Comporre identità e il sentire ritrovato
Processi e sensibilità queer in relazione alla musica elettronica
Da un punto di vista tecnico ed estetico, la musica elettronica di stampo acusmatico pone sotto i riflettori un certo trattamento del materiale sonico, rappresentato come un oggetto sonoro che non rimanda a null’altro se non alla sua esistenza spettromorfologica. Questo atteggiamento permette di accedere a una connessione più primitiva con il suono. L’obiettivo di questa analisi è tentare di comprendere come un compositore possa trasdurre il sentire personale ed emotivo all’interno di una sua produzione musicale. Si tratta di ritracciare i percorsi di significato, portando in seguito alla luce il sentire ritrovato e i particolari di un proprio processo compositivo. Definendo la musica come pratica identificatoria e restringendo il campo d’azione alla comunità LGBTQIA+ e BIPOC, si può considerare il suono – per il tramite delle tecnologie musicali – come mezzo per reintrodurre tali identità all’interno delle strutture sociali e dei discorsi dominanti.
1. La composizione come veicolo di scelte
L’atto compositivo risulta essere «la sistemazione più o meno definita di elementi nell’ambito di una struttura» (Oxford Languages). Nella Filosofia della musica, Giovanni Piana (1991, p. 62) afferma che: «finché si rimane sul piano di un’esplorazione di ciò che sta dalla parte della struttura, l’elemento soggettivo viene posto ai margini e deve dunque essere dato il massimo risalto ai dinamismi interni della materia sonora». È proprio questa una delle visioni acustiche più affascinanti che la musica acusmatica ci trasmette. Sia che si tratti del deep listening di Pauline Oliveros (cfr. Oliveros, 2023) sia secondo l’effetto dell’ascolto ridotto di Pierre Schaeffer, l’esperienza auditiva che ne risulta è quella che sacrifica il contesto e i significanti. L’ascolto acusmatico ci porta a udire un suono decontestualizzandolo per avvicinarci maggiormente a una ricerca auditiva che si allontani il più possibile da supposte e a priori cause produttive. Ciò che ci viene insegnato risiede nell’estrapolare le caratteristiche proprie del suono, la percezione nella sua materia, consistenza, qualità, dimensioni e dinamismi. A questo punto, Piana ci viene d’aiuto suggerendo che: «sono poi proprio questi dinamismi che chiamano in causa l’azione soggettiva, esigendo essi di continuo che venga operata una scelta. La composizione può allora essere considerata come un risultato dei dinamismi del materiale quando essi siano concretamente entrati nel gioco delle scelte» (Ibidem). A partire dalla registrazione e passando per la selezione dei materiali, fino all’elaborazione e manipolazione di questi e il loro ordinamento all’interno di qualsivoglia schema o struttura, ciò che viene costantemente applicato è l’atto di volontà, quel piacere artistico di agire accogliendo, cancellando, modificando o, semplicemente, quel diritto all’autodeterminazione che utilizza il mondo sonoro al fine di manifestare, nell’individuo, la propria e singolare facoltà di esistere. «Qualunque realizzazione musicale non può che sostenersi sulle legalità interne del materiale, sulle sue differenze fenomenologiche, sui caratteri che gli appartengono strutturalmente. Ma quelle legalità interne restano pure possibilità finché in rapporto a esse non siano state prese delle decisioni. Linguaggi differenti sorgono da decisioni differenti» (Ibidem).
Con quante decisioni il compositore elettroacustico si ritrova a interfacciarsi in risposta agli stimoli delle infinite possibilità proposte dai mezzi tecnologici? In che modo e secondo quale criterio, se ciò avviene e se esplicabili, queste soluzioni vengono trovate? Quanto influisce il mondo interiore nel volersi realizzare e rendersi percepibile a tutti i costi e quanto, in questa sorta di spinta libidinale, il libero arbitrio creativo viene invece macchiato dal mondo esterno impedendo o meno il compiere di determinate scelte? Reintroducendo un contesto e una soggettività alla condizione acusmatica, è abbastanza complesso, e in parte audace, teorizzare o pretendere di arrivare a conoscere le cause primordiali e i fattori ancestrali che guidano coloro che operano nell’arte dei suoni, e che la recepiscono, a prediligere taluni comportamenti e caratteri estetici piuttosto che altri; arrivare a capire se questi effettivamente derivino da un sentire esclusivamente fisiologico o quanto, viceversa, la cultura e i sistemi sociali influenzino il nostro modo di agire. L’etnomusicologia non va intesa come una filosofia della verità assoluta. Piuttosto questa disciplina ambisce a innescare curiosità e mettere in dubbio le certezze. In questa cornice possiamo trasformarci in spettatori e conoscitori attivi di punti di vista variegati al fine di applicare gli stessi metodi di indagine anche al nostro modo di percepire, interagire con il suono e, parallelamente, riusciamo a trovare e riconoscere noi stessi.
1.2 Processi e sensibilità queer in relazione alla composizione elettronica
Abbiamo appena brevemente analizzato la maniera in cui il processo compositivo può organizzare il materiale sonoro attraverso una riflessione di tipo soggettivo, per poter ora far incontrare l’essere queer con la composizione, propriamente elettronica ed elettroacustica, al fine di comprendere come ciascuno di questi due ingredienti alimenti se stesso e l’un l’altro; adesso risulta necessario considerare il significato storico e identitario che il termine queer ha acquisito nel tempo.
Etimologicamente, queer rappresenta ciò che è «sessualmente, etnicamente o socialmente eccentrico, insolito e abietto rispetto alle definizioni di normalità codificate dalla cultura egemone» (Oxford Languages). Quello che potrebbe essere ancora definito come insolito, rispetto ai dogmi del contesto culturale predominante del secolo in cui ci troviamo, è tutto ciò che non rappresenta il potere maschio, etero, cis, abile e bianco. Se ritorniamo a una concezione della musica come pratica identificatoria e restringiamo il campo d’azione alla pratica queer, possiamo considerare il suono come mezzo per introdurre tali identità all’interno dei discorsi dominanti e delle strutture sociali. Come affermato da Victoria Moon Joyce in What’s So Queer about Composing? (1997, pp. 43-52), l’atto di comporre non è solo produrre un’opera fine a se stessa, ma significa partecipare attivamente alla pratica di comporre la propria vita. Facendo questo noi ci esibiamo e ci componiamo, usando il significato di mettere insieme, formando e informando costantemente noi stessi e gli altri mettendoli in relazione. Il compositore abita i margini durante questa pratica, includendo anche il proprio paesaggio interiore di marginalità, lottando sempre per creare, affermare e conoscere le proprie identificazioni. Compone per connettersi, per relazionarsi/integrarsi e per comunicare, dentro di sé e al di fuori di sé. La composizione può interrompere le pratiche e i codici normalizzanti, rappresentando quindi un atto di resistenza al dominio, al controllo e all’effetto svilente e isolante della ripetizione. Comporre è quindi una cosa queer. In una realtà fisica in cui la propria autodeterminazione è inevitabilmente macchiata da fattori esterni, dove la propria esistenza viene invalidata da rigidi schemi precostituiti e in cui ci si esprime secondo i codici che ci sono stati propinati come normativi, l’atto di produrre musica con il mezzo digitale diventa la trasposizione aurale della possibilità concreta di un altro tipo di mondo, dell’utopismo queer di Muñoz:
una traccia verso l’orizzonte, una traccia che nasce dal disorientamento, dalla messa in discussione critica di binarismi normativi: passato/futuro; successo/fallimento; modernità/tradizione; maschile/femminile; globale/locale etc. Si tratta di una traccia che nasce dal riconoscimento della frammentarietà dell’esistenza, delle identità […] dai nostri turbamenti, dalle nostre speranze, dai nostri fallimenti (Cane, 2022).
La composizione elettronica rappresenta, in questo modo di sentire le cose, il tramite perfetto per perdersi e ritrovarsi, percorrendo un tracciato emotivo che può tener conto di tutte le possibilità e opportunità del caso. Il mezzo elettronico è uno strumento musicale che, facilmente, può portare allo smantellamento, se accolto, dei dualismi che sono stati trasportati, in secoli di storia, all’interno della musica da parte della società stessa. È un modo per ricominciare continuamente da zero, ritrovandosi davanti a una griglia che non può rifletterti nient’altro che la tua unica immaginazione. Quello che ti mostra è te stesso, spoglio di qualsiasi tipo di costrutto o precondizione, poiché la costruzione può venire solo attraverso l’estro e il flusso creativo, sfruttando gli strumenti che vengono offerti e che prendono vita e forma solamente tramite le orecchie di chi è pronto a farne uso. All’interno di un sistema in cui tutto può potenzialmente essere modellato dal silenzio o da una frequenza di partenza, il resto del gioco risiede poi nella visione più intima del sound designer. Se stringiamo il microscopio, allargando questa visione alla sensibilità queer che si esprime attraverso questi mezzi, occorre sottolineare come le pratiche agli albori e più avanguardistiche dell’estetica elettroacustica abbiano trovato interesse nella rivalutazione di certi binarismi come bellezza/bruttezza, suono/rumore, melodia/cacofonia, consonanza/dissonanza, accogliendoli eventualmente tutti con la massima apertura ed evitando che una scelta dovesse necessariamente annullarne un’altra. E ancora l’importanza data al timbro e alla materialità del suono, che in maniera radicale viene rielaborato, portato all’estremo o creato dal nulla, trasmettendo la speranza e il sogno che tutto potesse essere possibile e che lo sia ancora costantemente in divenire, e che il limite quindi risiedesse solo nell’ozio creativo. Il discorso si estende, poi, alla riconfigurazione del ruolo di compositore/esecutore, di interprete/pubblico e dell’ascolto stesso, in un lungo elenco di cambiamenti profondi che le avanguardie del ‘900 hanno reso possibile in un periodo storico in cui tutto sembrava un dato di fatto scontato. E non è magari questo stesso radicalismo ad aver affascinato e che continua ad attrarre le persone queer? La musica elettronica è forse l’utopia queer per eccellenza? Ciascuna persona lo scoprirà da sé, e vivificare questo spirito di non-oggettività significa mantenere viva la vulnerabilità, la frammentarietà, il fallimento e la trasformazione mostrandoli senza veli e senza nascondersi.
1.3 Il silenzio e il rumore in chiave queer
Consideriamo per un attimo i due massimi estremi del campo sonoro a nostra disposizione: il silenzio e il rumore. Ciascuno di questi due elementi può assumere un valore totalmente differente in base al compositore che ne fa un utilizzo musicale, nonostante essi, svincolati dall’elemento culturale e quindi esaminati da un punto di vista fisico e scientifico, si rivelino quasi sempre a noi mediante la stessa ricezione sonora e con un simile disegno frequenziale. Nel suo saggio John Cage’s Queer Silence (Katz, 1999, pp. 231-252), Jonathan Katz confronta il silenzio musicale in molte delle opere di Cage, in particolare 4’33”, con il silenzio del compositore riguardo la sua omosessualità. Secondo lui, essere omosessuali in una cultura omofoba significava rendersi conto forzatamente che la conversazione non riguardava sempre l’espressione, ma che poteva trattarsi del contrario: dissimulazione, camuffamento, occultamento. Se il silenzio era in parte un’espressione dell’identità di Cage come omosessuale represso durante la guerra fredda, in realtà era anche molto di più. Non si trattava solo di un sintomo di oppressione, ma anche di una modalità di resistenza.
Questo silenzio non è da considerare lo stratagemma passivo di un omosessuale represso che non voleva e non poteva dichiarare la sua identità in una cultura ostile. Al contrario, se lo scopo del silenzio di Cage era quello di sottrarsi all’attenzione, il suo effetto fu sicuramente l’opposto. D’altro canto, il rumore entra in stretta empatia con la sessualità queer. In primo luogo, si pone come un’alternativa queer non commerciabile (e quindi incontaminata) rispetto alla cultura queer confezionata e distribuita per il consumo di massa dalla società eteronormativa tradizionale, rendendola uno struggente strumento politico. In secondo luogo, funge da sfogo estremamente appropriato sia per l’espressione sessuale queer che per la rabbia e la disperazione causate dall’omofobia – o anche dalla disforia di genere. La performance non riguarda più quindi l’oggettificazione dell’esecutore, ma piuttosto l’identificazione con esso attraverso l’esperienza sonora ivi condivisa e le esperienze di vita [1] comuni espresse nella musica. In Queering The Pitch, Philip Brett ed Elizabeth Wood ci ricordano che: «la nostra omosessualità è una parte cruciale della nostra identità, non per la presenza di un qualcosa di intrinseco in essa, ma piuttosto è l’oppressione sociale che l’ha resa tale» (Brett et al., 2006, p. 358). Quando ci si distacca deliberatamente dalle condizioni e dall’ambiente di azione, tutto questo contenuto interno risulta essere oggettivamente, dall’esterno, solo assenza di suono o unicamente rumore.
Questo esprime una certa universalità intrinseca del suono che gli permette, anch’esso, di manifestarsi e determinarsi secondo la propria natura e in una maniera acusmaticamente legata solo al suo significato proprio e alla sua materia personale, divincolandosi così dalla schiavitù dell’uomo. È poi il fattore umano che entra in gioco per prendersi ciò che più gli è affine e renderlo parte integrante del suo modo di risuonare nel mondo. Si tratta di riappropriarsi del materiale sonoro che viene offerto per reinterpretarlo e riadattarlo in base alle peculiari esigenze di singoli individui e, parallelamente, di una comunità. Ed è la presenza di questi diversi punti di ascolto, che partono dalla stessa materia sonora, a mettere insieme i numerosi approcci musicali e, per effetto, gli esseri umani tra di loro.
Questi discorsi ci suggeriscono e ci invitano ad abbandonare per un momento il nostro piccolo sistema di potere (o di difesa), e di porci viceversa in una posizione acusmatica di ascolto che non solo accoglie tutti i suoni per come si presentano, ma che tiene conto, in maniera empatica, delle singole individualità che si manifestano nel momento in cui il centro del discorso non sono più Io, ma siamo Noi, o Loro, e di interagire in maniera funzionale, dialogistica a questa inversione di baricentro, di cui rimaniamo comunque parte integrante – all’interno di quella che può essere definita come cultura umana – seminando i presupposti per un’apertura all’ascolto totale che va anche oltre gli orizzonti sonori. Inseriamo quindi in punta di piedi questa prospettiva per evitare che l’ascolto acusmatico diventi troppo alienante e che, anche ad ascolto terminato, ci si dimentichi della presenza di un individuo in carne ed ossa il quale, in base alla sintesi delle proprie esperienze, ci ha aperto le porte all’interno della sua ecologia sonora [2].
1.4 Semiotica estetica e sociale della musica umana
Generalmente, per semiotica si intende la «scienza generale dei segni, della loro produzione, trasmissione e interpretazione, o dei modi in cui si comunica e si significa qualcosa, o si produce un oggetto simbolico» (Enciclopedia Treccani). Parliamo quindi in termini del segno come rappresentante, formato dal significante (identificato con l’aspetto fonico-acustico) e dal significato (identificato con il concetto o con l’oggetto denotato). Il suono musicale di per sé è alogogenic [3].
Completamente estraneo al linguaggio, non artefatto, privo di esistenza fisica e non rappresentativo, riferendosi in primo luogo a nient’altro che al sistema o ai generi musicali specifici a cui associarlo. Il suono musicale è un’astrazione autoreferenziale, uditiva. Questo nucleo spoglio deve essere l’inizio di una qualsiasi comprensione socio-culturale della musica, poiché solo allora si può costruire un’analisi delle mediazioni che la circondano e la costruiscono, e quindi del suo essere multitestuale. Questo peculiare grado di autoreferenzialità è il motivo per cui la musica può essere considerata un segno relativamente vuoto [4]. Garroni ha sostenuto che non ha senso parlare di linguaggi artistici e dei rispettivi codici, da cui devono risultare i relativi messaggi e significati. Nel caso dei prodotti artistici si ha a che fare con procedimenti in cui l’operatività dell’uomo si manifesta esaltando la propria autonomia e costruttività. Ha senso quindi parlare di una semiotica estetica, una semiotica del sentire, una semiotica non cognitiva che riporta a una condizione non intellettualistica e all’originaria adesione del soggetto al suo stesso fare esperienza della vita, al suo sentirsi con altri e sentire l’altro.
Utilizzando quindi un piano di analisi semiotica musicale tendenzialmente estetica, ne traiamo come la musica non sia una lingua universale, – ritorniamo qui al pensiero filosofico di Piana – non è una lingua che parla immediatamente e in modo eguale a tutti gli uomini. L’apprendimento di questa lingua non è solo il familiarizzare con una tecnica o un’abilità trasmessa come tale.
Del senso intrinseco di queste tecniche fa parte integrante l’orizzonte storico nel quale esse hanno potuto affermarsi ed essere elaborate, concretizzandosi in abitudini, sentimenti e orientamenti del vissuto. Per collegare il linguaggio verbale agli orientamenti del vissuto, Sachs fa impiego della parola neve e alla ventina di termini qualificativi con i quali gli esquimesi differenziano vari modi di essere della neve, arrivando possibilmente a sostenere che nessuna traduzione autentica può essere data della parola neve così come è impiegata dagli esquimesi: «debbo essere stato laggiù da sempre, mio padre e mia madre debbono essere andati a morire sulla neve perché io possa dire di comprendere che cosa significhi quella parola per un esquimese!» (Piana, 1991, p. 43). L’etnia è una questione di cultura comune, basata su elementi condivisi e di significato culturale come esperienza, lingua, religione, storia, habitat e simili.
L’etnia è essenzialmente uno status socialmente conferito, una questione di accettazione, riconoscimento e rispetto comuni. La questione sollevata ivi musicalmente non è quella delle capacità, ma piuttosto quella dell’autenticità. L’autenticità è un valore, è credibilità. È il tipo di credibilità che deriva dall’avere un rapporto appropriato con una fonte originale. Durante il processo di autenticazione di un’opera, l’obiettivo è studiare se esiste una corrispondenza tra l’identità descritta e quella reale dell’autore. In questa applicazione la distinzione autentico/non autentico è dicotomica, le alternative si escludono a vicenda, e la relazione appropriata è di identità. La nostra domanda diventa: il blues bianco è derivato – abbastanza in modo accettabile – dalle fonti originali del blues per essere stilisticamente autentico e autenticamente espressivo all’interno dello stile? L’argomento dell’accesso esperienziale dice che non si può capire il blues o esprimersi autenticamente nel blues a meno che non si sappia com’è vivere come una persona nera in America, e non si può sapere senza esserlo. Per dirla in modo più elaborato, il significato del blues è profondo, nascosto e accessibile solo a coloro che hanno un’adeguata comprensione dell’esperienza storicamente unica della comunità afroamericana. I membri di altre comunità possono interessarsi a questa esperienza e persino entrare in empatia con essa, ma non hanno accesso diretto all’esperienza e quindi non possono comprenderla o esprimerla completamente. Quindi i loro tentativi di padroneggiare il blues o di esprimersi nell’idioma del blues tenderanno necessariamente a essere relativamente superficiali, cioè non autentici.
I musicisti jazz hanno un’espressione, una sorta di motto: fingi finché non lo senti – il punto è che l’espressione autentica è un’espressione derivata dall’emozione provata. L’argomento dell’accesso esperienziale postula l’esperienza di vivere come una persona nera in America come precondizione dell’emozione provata essenziale per un’espressione autentica dell’idioma del blues. Tuttavia, se la questione dell’autenticità riguarda l’etnia, essa ammette l’iniziazione, il raggiungimento e la dimostrazione di genuina comprensione e scioltezza [5].
In Tomorrow Is the Question, Tim Lawrence pone l’accento sulla ricerca del motivo che sta alla base della distaccata appropriazione di un certo sound. Le collaborazioni sperimentali dovrebbero essere forgiate, in un modo essenzialmente non-sfruttatore e non-derivato, incitando una scrittura musicale discendente da pratiche alternative, dirette e viscerali – non cliniche – rispetto ad una posizione colonizzatrice imperialista e di distacco borghese. Come per l’etnia, anche per la sessualità, che è anch’essa in parte un costrutto, la questione è quella di individuare qualcosa con cui ci si identifica teneramente. I suoni hyperpop, ad esempio, risuonano con il corpo e con le esperienze riguardo la presentazione di genere. Ciò che si collega all’esperienza della temporalità è il modo in cui le identità trans e non binarie sono state strategicamente emarginate nel tempo; in quanto tali, i suoni della loro esistenza sono estranei all’orecchio cisgender, suonando fuori dal tempo per l’orecchio che è disciplinato ad ascoltare invece in modo binario e normativo; risultano essere, al contrario, estremamente familiari al sentire queer. Simon Emmerson, nella sua discussione sulla musica, fa uso del termine mimesi per denotare l’imitazione non solo della natura, ma anche di aspetti della cultura umana solitamente non associati in maniera diretta al materiale musicale. Alcuni aspetti della mimesi sono inconsciamente trasmessi da una cultura mentre altri sono consapevolmente appropriati e utilizzati dall’artista. Trevor Wishart ha affermato che: «maggiore è il grado in cui il compositore ha investigato sulle strutture immaginarie e simboliche accettate dalla cultura del suo potenziale pubblico, maggiore sarà questa corrispondenza e probabilmente maggiore sarà la comunicazione» (Emmerson, 1986, p.17). Questo ci dà modo di capire perché un pubblico potrebbe non essere in grado di tollerare l’esperienza di una musica, per esempio la musica classica o l’heavy metal rock; non a causa della musica in quanto suono, ma a causa delle forme sociali e di discorso (anche politicizzato) associate ad essa (Georgina Born si riferisce, rispettivamente, alle teorie elitarie del genio associate alla musica classica, o all’iconografia sessista dell’heavy metal), o dei luoghi e delle modalità di esecuzione attraverso i quali si sperimentano particolari musiche (qui Born pensa al rituale da sala da concerto della musica classica o alla folla violenta negli stadi caratteristici dell’heavy metal). Bisogna inoltre ricordare che esiste un sistema di potere che enfatizza la disuguaglianza tra uomini e donne e lo si può trovare sia nella musica che in molti dei rapporti tra le persone. Nel suo articolo del 1993 Discorso maschile nella teoria musicale (Maus, 1993, pp. 264-293), Fred Maus specula su come i teorici musicali maschi interiorizzino l’ascolto della musica come un’attività passiva, e quindi femminilizzante.
Per far fronte a questo disagio, secondo Maus, i teorici maschi cercano di posizionare le loro asserzioni analitiche come oggettive, affermando che il compositore ha il ruolo di avviare la conversazione e controllare l’argomento, un ruolo dominante associato agli uomini. Un uomo che si sente a disagio nel ruolo femminile di ascoltatore potrebbe voler trovare un modo per invertire la relazione di potere, riportando in qualche modo il ruolo di controllo al proprio discorso. L’attività sessuale risulterebbe essere quindi più accurata della conversazione come modello per descrivere l’esperienza musicale. La musica non trasmette solo informazioni e non mantiene solo la socialità: con i suoi ritmi pulsanti, le superfici ipersensibili e gli elaborati schemi di climax, può regolare un piacere particolarmente intenso, concentrato e sensuale. La musica ha il ruolo attivo di avviare e controllare l’interazione che dà piacere all’ascoltatore. La scrittura virile è, infine, la compensazione per la mancanza di virilità dell’ascolto.
Potrebbero essere ancora questi, oggi, alcuni dei motivi per i quali le categorie marginalizzate, proponendo un sistema decentrato e capovolto, faticano a ottenere gli stessi risultati e a far parte dello stesso discorso che le categorie dominanti, con tanta forza, proteggono e isolano?
1.5 Conclusione
Siamo partiti analizzando la composizione in termini di manifesto per l’effettuazione di scelte da parte di un – idealmente libero, ma praticamente influenzato – compositore. Al fine di riconoscere tali influenze esterne che pilotano le nostre scelte, e con l’obiettivo di demolirle per poi ricostruire una soggettività quanto più spiritualmente autentica possibile, abbiamo affrontato l’argomento della sensibilità queer in termini di affinità con l’estetica primordiale della musica elettroacustica oggetto di studio. Una volta scovati i contenuti più profondi, siamo passati immediatamente alla ricerca di un metodo compositivo appropriatamente funzionale ai fini espressivi del sentire ritrovato. Successivamente abbiamo posto l’attenzione su argomenti più sociali e interpretativi, legando il vissuto proprio di un compositore, trasposto nella sua musica, agli orientamenti esistenziali di più individui che, nonostante siano unicamente soggettivi, risultano, da un punto di vista intersezionale, interconnessi tra loro da più parti. Ed è il riconoscersi in questa interconnessione e in questo senso di appartenenza a permettere il germinare di subculture musicali. Ciò che si spera risulti più chiaro, al termine di questa relazione, è che la pratica, come quindi l’atteggiamento acusmatico applicato alla musica, permetta di accedere a una connessione più primitiva con il materiale sonoro. E una volta ritrovato questo legame senza macchie, è possibile ritracciare i percorsi di significato e costruire le fondamenta e i particolari di un proprio processo compositivo, che apparirà come più sano e riflettuto. L’ascolto acusmatico, come la pratica aleatoria, non sono quindi unicamente utili a riportare la concentrazione sul suono in quanto suono e ad ampliare i nostri orizzonti sonori. Una volta reinserita cautamente la figura del sentire, dell’empatia, essa ci aiuterà a capire il modo in cui ci relazioniamo con la nostra esperienza e con quella degli altri; quali sono gli atteggiamenti sociali e culturali dati per assodati – i quali invece andrebbero rivalutati – e quanti sono gli aspetti che, per fobie interiorizzate, non abbiamo mai preso prima in considerazione. La musica umana ci libera dalle catene che portano il peso di influssi statici e rigidi, pregni di preconcetti e giudizi stagnanti, donandoci finalmente fallimento e dinamicità. Ciascuno di questi punti, tuttavia, non porta e non porterà mai a una conclusione oggettiva o a una trattazione non opinabile poiché ci troviamo distanti da una teoria di tipo scientifico-matematica; piuttosto guardiamo riflessi davanti a noi i temi che toccano l’essere, in questo caso determinato in rapporto con la musica, secondo una delle sue caratteristiche più complesse, mutabili e difficilmente quantificabili: l’umano. E proprio l’umanità, in quanto specchio di se stessa e delle parti estrinseche che vi sono proiettate, riflette e reagisce in maniera pluridimensionale (ivi musicalmente) agli stimoli che inevitabilmente plasmano la sua essenza.
Provo una sensazione analoga quando accendo la radio e mi ritrovo a metà di una canzone e nel mezzo di una battuta con un ritmo sincopato, così che, per un momento sospeso e dinamico, smarrisco il senso del battere e sento la canzone dislocata, in sincronia con il ciclo metrico sbagliato. So cosa sta succedendo, ma resisto all’ascolto dritto il più a lungo possibile finché la convenzione non organizza i suoni come previsto. Non è il riagganciarsi al tempo o il soddisfare le aspettative che fa sentire bene. Ma è il rendere queer il ritmo (Castro, 2020, p. 113).
Note
[1] Le persone queer crescono in un mondo di design eterosessuale con cui sono abbinate in modo imperfetto, nella misura in cui tale design affronta i loro bisogni a casaccio o nell’ignoranza e dal quale queste soggettività sono parzialmente o gravemente escluse, acquisendo dunque un’intima familiarità con i fallimenti e i malfunzionamenti dell’ideologia sessuale. La loro esperienza soggettiva come essere sociale è significativamente strutturata dall’incongruenza (“il tuo aspetto è ridicolo, non fotografabile eppure sei la mia opera d’arte preferita”), dal fallimento (“scrivono canzoni d’amore, ma non per me”) e dai problemi di comunicazione (“le mie parole sono cadute come silenziose gocce di pioggia”). Ha senso, quindi, per un’analisi queer, promuovere l’incongruenza e il fallimento al fine di considerarli concetti chiave per comprenderne la cultura. Tratto da Music and Sexuality di Judith Peraino e Suzanne G. Cusick. Fonte Journal of the American Musicological Society, Vol. 66, No. 3 (Fall 2013). p. 838.
[2] L’ecologia acustica è una disciplina che studia la relazione, mediata dal suono, tra gli esseri umani e il loro ambiente.
[3] Termine non ancora tradotto. Dall’inglese alogogenic, agg. neol. (1979) opposto di logogenic, cioè non tendente all’espressione a parole. L’importanza del contesto è stata riconosciuta da Philip Tagg (1999). Sebbene esistano dei riferimenti universali come le relazioni dirette tra il tempo e il battito cardiaco e la lunghezza delle frasi e la capacità polmonare, il contesto sociale ha attinenza con il significato della musica, il che significa che senza una comprensione del contesto sociale in cui la musica nasce, ci sarà una comprensione insufficiente del significato di quella musica (Meaning, communication, music: towards a revised communication model di Charles Inskip, Andrew MacFarlane e Pauline Rafferty. (2008).
[4] Concetti estratti da Understanding Music as Culture: Contributions from Popular Music Studies to a Social Semiotics of Music di Georgina Born (1993).
[5] Concetti tratti da Race, Ethnicity, Expressive Authenticity: Can White People Sing the Blues? di Joel Rudinow. Fonte: The Journal of Aesthetics and Art Criticism, Vol. 52, No. 1, The Philosophy of Music (Winter, 1994), pp. 127-137.
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Treccani Enciclopedia.
Cover di Felipe Sepùlveda (courtesy dell’artista).
Biografia
Marco Autiero (lui/lei), classe 2000, è un producer e musicista di Napoli. Si laurea in Musica Elettronica nel 2022 presso il Conservatorio San Pietro a Majella, dove attualmente studia. Rilascia diversi brani via Mutants Mixtape, un progetto artistico collaborativo con la partecipazione di artistə della scena elettronica internazionale come Arca, Yaeji, Dorian Electra, Sega Bodega, Nicolas Jaar, Merzbow, Holly Herndon, Matmos ecc. A febbraio 2021 pubblica l’EP “Libidine”. Nel 2022 il suo brano “Serendip” viene presentato all’Atemporánea Festival di Buenos Aires, Argentina. Nel 2023 pubblica il suo primo album “Domina”. Porta la sua musica sul palco di festival italiani come il Meeting del Mare e il Reset Festival. Partecipa a vari concerti dell’OEOAS diretti dal Maestro Elio Martusciello. Suona in concerti di improvvisazione radicale presso Gallerie d’Italia, il Teatro Bellini, il Complesso museale di Santa Maria delle Anime del Purgatorio ad Arco e Villa Campolieto per Ensemble Dissonanzen.