Nel 2017, l’artista Jordan Wolfson ha presentato alla 78° edizione della Biennale di Whitney l’opera Real Violence, un’installazione concepita come postazione per la realtà virtuale fruibile per dieci utenti alla volta (maggiorenni) in modalità individuale. In un video immersivo di 2 minuti e 25 secondi, l’artista pone lo spettatore all’interno di una scena che rappresenta un puro distillato di violenza che sconvolge fruitori, critici e giornalisti.

 

Dopo aver indossato le cuffie e il visore, la prima sensazione che lo spettatore sperimenta è quella del disorientamento, acuito da un brusco rovesciamento del punto di vista. Inizialmente, all’interno dello spazio virtuale, l’inquadratura è rivolta verso un cielo terso a cui fa da sottofondo il rumore del traffico di Manhattan e le benedizioni dell’Hanukkah cantate in ebraico (Bollmer, Guinness, 2020, p. 29). 

Successivamente, la prospettiva cambia repentinamente poiché l’immagine si capovolge e lo spettatore, già nauseato, si ritrova a guardare la scena principale frontalmente. Un uomo con una maglia grigia, in cui è possibile riconoscere la fisionomia dell’artista, colpisce con una mazza da baseball un secondo individuo inginocchiato e ripete il gesto più volte con inaudita violenza. 

La vittima indossa una felpa rossa e, prima di essere colpita e cadere su un fianco, alza gli occhi alla ricerca di un contatto visivo con lo spettatore mentre i passanti all’interno della scena ignorano l’avvenimento in corso. Subito dopo, Wolfson lascia cadere la mazza e continua a prendere a pugni e a calci la sua silenziosa e condiscendente vittima ormai sanguinante. Le preghiere cessano e vengono sostituite dal suono di carni lacerate e ossa che si rompono sotto la forza bruta dell’artista, il quale si accanisce sul viso dell’uomo. 

Le esalazioni lamentose, le convulsioni della vittima e il sangue che scorre copiosamente dal suo corpo sottolineano la realtà carnale della violenza subita, della quale lo spettatore è unico e immobile testimone. Dopo una rotazione confusa e sfocata della scena, gli uomini vengono ripresi sottosopra e il viso della vittima appare posizionato quasi al centro dell’immagine, nel tentativo di instaurare un rapporto visivo con chi lo sta guardando, chiedendo disperatamente aiuto attraverso i suoi occhi ormai distrutti. Infine, il carnefice usa di nuovo la mazza e uccide definitivamente l’uomo sbattendogli il cranio contro il suolo, silenziosamente, mentre la vita intorno a lui procede indifferente e tutto lo schermo diventa nero (Catricalà, Spampinato, 2021, p. 125). 

A differenza dei precedenti video realizzati dall’artista, questo lavoro finisce bruscamente, non è un loop poiché non è stato pensato per essere riguardato. Lo schermo nero viene accompagnato da un rumore statico che disorienta lo spettatore e gli conferisce la sensazione di trovarsi all’interno di un veicolo che si ferma improvvisamente. Questo momento di ritorno al mondo reale viene concepito dall’artista come ultima parte fondamentale che completa l’opera.

Uno degli aspetti che rendono così cruda l’opera Real Violence è la risoluzione piuttosto bassa delle immagini che compaiono virtualmente. La nitidezza liscia e cristallina che si presuppone da un’opera così tecnologicamente avanzata lascia infatti spazio a una risoluzione più simile a quella di un cellulare: è il tremore di una mano che regge lo smartphone e cattura qualcosa di urgente e orribile nel momento in cui sta accadendo (Schwartz, 2017). Durante lo svolgimento dell’azione, all’interno della realtà virtuale, lo spettatore è un testimone fisicamente impossibilitato a intervenire, non ha il controllo della scena che vede di fronte a lui. L’unico modo per resistere alle immagini di Real Violence è, infatti, chiudere gli occhi o togliersi il visore.

Wolfson, dunque, nega la possibilità di interattività nella sua opera, e dichiara: «One of the problematic things with a medium like VR is that through its nature, people call it an experience, an experience means that something is hypothetically interactive, and I don’t think that interactive things make for good art» (Freeman, 2017). Per l’artista, la realtà virtuale concede un’interattività che a lui non interessa sperimentare, poiché è proprio sulla passività che l’opera sceglie di concentrarsi, facendo provare allo spettatore l’inquietante sensazione di essere completamente privo della capacità d’azione per fermare la violenza messa in atto davanti a sé.

Inizialmente, l’idea originale dell’opera consisteva nel rendere l’utente stesso vittima dell’aggressione di un gruppo di persone all’interno di un parcheggio. In seguito, però, l’intuizione di assistere in terza persona è risultata più interessante da sviluppare, in quanto poteva esprimere al meglio il concetto di esposizione alla violenza attraverso il digitale (Kuo, 2017). Infatti, in una conversazione con Michelle Kuo, Wolfson dichiara: «We’re exposed to so much violence; if not firsthand, in real life, then through the internet or the television or movie screen». 

L’artista dunque esplora la condizione di un testimone passivo all’interno di un mezzo che invece, per sua natura, dovrebbe dargli l’opportunità di essere attivo e di interagire con l’ambiente circostante. 

Il riferimento preso in considerazione da Wolfson per la negazione dell’interattività coincide con l’opera Live-Taped Video Corridor (1970) di Bruce Nauman, in cui lo spettatore deve attraversare uno stretto corridoio e assistere alla versione di spalle e depersonalizzata di sé stesso attraverso uno dei due monitor presenti alla fine dello spazio. Aggiungendo un ritardo all’immagine, Nauman nega l’installazione della sua interattività, creando una sensazione di alienazione e disorientamento.

In Real Violence, Wolfson ricerca la stessa sensazione, quella della nausea. Infatti, dopo un primo periodo di esposizione dell’opera al pubblico e su suggerimento di Christopher Lew, uno dei curatori della Biennale, l’artista è stato costretto a completare il suo lavoro inserendo nell’installazione delle sbarre di metallo per fare in modo che i visitatori non cadessero mentre sperimentavano l’opera. 

La sensazione di disorientamento è data dalla violenza in sé, ma anche dai repentini cambi di prospettiva che, all’interno dello spazio virtuale, erano profondamente disturbanti e pericolosi. Wolfson utilizza infatti le possibilità formali della realtà virtuale giocando con  il rapporto tra visione e movimento, creando così un senso di destabilizzazione, nausea e turbamento: «It punishes us for looking, and it punishes us by inducing a particular, unpleasant physiological experience, which it generates in a remarkably short amount of time» (Bollmer, Guinness, 2020, p. 30). Le sbarre, inoltre, hanno avuto l’effetto aggiuntivo di tenere le persone rivolte in avanti, senza la possibilità di movimento o azione nello spazio virtuale e costrette a guardare in faccia la brutalità della scena. 

Anche i rumori e la musica che provengono dagli auricolari contribuiscono alla creazione di un effetto straniante. La preghiera di Hanukkah rappresenta per Wolfson qualcosa di profondamente familiare e la scelta di inserirla deriva da una decisione puramente intuitiva, ma che ha finito per suggerire un’intensa carica emotiva. Infatti, la decontestualizzazione del contenuto della canzone fa sì che questa venga svuotata di ogni riferimento, resa assurda e fuori luogo. È ciò che Wolfson definisce come «contextual distorsion» (Freeman, 2017): audio e violenza si manifestano negando qualsiasi possibilità di sviluppo di una narrazione. Il lavoro non fornisce alcun contesto, nessuna propulsione narrativa e nessuna motivazione a cui aggrapparsi.

Allo stesso modo, ciò accade nell’animatronic Colored Sculpture, un’altra opera di Wolfson in cui la marionetta, passivo simulacro di un essere umano, subisce una violenza insensata  ma definita da Wolfson come “reale”. Questa è quindi chiaramente la fonte di ispirazione per il titolo di Real Violence: «Had there been a human attached to the chains, it would have killed him immediately. When I saw that, I said to the team, “We’ve achieved real violence”» (Bettridge, 2018).

Anche la vittima presente nel video in VR è impersonata da un animatronic. Infatti, mentre ciò che fa da sfondo all’aggressione è stato registrato per le strade di Los Angeles, l’azione è stata creata in studio, mentre i volti sono stati  realizzati in post-produzione attraverso l’utilizzo di un’avanzata tecnologia 3D di face-swapping (Freeman, 2017). La grana pixellata dell’immagine rende poco chiaro all’osservatore se stia guardando qualcosa di reale o qualcosa di simulato, concorrendo a creare una sensazione di confusione e instabilità. Questa estetica a bassa risoluzione richiama alla mente i primi videogiochi horror della Playstation 1, le cui immagini sfocate e sgranate contribuiscono alla misteriosità e all’inquietudine evocata da quelle che sembrano quasi essere delle scene di  found footage.

Sebbene il video sia stato creato in studio con una scultura animatronica, Wolfson ha effettivamente interpretato il ruolo dell’aggressore scagliandosi brutalmente contro la sua vittima e ha infatti rifiutato di utilizzare degli stuntmen per l’azione poiché, nei vari test effettuati, la scena sembrava falsa. Anche se messa in scena con l’ausilio della tecnologia, l’aggressione a cui lo spettatore assiste è quindi completamente reale. L’artista sostiene infatti che la violenza non sia rappresentata dalla persona che soffre, «the real violence is actually depicted by the person implementing the violence. And that’s me» (Ibidem).

Real Violence si basa sulla reazione fisica dello spettatore e, in particolare, sulle contorsioni corporee causate dall’utilizzo di un visore VR. Questo dispositivo tecnologico si rivela interessante da sperimentare per l’artista poiché permette alla tecnologia di divenire incarnazione prostetica del corpo umano, sua estensione fisica e mentale (Arcagni, D’Aloia, 2021, p. 3).

L’uso che Wolfson fa della tecnologia riguarda infatti il contatto tra la presenza fisica del corpo dello spettatore e l’opera d’arte. Come accade nelle sue opere precedenti, tale vicinanza tra le due parti viene raggiunta anche attraverso il contatto visivo. Questo aspetto era una delle principali preoccupazioni di Wolfson per la creazione di Real Violence: «maintaining eye contact between the mannequin and the viewer, so that the viewer would see the mannequin’s face transform, as Wolfson puts it, from active to passive» (Bollmer, Guinness, 2020, p. 31). Più volte nel corso dell’opera, infatti, la vittima guarda in camera, investendo fisicamente, con il suo dolore, il testimone di questa violenza insensata.

Uno dei chiari riferimenti storici per la realizzazione di quest’opera, che si sviluppa attorno a      un’azione brutale gratuita, è sicuramente la performance Shoot (1971) di Chris Burden. L’artista, segnando un momento iconico nella storia dell’arte e soprattutto nel contesto della Body Art, veniva qui colpito al braccio da un amico che impugnava un fucile a 5 metri di distanza.

In entrambe le opere di Burden e Wolfson sono presenti alcuni elementi chiave come la passività, l’indifferenza e il ruolo di testimoni assunto dagli spettatori. La performance di Burden, però, non era una simulazione come quella di Wolfson e, in questa, l’artista non era l’aggressore, bensì la vittima.

Inoltre, nelle rispettive opere, mentre Burden fa riferimento alla passività del telespettatore, Wolfson      apre a una discussione riguardante le tecnologie digitali, Internet e i meccanismi messi in atto dalla realtà virtuale. Tali dispositivi vengono concepiti dall’artista come strumenti anestetizzanti che illudono il fruitore di essere un utente attivo dell’esperienza in cui è immerso (Catricalà     , Spampinato, 2021, p. 125).

 

Invertire la macchina dell’empatia

Guardando il presente e il futuro, la virtual reality promette la possibilità di entrare all’interno di una dimensione illusionistica e immersiva che promuove la retorica mainstream del concepire la realtà virtuale come una «empathy machine» (Arcagni, D’Aloia, 2021, p. 5).

Chris Milk è uno dei sostenitori di questo concetto e definisce infatti la virtual reality come la macchina definitiva per lo sviluppo dell’empatia. A suo parere, attraverso simulazioni interattive, la tecnologia VR consentirebbe a un soggetto di vivere la vita di qualcun altro in modo più immersivo e realistico di altre forme mediali (Milk, 2015).

Tale idea di realtà virtuale è stata sperimentata in ambito artistico dal regista Alejandro González Iñárritu nell’opera Carne y Arena (2017). Qui la realtà virtuale viene utilizzata come “macchina per l’empatia”, come mezzo pedagogico per istruire gli spettatori e favorire la loro identificazione con la vita di un gruppo di immigrati e rifugiati che attraversano il confine tra Messico e Stati Uniti. Quest’opera, a differenza di Real Violence, implica l’ingresso fisico e immersivo dello spettatore all’interno di un corpo presente solo virtualmente dentro una dimensione completamente interattiva.

Wolfson, invece, rifiutando l’interattività, non attinge all’empatia creata immedesimando la vita di un qualcun altro, ma attraverso l’isolamento dello spettatore e la generazione di un senso di nausea che funziona da critica all’estrema violenza dei media e all’anestetizzazione emotiva di fronte a questa.     

L’idea di realtà virtuale come simulazione empatica e a scopo pedagogico è stata fortemente criticata da Bollmer, il quale sostiene che questa tecnologia non dà la possibilità di promuovere l’empatia, ma anzi elimina la necessità di incontrare l’alterità (Bollmer, Guinness, 2020, p. 33). Anche Robert Hassan sostiene che un dispositivo VR non può generare empatia poiché la virtual reality perde necessariamente preziose informazioni sensoriali del mondo reale che la tecnologia non ha la capacità di riprodurre (Hassan, 2020, p. 8). Progetti come quello di Wolfson, infatti, a differenza di Carne y Arena, sono meno interessati a esplorare le dinamiche illusionistiche e      immersive della realtà virtuale. L’artista infatti fa uso della dimensione illusionistica della VR per far credere allo spettatore di essere attivo, di avere un ruolo importante nella narrazione, quando in realtà non è così; l’utente è apatico quando assiste a scene di violenze, abusi e omicidi in tv o sul cellulare, così come lo è quando indossa un visore. Come il pubblico di Shoot, quello di Real Violence si trova in una condizione di impotenza, di fronte all’impossibilità di sfuggire alla condizione di spettatore.

 

Abisso psicofisico

Lo stesso processo viene esplorato nell’opera di Jon Rafman View of Pariser Plaz (2016), un’installazione site-specific realizzata in collaborazione con Samuel Walker per la nona edizione della Biennale di Berlino. I visitatori esperiscono l’opera indossando un visore Oculus Rift,      affacciandosi dalla terrazza dell’Akademie der Künst  su Pariser Plaz e sulla Porta di Brandeburgo.

L’esperienza VR dura circa tre minuti e inizia con una replica in CGI della piazza dal punto di vista del fruitore. Quando l’atmosfera inizia a farsi cupa e nebbiosa, le sculture degli animali che si mangiano a vicenda – presenti nella terrazza – prendono vita e il pavimento si sgretola sotto i piedi dello spettatore. Questo si ritrova nel fondo di un abisso insieme a una moltitudine di manichini privi di volto e identità, rendendosi conto di non essere altro che uno di loro, un impotente corpo senza vita.

Rafman, come Wolfson, rovescia dunque l’illusoria sensazione di onnipotenza che normalmente si incontra nei sistemi di navigazione controllati dagli utenti, producendo un’esperienza immersiva      in cui lo spettatore non è identificato come un eroe, ma come una vittima inerme degli eventi. L’abisso è sia fisico sia psichico, poiché metafora di una mente che perde il controllo mentre si illude di esserne in pieno possesso (Catricalà, Spampinato, 2021, p. 124).

Introducendo l’elemento degli animali che si divorano, Rafman crea un’analogia con la condizione contemporanea del desiderio di essere completamente sommersi e fagocitati dagli impulsi dei media: «In this context, it works as a great parallel of the both consuming, and being consumed by virtual reality» (Jones, 2016). Nel mondo di Rafman, lo spettatore è dunque consumato dalla violenta realtà in cui è intrappolato e costretto ad affrontare.

Rafman ha dunque creato View of Pariser Platz utilizzando la realtà virtuale in modo brutale, per sfidare il suo spettatore, per disorientarlo e rivelargli così la vera natura della virtual reality, sintomo di una società distratta che per sentire qualcosa ha la necessità di essere letteralmente strappata dal mondo reale.

Questa concezione rappresentata dalle opere di Wolfson e di Rafman si distacca totalmente dalla maggior parte delle applicazioni VR nei giochi e nel cinema, che sfruttano questa tecnologia per sperimentare incursioni illusionistiche nei mondi virtuali attraverso eccitanti stimolazioni dei sensi. Gli artisti visivi sembrano infatti più interessati ad aprire una discussione in merito all’attuale condizione tecnologica, ricordando all’utente l’impatto degli schermi nella sua quotidianità:           «Siamo arrivati ​​al punto che per avere un’esperienza davvero trascendente dobbiamo essere completamente intrappolati all’interno di un visore?». 

Questa è la domanda che si pone Rafman, il quale ha evidenziato la difficoltà degli utenti di oggi nell’avere un’esperienza immersiva fissando un dipinto su un muro. La necessità della nostra società distratta e sovraccarica di informazioni è infatti quella di essere letteralmente “strappata dalla realtà” per immergersi in esperienze totalizzanti ed estranianti.

 

Evadere dalla realtà rimanendone incatenati

Questo desiderio di evasione ha portato al progressivo sviluppo della realtà virtuale nell’ambito videoludico, in particolare con la realizzazione di prodotti come Blood Trail, uno dei più venduti videogiochi in virtual reality che consente all’utente di uccidere brutalmente e senza motivo chiunque  incontri. Tale utilizzo del mezzo ci pone di fronte a molte domande etiche sui danni e sulle implicazioni che può provocare questa totale immersione all’interno di un mondo costituito solo da pura violenza fine a sé stessa. 

Jordan Wolfson mira, infatti, a rendere gli utenti consapevoli dell’impatto alienante e desensibilizzante delle tecnologie digitali portando alla luce il sentimento umano della violenza, purtroppo da sempre parte della nostra realtà: una realtà che, oggi più che mai, è espansa e vede le immagini degli schermi invadere e trasformare spazi e persone, una realtà che conduce a non percepire più il confine tra reale e virtuale, facendoci sprofondare in una dimensione di violenza medializzata che ci rende tutti partecipi e sublimi spettatori.

 

 

Bibliografia

Bollmer, G., Guinness, K. (2020), ‘Empathy and nausea: virtual reality and Jordan Wolfson’s Real Violence’, Journal of Visual Culture, 19 (1), pp. 28-46. Doi:  https://doi.org/10.1177/1470412920906261

Spampinato, F., Catr     icalà, V. (2021), ‘Contemporary Art and Virtual Reality: New Conditions of Viewership’, Cinergie – Il cinema e le altre arti, 10 (19), pp. 121-133. Doi: https://doi.org/10.6092/issn.2280-9481/12322

Schwartz, A. (2017), ‘Confronting the “Shocking” Virtual-Reality Artwork at the Whitney Biennial’, The New Yorker. Disponibile su: https://www.newyorker.com/culture/cultural-comment/confronting-the-shocking-virtual-reality-artwork-at-the-whitney-biennial. (Accesso 17 settembre 2023).

Freeman, N. (2017), ‘A History of Violence: Jordan Wolfson on His Shocking Foray into VR at the Whitney Biennial’, ARTnews. Disponibile su: https://www.artnews.com/art-news/artists/a-history-of-violence-jordan-wolfson-on-his-shocking-foray-into-vr-at-the-whitney-biennial-7856/. (Accesso 17 settembre 2023).

Kuo, M. (2017), ‘Jordan Wolfson’, Artforum. Disponibile su: https://www.artforum.com/print/201709/jordan-wolfson-71776. (Accesso 17 settembre 2023).

Bettridge, T. (2018), ‘How Do I Feel More? A Weekend With Jordan Wolfson’, 032c, Disponibile su: https://web.archive.org/web/20200527040759/https://032c.com/jordan-wolfson/. (Accesso 17 settembre 2023)

Arcagni, S., D’Aloia, A. (2021), ‘VR Storytelling: Potentials and Limitations of Virtual Reality Narratives’, Cinergie – Il cinema e le altre arti, 10 (19), pp. 1-7. Doi: https://doi.org/10.6092/issn.2280-9481/13412

Milk, C. (2015), ‘How virtual reality can create the ultimate empathy machine’, TED, https://www.ted.com/talks/chris_milk_how_virtual_reality_can_create_the_ultimate_empathy_machine. (Accesso 17 settembre 2023).

Hassan, R. (2020), ‘Digitality, Virtual Reality and the Empathy Machine’, Digital Journalism, 8, pp. 195-212. Doi: https://doi.org/10.1080/21670811.2018.1517604

Jones, C. R. (2016), ‘Year of the Pig: Jon Rafman and the World’s Hungriest Fetish’, 032c. Disponibile su https://web.archive.org/web/20211023054942/https://032c.com/jon-rafman-vr-vore-berlin-biennale/. (Accesso 17 settembre 2023).

 

Biografia

Maddalena Genta Civiero ha conseguito la laurea triennale presso il DAMS di Padova, proseguendo gli studi laureandosi al corso magistrale di Scienze dello Spettacolo e della Produzione Multimediale nella stessa città. Ha collaborato presso diverse associazioni culturali e ha partecipato a diversi convegni universitari. Attualmente produce dei progetti personali che combinano il disegno con la pittura, il collage e la scrittura.