in prossimità di fantasie di appartenenza e unione» (Cohen, 2017, p. 11, trad. mia) per mano di onnipresenti interfacce o dispositivi tecnologici. In un’ottica di coesione e avvicinamento, non è chiaro se le tecnologie – più precisamente Internet, i social network, e gli algoritmi – svolgano il ruolo di facilitatori o disturbatori.

In After the Future (2011), Franco ‘Bifo’ Berardi traccia una «transizione da un regno della congiunzione a uno della connessione» riferendosi all’espansione della rete digitale fino a diventare un modello per la formazione dei rapporti sociali. Questa espansione avviene tramite la standardizzazione di un numero sempre maggiore di elementi, attraverso la loro riduzione a un formato che sia più facilmente replicabile e diffondibile. Nella connessione interagiamo, o per meglio dire “inter-operiamo”, soltanto con gli elementi del corpo sociale “compatibili” con noi e in maniera funzionale. 

La maggior parte delle relazioni umane si forma in questa maniera nell’attuale contesto  tecnocratico, caratterizzato da «una intellettualizzazione dei legami intimi» (Illouz, 2007, p. 34, trad. mia) in funzione di un progetto più grande, ovvero la comunicazione dei propri bisogni, obiettivi ed emozioni per stabilire o migliorare i rapporti interpersonali. Oltre a essere tecnocratica, la società di oggi si erge su un sistema che Eva Illouz chiama «capitalismo emotivo» (ivi, p. 5), un modello in cui le sfere economiche e quelle emotive si influenzano a vicenda, diventando interdipendenti. Tra le maglie di tale contesto, le emozioni diventano qualcosa da controllare, amministrare e utilizzare a seconda delle necessità, mentre le relazioni si trasformano in strumenti di auto-affermazione per navigare meglio in questo oceano ghiacciato.

In questa freddezza emotiva, le piattaforme giocano un ruolo importante nella produzione di tale raffreddamento. Le relazioni online passano necessariamente attraverso i social, evoluzione estrema del Web 2.0 che ha introdotto l’interazione tra gli utenti. Una volta internet era uno strumento nelle nostre mani, ora gli strumenti siamo noi e le mani sono quelle di grandi compagnie che traggono profitto tramite le nostre attività online. Se fisicamente le possibilità di contatto e comunicazione sembrano essere più caotiche, casuali e per questo potenzialmente interessanti, il digitale illude di poterle moltiplicare quasi all’infinito, ma soprattutto ci illude che si tratti di una prospettiva globale, la stessa che potremmo incontrare per strada, mentre nella realtà dei fatti si tratta di una prospettiva altamente locale, o più precisamente “localizzata” e facilmente manipolabile. Basta pensare alla facilità con cui gli algoritmi regolano la nostra attività online, fornendoci contenuti “rilevanti” e fatti su misura dei nostri presunti interessi «in una continua routine autoreferente» (Campanelli, in Lovink, 2016) – a questo proposito, si potrebbe parlare addirittura di algocrazia. Incontriamo solo utenti che condividono i nostri interessi, gli hobby, l’estetica e il livello culturale. Piano piano ricadiamo dentro i limiti di categorie ben definite di profili stereotipati, confinati dentro una bolla di individui le cui affinità appiattiscono ogni unicità soggettiva: con una metafora geometrica, Kris Cohen ci paragona a delle linee parallele «che procedono insieme ma non si incontrano» (2017, p. 4, trad. mia). 

Come già individuato in precedenza, queste implicazioni digitali fluiscono e regolano anche le interazioni sociali fisiche, così finiamo per frequentare posti, fruire di eventi e conoscere persone a partire dai consigli algoritmici. La connessione favorisce dunque un tipo di relazione sbilanciato: interagendo soltanto con gli elementi compatibili, i soggetti stabiliscono delle relazioni per adempiere a uno scopo, o perlomeno a una premessa di partenza. 

Le app di dating e le chatroom incoraggiano in particolar modo questo tipo di scambio: ciascun utente è consapevole di quello che l’altra persona vuole, almeno in apparenza. Se la conversazione diventa noiosa, basta disconnettersi o aprire una nuova chat. Quando i rapporti sociali si basano su un processo mediato così freddo e razionale, le relazioni anche al di fuori del digitale subiscono lo stesso effetto fino a essere intellettualizzate. I social network hanno esasperato la pratica dell’utile nelle relazioni, che vengono però esperite quasi interamente in forma potenziale: potrei contattare questa o quell’altra persona in caso mi servisse o se lo volessi, ma non lo farò (Lovink, in Aranda, Wood e Vidokle, 2015, p. 174). Una serie di linee parallele che non si incontreranno mai, appunto.

La dimensione collettiva sta sparendo dalle nostre vite. Già nel 2010, una meta-analisi di dati sull’empatia provenienti da settantadue ricerche sugli studenti universitari1 riportava un quasi totale disinteresse da parte dei giovani nei confronti degli altri che li circondano. Sono distaccati e non comprendono appieno il valore dell’interazione al di fuori dei loro dispositivi, se non per uno scopo preciso. Facciamo parte di un contesto sociale e generazionale dettato dal modello connettivo. I nativi digitali vivono in una condizione paradossale per cui si cresce «connessi tutto il giorno, ma insicuri di aver comunicato» e confusi riguardo al significato di stare in compagnia (Turkle, 2011, p. 17, trad. mia) . Si passa da essere animali sociali che dovevano scegliere quando stare soli a individui che devono scegliere quando stare in compagnia (Floridi, 2022). 

 

IL TOXOPLASMA DELLA RABBIA

La diffusione capillare delle piattaforme social e dei loro meccanismi nella quotidianità di ciascuno di noi ha portato a un’altra conseguenza estrema che impatta sulla capacità di stare insieme, ovvero la cancellazione dell’idea dell’Altro. Una crescente intolleranza si respira sia online sia offline, un sentore di odio che straborda e sfuma tra una dimensione e l’altra. Il processo di omologazione universale e appiattimento della molteplicità tramite le bolle algoritmiche ha fatto progressivamente scomparire la dimensione di dibattito e confronto (che caratterizzava il Web 2.0 dei blog e dei forum) riconvergendola in puro odio tra “fazioni” di pensiero. Dopotutto, nel capitalismo emotivo una delle emozioni più forti e remunerative è proprio l’odio. L’espressione – o meme testuale – “Toxoplasma of Rage” indica proprio la facilità con cui contenuti provocatori e divisivi vengano favoriti dagli algoritmi delle piattaforme, diffondendosi a macchia d’olio (Lovink, 2023). Ed è precisamente in questo senso che oggi il giornalismo mainstream non ricerca tanto il valore e la qualità del contenuto quanto la sua capacità di creare interazione, spesso attraverso l’odio reciproco degli utenti. In un certo senso, tutto questo linguaggio che comprende l’architettura dell’informazione, il contenuto e l’interazione degli utenti, non è qualcosa di davvero attivo e pensato, quanto più un qualcosa che è parlato dall’algoritmo stesso che influisce e costruisce produzione e connessione di e tra questi fattori. 

L’odio diffuso su Internet oggi non cerca la sfida con l’avversario a cui è rivolto, ma solo una vana e inconcludente forma di interazione aggressiva e divisiva, coadiuvata ulteriormente dalla targettizzazione algoritmica che localizza e individualizza la visione di ogni soggetto, dandogli l’impressione che ciò che pensa non è tanto un suo parere quanto una verità oggettiva e inoppugnabile. 

 

IMPRECISIONE, IMPREVEDIBILITÀ, IMPERFEZIONE

Ma cosa succederebbe se queste bolle scoppiassero e i vari individui precedentemente raggruppati si spargessero nel contesto sociale? Cosa succederebbe se si mischiassero, magari costretti a interagire con esseri umani le cui mentalità divergono, con elementi “non compatibili”, con quelle che prima erano solo altre linee parallele? La risposta è: la congiunzione. Non una conseguenza del fallimento della connessione, la congiunzione è piuttosto un contesto in cui delle relazioni inter-umane organiche possono essere create. Nella congiunzione, termini quali inter-operabilità, interfaccia o compatibilità non possono essere applicati, al contrario della connessione (Berardi, 2011). Le singolarità non vengono annullate per assolvere qualche funzione algoritmica, ma possono continuare a esistere e mescolarsi liberamente per scoprire nuovi significati dell’essere generati esclusivamente da questa mescolanza. La congiunzione si contrappone alla connessione con l’amore e con il suo calore. 

Anche in un tempo di connessione, la congiunzione esercita un’attrazione magnetica. In fondo, il bisogno di intimità e affetto degli esseri umani può sì essere rimodellato, modificato, manipolato, ma non può essere eliminato. In questo senso, la mediazione tecnologica può essere sia una minaccia sia una benedizione nel ritrovare l’intimità all’interno dell’attuale contesto della connessione. Se la mediazione è una questione di organizzazione della vita, allora tutto dipende da come la vita viene organizzata. Una nuova intimità potrebbe essere stabilita, un’intimità che venga dalla generazione connettiva e che possa generare una forma di congiunzione dentro la connessione, attraverso un utilizzo critico di appropriazione delle tecnologie, facendo riferimento alla singolarità che possediamo a prescindere dalle manipolazioni algoritmiche. 

Nei casi più estremi, al contrario, Geert Lovink (2023) auspica per il tradimento definitivo della piattaforma, il suo abbandono totale, parlando proprio di «estetica della sparizione» e di «Esodo dalle piattaforme» per poi istituire la rinascita «degli strumenti di social networking non incentrati sul profilo bensì guidati dall’affinità». Il fulcro del progetto sarebbe la ricostruzione di Internet come infrastruttura pubblica, ripensando dunque il modo in cui le tecnologie impattano sulle vite dei cittadini ed eliminando il coinvolgimento di grandi aziende come Google o Meta dagli organismi di regolamentazione di internet. In altre parole, ergere una nuova rete sulle macerie di quella attuale come strumento utile alla socialità, in funzione di meccanismi e dinamiche umane e non prettamente commerciali, lontana dai profitti. Sarebbe davvero possibile? 

 

Note

1  Questa meta-analisi fu condotta nel 2010 dalla ricercatrice Sarah Konrath e dagli studenti Edward O’Brien e Courtney Hsing per l’Institute for Social Research dell’Università del Michigan combinando i risultati di 72 diversi studi sugli studenti universitari statunitensi, del periodo 1979-2009. Vedi: https://www.eurekalert.org/news-releases/633340.

 

 

From Conjunction to Connection. Contemporary inter-acting.

To what extent does the Internet affect the creation and regulation of interpersonal relationships?

 

«The process whereby [the elements] become compatible traverses heterogeneous fields of being and folds them onto a principle of connectivity» (Berardi, 2011).

 

In 2023, after a pandemic that forced the majority of the global population to be locked at home and to rely on virtual and digital forms of interaction, we realise we have experienced the total digitisation of our lives. Away from this outrun pandemic, these acceleration and experience leave indelible marks still active in the present. Perhaps we have changed, perhaps we perceive technological mediation in a new guise that’s even more normalised. Different disciplines provide different definitions of mediation, as something to do with a medium, a form of communication or encounter. It is sometimes linked to desire or to a critique of life as commodity form. In this case, mediation is intended as «an organization of life in proximity to fantasies of belonging and togetherness» (Cohen, 2017, p. 11) at the hand of an ever-present technological interface or device. It is yet unclear whether digital technologies – Internet, social networks and algorithms – play the role of aides or jammers in bringing people closer together.

 In After the Future (2011), the writer and philosopher Franco ‘Bifo’ Berardi traces a «transition from a realm of conjunction to one of connection» referring to how the digital web has expanded and become a model for the forming of human relationships. This expansion goes through the standardisation of an increasing number of elements, reducing them to a format that is easily reproducible and diffusible. In connection, we interact, or better we “inter-operate,” only with compatible elements of the social body in a functional way that is not organic anymore.

 Most of human relationships begin in this way in the present technocratic condition, characterised by «an intellectualization of intimate bonds» (Illouz, 2007, p. 34) to attain to a greater objective, that is the communication of one’s needs, goals, and emotions in order to establish or improve interpersonal relationships. Not just technocratic, this society is based on a system called «emotional capitalism» (Illouz, 2007, p. 5), where economic and emotional spheres are interdependent, influencing and affecting each other. Within this context, emotions become something to be controlled, administered and used according to the necessities, while relationships are transformed into tools of self-affirmation to navigate this frozen ocean.

 Platforms play a pivotal role in the cooling process of this emotional coldness. Online relationships inevitably move across social networks, the result of an extreme evolution of Web 2.0 which introduced the possibility for Internet users to interact directly online. The Internet was once like a utensil in our hands, while now we are the tools and the hands are those of the big companies profiting from our activity online. While the chaotic, accidental quality of physical contact and communication make them potentially more interesting, the digital misleads us into thinking they can be endlessly multiplied; we feel immersed in a global perspective, almost like the one we adopt on the road, while it’s just a highly local, or better “localised” and easily manipulated one. Just think about how easily algorithms regulate our online activity, providing us with “relevant” content tailored to our supposed interests «in a continuous self-referential routine» (Campanelli, in Lovink, 2016, my translation) – to the point that we could start speaking of an algocracy. We only come across users who share our interests, hobbies, aesthetics and cultural level. Slowly, we fall into the limits of well-defined categories of stereotyped profiles, confined within a bubble of individuals whose similarity flattens out all subjectivities: our geometry «is not that of the intersecting line but of the parallel, that which proceeds together but does not touch» (Cohen, 2017, p. 4).

 These digital implications flow and impact physical social interactions, so we wind up hanging around certain places, attending certain events and meeting certain people following algorithmic suggestions. Connection thus favours a skewed type of relationship: by interacting with compatible elements only, people establish bonds just to fulfil a purpose or meet an expectation.

 Dating apps and chatrooms especially encourage this kind of exchange: each user is aware of what they want from the person on the other side of the screen. If the conversation’s boring, we can disconnect or open a new chat. When social relations are based on such a cold and rational mediated process, non-digital relations undergo the same effect until they become intellectualised. Social networks exacerbated the fruitful aspect of bonding; at the same time, relationships are only experienced in potential form: I could contact this person in case I needed it, or wanted it, but I won’t (Lovink, in Aranda, Wood and Vidokle, 2015, p. 174). A series of parallel lines that will never meet, indeed.

 The collective dimension is disappearing from our lives. A 2010 meta-analysis of data on empathy from seventy-two studies on college students1 already reported how young people are almost entirely disinterested in others around them. They are detached and don’t see the point of interacting outside of their devices, if not for a clear purpose. We are part of a social and generational context dictated by the connective model. Digital natives paradoxically grow up being «connected all day, but [unsure] if they have communicated» and confused about the meaning of companionship (Turkle, 2011, p. 17). From social animals who needed to choose when to be alone, we have transitioned into individuals who need to choose when to socialise (Floridi, 2022).

 

TOXOPLASMA OF RAGE

The widespread distribution of social platforms and of their mechanisms into our everyday life has led to another dire consequence impacting our ability to be together, that is the erasure of the idea of the Other. Online we breathe an increasingly intolerant air, the smell of hate overflowing between the digital and the physical. The process of universal standardisation and flattening of multitudes through algorithmic bubbles gradually caused the disappearance of debates and discussions – which characterised blogs and forums on Web 2.0 – turning them into pure hatred between “factions” of thought. In emotional capitalism hatred is one of the strongest and most fruitful emotions, after all. The expression – or, textual meme – “Toxoplasma of Rage” precisely points to how easily provocative and divisive content is favoured and pushed by algorithms on various platforms (Lovink, 2023). Within this frame, it becomes clear how mainstream journalism today doesn’t value the quality of content as much as its ability to generate interactions, often through reciprocal hate between users. In a way, all this language that includes the architecture of information, the content and the interaction of users is not really active or thought through, rather it is spoken by the algorithm itself, which produces and connects these factors.

 The hate we witness on the Internet today does not look to challenge an opponent, but it just researches a vain and inconclusive form of aggressive and divisive interaction, further supported by the targeting of algorithms which localises and individualises all subjective visions, making them look like the objective, unconfutable truth, every time.

 

INACCURACY, UNPREDICTABILITY, IMPERFECTION

But what happens when the bubbles burst and the various previously-grouped individuals are scattered in the social context? What happens when they mix, maybe forced to interact with unlike-minded human beings, with “non-compatible” elements of the social body, formerly parallel lines? The answer is: conjunction. Not a consequence of the failure of connection, conjunction rather is a framework for organic inter-human relationships to be created. Contrary to connection, in conjunction terms like inter-operability, interfacing or compatibility do not apply (Berardi, 2011). Singularities are not cancelled in favour of some algorithmic function, they can exist and blend freely to uncover new meanings of being, exclusively generated by this mixture. Conjunction counters connection with love and its warmth.

 Even in a time of connection, conjunction exerts a magnetic pull. In the end, the human need for intimacy and affection can be reshaped, modified, manipulated, but it cannot be erased. In this sense, technological mediation can be both a threat and a blessing to restore intimacy in the current context of connection. If mediation is a matter of “organising life,” then it all depends on how this life is organised. A new intimacy could be established, an intimacy coming from the connective generation that could produce a form of conjunction within connection, through the critical application and appropriation of digital technologies, with respect to the singularity we own regardless of algorithmic modelling.

 In the more extreme cases, on the contrary, Geert Lovink (2023, my translation) incites the definitive betrayal of the platform and its total abandonment, speaking of an «aesthetic of disappearance» and of «Platform Exodus» in order to establish new «tools of social networking not centred on the profile but rather moved by the principle of affinity». The focus of the project is to rebuild the Internet as a public infrastructure, thus rethinking the way in which technologies impact on citizens’ lives and eradicating the involvement of big companies such as Google or Meta from Internet regulatory organizations. In other words, raising a new net from the ashes of the current one, as an instrument for sociability that could work according to dynamics that are primarily human and not commercial, away from profits. Could it be possible?

 

Notes

1  This meta-analysis was conducted in 2010 by researcher Sarah Konrath and students Edward O’Brien and Courtney Hsing for the University of Michigan’s Institute for Social Research, combining the results of 72 different studies on American college students conducted between 1979-2009. See: https://www.eurekalert.org/news-releases/633340.

 

 

Bibliografia

Berardi, F. (2011), After the Future. AK Press, Oakland.

Campanelli, V. (2012), “Prefazione” in Lovink, G. (2011), Ossessioni Collettive. Critiche dei social network. Università Bocconi Editore, Milano.

Cohen, K. (2017), Never Alone Except for Now: Art, Networks and Populations. Duke University Press, Durham.

Floridi, L. (2022), “Metaverse: a matter of eXperience”, SSRN. Disponibile su: https://papers.ssrn.com/sol3/papers.cfm?abstract_id=4121411.

Illouz, E. (2007), Cold Intimacies: the Making of Emotional Capitalism. Polity, Cambridge.

 Lovink, G. (2015), “What Is the Social in Social Media?”, in Aranda, J., Wood, B. K., Vidokle, A. (a cura di), The Internet Does Not Exist. Sternberg Press, Berlino. Disponibile su: https://www.e-flux.com/journal/40/60272/what-is-the-social-in-social-media/.

Lovink, G. (2023), Stuck on the Platform: Reclaiming the Internet. Valiz, Amsterdam; tr. it. Silvia Dal Dosso e Silvia Lorusso , Le paludi della piattaforma. Riprendiamoci internet, Nero. 

Murano, J. (2021), “Pratiche onlife di incorporazione. Censura e iconoclastia nell’epoca del capitalismo della sorveglianza”, KABUL Magazine. Disponibile su: https://www.kabulmagazine.com/pratiche-onlife-di-incorporazione/.

Turkle, S. (2011), Alone Together: why we expect more from technology and less from each other. Basic Books, New York.

 

 

Bio 

Jael Arazi è una curatrice e creativa originaria di Milano. Dopo essersi diplomata in Pittura e Arti Visive alla NABA di Milano, si è trasferita a Londra, dove ha conseguito un MFA in Curating alla Goldsmiths University. È co-curatrice del progetto multidisciplinare In Lucid Dreams We Dance, sostenuto dall’Italian Council (2022), che comprende un programma di eventi e la pubblicazione di una zine sui temi della condivisione, senso d’appartenenza ed elementi rituali nel contesto fisico e relazionale del club e della musica elettronica. La sua pratica curatoriale si posiziona sulla sottile linea che separa la realtà fisica da quella digitale, analizzandone i risvolti sociali e le potenzialità politiche, con un particolare interesse per le ricerche artistiche audiovisive. Ha curato mostre sperimentali a Londra (2021-2022) e un programma di screening online sulla piattaforma Covideo (2021).