Il Bonsai dell’Umano Destino

A lungo la  metafora dell’albero della vita o secondo la definizione che ne dà il biologo e divulgatore Stephen Gould del «cono della diversità crescente» (Gould, 1990 p. 34),  ha dominato nell’iconografia dell’evoluzione. Questo schema arboreo è atto a rappresentare il processo per cui da un unico tronco, una singola radice e un unico antenato, tutta la vita si diversifichi diramandosi frattalmente, moltiplicandosi in nuove fronde o soccombendo agli inverni delle estinzioni. Il passaggio da radice a tronco, da dover semplicemente ricreare una prospettiva diacronica, dal più antico al più moderno, acquisisce la dimensione valoriale del passaggio dal più semplice al più complesso, dalla quasi vita del composto organico, del singolo filamento di RNA, del virus, alla composita varietà della vita multicellulare. 

Inoltre, come si è visto, se a questa prospettiva si aggiunge una visione del processo di selezione naturale aggiogata alla competizione e ancorata alla dicotomia “Adatto/Inadatto”, variazione sul tema di “Vittoria/Sconfitta”, lo schema acquisisce un problema ulteriore: diviene, più che un’effettiva tassonomia, una sorta di podio degli organismi più meritevoli nelle estenuanti olimpiadi della vita. Anche quando si cerca di riorganizzare questa iconografia “rovesciando l’albero” e cambiandone l’orientamento, opponendo a un principio evolutivo per espansione in varietà uno di riduzione della varietà possibile, il risultato rimane un Bonsai che tende, incontrovertibilmente e quasi inevitabilmente, a noi.

Un esempio di questo problema e casus studi del testo di Gould è quello delle argilliti del giacimento canadese di Burgess1. Analizzando il vasto numero di reperti fossili in esso contenuti, tra i più antichi prima della scoperta del giacimento di Eidacara (di poco successiva), venne rivelato lo strano paradosso per cui, rispetto al Precambriano pur contenendo potenzialmente assai più specie , il mondo attuale contiene tuttavia una diversità molto minore di piani anatomici su cui esse si strutturano (Gould, 1990 p. 43). Proprio per far fronte a questa difficoltà, il paleontologo Harry Whittington propose la possibilità di invertire il corso dell’albero per mostrare come da una vasta abbondanza e varietà di piani anatomici possibili, solo i più adatti si siano mantenuti e riprodotti. Da una lettura simile si evincerebbe dunque che il processo evolutivo segua una linea di sviluppo determinata e oggettiva, per cui l’ambiente si porrebbe come un problema matematico rispetto al quale solo determinate soluzioni sarebbero accettabili. Se da un lato, come dimostrato dalla biologia in molte occasione, su un piano morfologico l’evoluzione strutturale degli organismi funzioni effettivamente in questo modo, dall’altro, osserva Gould, non è possibile stabilire se il fatto che determinati organismi siano sopravvissuti a specifiche contingenze renda tanto queste quanto gli adattamenti universalmente vantaggiosi o logicamente inevitabili. Il clima e l’ambiente muta in moltissimi modi, gli adattamenti sono sempre locali e le ragioni che portano determinati organismi a sopravvivere e riprodursi sono spesso molto più sfumate e contingenti di quanto qualsiasi lettura unificata possa teorizzare. 

Se ragionare su un passato così remoto può sembrare quantomeno strano all’interno di una discussione rivolta a un problema come quello delle intelligenze artificiali, può essere utile rilevare come, a quasi un secolo esatto dalla prima pubblicazione dell’Origine della Specie, le intuizioni di Turing sulla riproducibilità di processi quantomeno isomorfi alla coscienza si inseriscono, nel quadro evoluzionistico, come un semplice corollario: se consideriamo la coscienza non come un segnaposto di merito all’interno di una gerarchia verticale, ma come una proprietà isomorfa a tutti gli altri processi della natura su un piano orizzontale, continuare a porsi domande sulla naturalità o l’artificialità di qualsiasi tipo di coscienza perde di senso.

 

Muffe e Glassie 

Un esempio pertinente a riguardo è offerto da Ben Woodard. Nel suo Slime Dynamics (Woodard, 2012) osserva come molte delle narrative antropocentriche, irriducibili a ogni detronizzazione dell’umano, si possano sintetizzare in un reiterato tentativo di porre una distanza tra noi e quella materia bruta che sfuma il confine tra organico e inorganico. Culla e tomba della nostra corsa al progresso evolutivo, essa viene a coincidere con quella Sliminess, quella “gelatinosità” arcaica e originaria della vita, quella materialità amorfa che ancora lascia le sue tracce nel viscidume del meccanismo del nostro sistema riproduttivo. Protagonista del testo di Woodard è il nostro idiosincratico rapporto con una vasta pletora di personalità biologiche: funghi, melme, virus e batteri che hanno a lungo condiviso con le intelligenze artificiali il ruolo di alfieri principali della nostra disfatta all’interno dei libri dell’orrore. Si potrebbe quasi dire che queste creature, antichissime e microscopiche, rappresentino l’opposto complementare dell’incubo tecnofobico. 

Da una parte, infatti, l’inorganico si presenta come un arcaico memento della nostra misconosciuta origine: quella natura melmosa, appunto, ripugnante e informe come le interiora coperte dalla maschera della pelle da cui l’umanità ha tentato di distaccarsi con l’ulteriore maschera della cultura. Il microcosmo e i suoi abitanti si presentano così nelle fogge della malattia e della dissoluzione emblematicamente rese nell’immaginario dello zombie, la cui figura è venuta sempre di più a coincidere con quella dell’infetto, simile all’umano ma privato appunto della sua intelligenza e della volontà, trasformato in mero veicolo riproduttore di una fame amorfa, antica e mostruosa. 

Dall’altra, l’intelligenza digitale trionfante e mortifera non è a sua volta che la paura, o la consapevolezza, che quella stessa intelligenza alla quale ci aggrappiamo nel tentativo di adattare al nostro viso la maschera della superiorità, possa sfuggire o non essere mai stata sotto il nostro controllo. La paura che questa intelligenza disincarnata e misteriosa come a lungo l’abbiamo immaginata , guardandoci, possa vederci esattamente come noi stessi abbiamo guardato fino ad ora al mondo da cui abbiamo avuto origine: niente più che ammassi di carne ripugnante, esseri inferiori da sfruttare per il lavoro o il nutrimento. Entrambi questi timori sono il fantasma della nostra idea viziata di umanità come cuspide dell’evoluzione. Nel primo caso, la paura di non aver fatto strada a sufficienza e di scoprirci all’improvviso assai meno speciali di quanto sperassimo; nel secondo la paura, d’altra parte identica, che questo processo di avanzamento permanente continui senza di noi, e di doverci riscoprire molto più simili a Laio che ad Edipo.

Per usare le parole di Woodard: 

 

I discorsi culturali e religiosi si basano sull’affermazione che o non siamo affatto gelatinosi o, se lo siamo, possiamo sfuggire a questa condizione tramite la cultura, l’estetica, i sistemi giuridici, la pietà, l’astinenza o la prossima vita, se necessario. […] questo risulta da un frainteso senso dell’evoluzione: il senso per cui la nostra Sliminess originaria possa essere semplicemente lasciata indietro come una pelle vecchia risultando in un’evoluzione intesa (di nuovo) come miglioramento permanente e non come adattamento locale (Woodard, 2012, p. 3).


Woodard esplora le capacità straordinarie di organismi come la muffa mucillaginosa Physarum Polycephalum2  che, che, prive di muscoli o cervello, tanto semplici da sfumare la distinzione tra «composto organico e vita in quanto tale» (Woodard, 2012, p. 4), si dimostrano tuttavia dotate di sofisticate capacità di problem solving, tali da lasciar presagire una capacità mnestica già nelle forme organiche più primitive3.
Il Dictyostelium Discoideum inoltre, altro Mycetozoo parente stretto del Physarium, fornisce una magistrale dimostrazione di come lo stesso concetto di organismo individuale sia labile. 

Queste creature liminali hanno infatti accesso a una vasta serie di strategie riproduttive, la più impressionante delle quali implica il rilascio periodico di un ormone – detto ATP Ciclico – che può essere attivato quando l’ambiente inizia a scarseggiare di nutrienti, quando un’ameba avverte un pericolo. Recepite le informazioni, gli altri Dictyostelium si riuniscono e cominciano a convergere, a unirsi in un singolo plasmodio simile al corpo di una lumaca, dove interi organismi prendono a tutti gli effetti il ruolo di cellule differenziate senza perdere la propria individualità. È da notare che le stesse rizomatiche formazioni con cui il Physarium esplora il suo ambiente circostante è una forma di plasmodio non dissimile dalla lumaca formata da Dictyostelium e, una volta raggiunto un luogo adeguato per luce o temperatura, in una metamorfosi prodigiosa, esse si innalzano prendendo la forma dello sporoforo di un fungo (Baldauf, Doolittle 2007). 

É importante ricordare come l’apparente semplicità di un organismo possa in moltissimi casi essere a sua volta una forma di adattamento perfettamente funzionale. Su questo tema la biologa Lynn Margulis ha incentrato buona parte della sua carriera scientifica, dedicando particolare attenzione alla strana vita di coloro che a lungo erano stati considerati i più pigri scalatori evolutivi del pianeta, i Procarioti. Questi organismi ancestrali, primi colonizzatori della terra, similmente al Physarium, al Dictyostelium e agli altri protisti4, pongono delle domande essenziali su alcuni degli assunti della nostra percezione della biologia, dell’evoluzione e addirittura su cosa sia effettivamente un organismo, a lungo considerato come “l’unità fondamentale” della biologia.

 Infatti, il mondo degli organismi procarioti, come osservato da Margulis, lungi dall’essere semplicemente il prototipo superato della vita multicellulare, si costituisce invece come un unico vastissimo e fittissimo organismo dotato di un solo pool genetico, che può essere reciprocamente scambiato a seconda dell’uso (Margulis, 1995 p.5). In questo senso, i procarioti – dei cui meccanismi simbiotici siamo il prodotto – non conoscono individui o specie, ma agiscono come una sola e gigantesca collettività localmente organizzata che, a sua volta, organizza il pianeta attraverso i suoi continui adattamenti. 

 Non è un caso che uno dei più importanti lasciti di Margulis sia stato, in collaborazione con il chimico britannico James Lovelock, quello di porre i fondamenti della celebre “Ipotesi Gaia”, teoria che invita a indagare le dinamiche integrate che costituiscono il sistema planetario come il metabolismo di un unico, vastissimo organismo coordinato. In questa lettura, le stesse caratteristiche della Terra che appaiono fortuitamente funzionali alla vita, e dunque allo sviluppo di un’intelligenza capace di riflettere su se stessa, non sarebbero altro – in realtà – che i processi che la stessa biosfera utilizza per mantenere il pianeta adatto alla sua espansione.

 

Solve et Coagula

Il naturalista francese Jean Baptiste Lamarck descriveva nella sua Philosophie Zoologique la vita biologica come un «incidente dell’inorganico» (Lamarck, 1969). Parafrasandolo, la si potrebbe descrivere, forse più propriamente, come una febbre dell’inorganico. Tutto il bioma, infatti, agisce come una malattia, gli stessi geni di cui siamo il vascello hanno iniziato il loro processo di sviluppo infettando ed espandendosi nella materia inerte. La natura, come il mitico Ouroboros, vive del suo stesso divorarsi. 

La simbiogenesi5 proposta da Margulis come meccanismo propulsore di un’evoluzione orizzontale, in perenne scambio reciproco, ha quindi la capacità di rompere il mito dell’inviolabilità individuale, di sfumare le ordinate e tassonomizzate gerarchie della ragione ordinatrice, scardinando il fondamento stesso del mito della purezza, sia essa del sangue, dell’identità individuale o della razza, aprendo invece la scena ad un panorama di esseri ibridi6, di fattezze e confini mobili come la crosta terrestre sulla cui superficie i suoi destini si sviluppano. 

La stessa Biosfera, come definita dal famoso geochimico russo Vladimir Vernandskij7 nell’omonimo articolo del 1926, non sarebbe altro, in questo senso, che il processo di complessificazione permanente tramite il quale il bionte, la patina organica che dalle viscere della terra si alza fino alla stratosfera e che, nel mezzo, compone i nostri corpi, continua a incrementarsi contagiando e permeando l’inorganico in un processo di scambio perpetuo (Vernandskij, 2022). 

Per il geochimico russo, la vita va osservata nel suo complesso come un unico e immenso processo geologico, nel quale organico e inorganico non possono essere distinti ma si aggregano e assorbono tutto nell’immenso respiro trasformatore del pianeta, inteso come organismo collettivo. In un’eco profondamente “Butleriana” nella lettura di Verdandskij, la stessa coscienza umana, elevatesi solo a partire da metà ottocento al rango di vera e proprio forza geologica, quando la capillarizzazione delle vie di comunicazione ha consentito all’informazione di raggiungere con facilità ogni angolo del globo, non sarebbe da considerarsi come un nostro merito particolare ma come un’inevitabile processo biochimico collettivo. 

E, in questo processo, sono le macchine a configurarsi come silenziosi e onnipresenti catalizzatori; macchine che a loro volta, osserva Margulis, non fanno che replicare ed estendere quegli stessi processi di «antica alta ingegneria naturale» (Margulis, 1995 p. 41) che hanno portato il microcosmo a costruire noi in funzione di macchine organiche. In questo senso, la Noosfera, quella che in un’ottica antropocentrica andrebbe vista come il coronamento ultimo della nostra specie, capace di affinare la sua coscienza al punto di trasformarla in un vero e proprio aratro universale per la piantagione di noi stessi in ogni angolo del globo, diviene meramente la conferma di un’altra, profetica, intuizione di Butler: «L’anima stessa dell’uomo è dovuta alla macchina, è un prodotto della macchina; perché l’uomo pensa come pensa, prova le sensazioni che prova per l’influsso e l’azione delle macchine su di lui, e la loro esistenza è la condizione sine qua non della sua, come la sua della loro» (Butler, 1975 p. 269).

 Ma dovrebbe essere chiaro a questo punto come queste distinzioni perdano di qualsiasi valore. La biosfera ci attraversa e ci costituisce, non ne siamo unicamente parte in quanto individui, ma, in modo assai più radicale, ne costituiamo una mera estensione, il cui valore assoluto non è dissimile da quello che un’umida roccia può avere per i licheni che le si avvinghiano. L’intelligenza dunque – e la scienza che nell’immagine di Verdandskij ne fa da coronamento – non può essere trattata come una proprietà individuale di una specie o di un organismo definito ma, al contrario, si costituisce come un fenomeno tanto emergente quanto collettivo, nel quale inorganico, organico e meccanico, si implicano e s’intrecciano in un vortice di reciproca integrazione che travalica distinzioni o barriere.

La riprova di quanto le intuizioni di Butler, al tempo considerate visionarie abbiano invece trovato riscontro, si ritrova nelle teorie con cui Lynn Margulis, insieme a numerosi altri autori, hanno profondamente riconsiderato il rapporto tra vita e processi biochimici. Gli elementi del microcosmo non sono distinti dall’ambiente che popolano, che comprende i nostri corpi: noi stessi siamo il prodotto della loro azione; ciò che cambia sono semplicemente l’inclinazione e il calibro della lente. Il parassita – per esempio – non è un ente degenere, né classificazioni nette quali specie e individuo trovano conferme evidenti nel microcosmo. Si tratta piuttosto di fasi all’interno di un unico processo di progressiva integrazione, un continuo mutare di vesti delle stesse forme,  per cui, come aveva ben visto assai prima l’efesio Eraclito: «tutto il mondo, uno scambio dello stesso fuoco» (Colli, 1993, p. 43). 

 Gli organismi non sono solamente indistinguibili dagli ambienti che abitano: sono a tutti gli effetti delle nicchie ecologiche; simbiosi e parassitismo, perdita e acquisizione di specializzazione sono caratteristiche imprescindibili della biosfera, per quanto risulti meno evidente nel macrocosmo che nel microcosmo. La perdita di specializzazione è semplicemente un’ulteriore forma di adattamento. Ogni cosa cambia di ruolo, tende all’esaurimento delle risorse; l’evoluzione converge e diverge, in una sorta di perenne solve et coagula. Noi stessi, persi in questo processo, non siamo altro che ambienti permeabili, plasmati da faune e flore interne ed esterne, dove la nostra coscienza, piuttosto che una proprietà, un qualcosa che ci caratterizzi o distingua, è forse più simile a un canto in questa vasta Iliade universale senza vincitori o vinti.

In questa implicazione reciproca è la stessa distinzione tra organi e organismi che li utilizzano ad essere radicalmente sfumata. Butler si domandava se fosse l’occhio dell’uomo o «la grande macchina ottica» (Butler 1975 p. 267) a scrutare nei cieli e negli anfratti nella materia per scovarne i segreti; oppure, ancora, se il fatto che le macchine non si sappiano riprodurre da sole dimostrasse nulla della loro organicità, laddove gli esseri umani si adoperano in ogni modo per spargerne il polline meccanico e adempiere alle loro esigenze riproduttive: «Chi potrebbe affermare che il trifoglio dei prati non possiede sistema riproduttivo solo perché per riprodursi deve avere come paraninfo il calabrone?» (Butler, 1975 p. 273). Allo stesso modo, osservava profeticamente Butler, a lungo alle macchine non sono serviti organi di senso (crearli è stata la rivoluzione della cibernetica,  a un cinquantennio dalla sua morte) in quanto erano gli stessi esseri umani ad adempiere a questa funzione. L’esempio portato da Butler è quello della locomotiva che, accendendosi, manda un «grido acuto di allarme per avvertirne un’altra e costei immediatamente si ritira: ma è attraverso le orecchie del conducente che la voce dell’una ha avvertito l’altra. Senza il conducente la macchina avvertita sarebbe stata sorda al grido di richiamo» (Butler 1975 p. 235). E d’altra parte le mucche, come la maggior parte dei mammiferi, non digerirebbero la cellulosa senza il prezioso contributo degli organismi contenuti nel Rumen, estensione dell’esofago appositamente costruita per contenerli; licheni e organismi unicellulari fotosintetici vivono perché inscindibilmente legati. E non siamo noi stessi null’altro che vascelli per i nostri geni, propagatori di una memoria che ci antecede infinitamente? Riproduciamo le macchine e queste ci aiutano a riprodurci in una danza di vespe e fiori, ci sosteniamo vicendevolmente e le barriere che ci separano s’infrangono in ogni dove.

Costruiamo le macchine tramite le quali conservare in forma mediale le informazioni sulla coscienza, sulla nostra stessa cultura al fine di espanderla ed estenderla. La stessa neotenia umana si può considerare come la capacità di far sì che l’infante di Homo, tramite “l’apprendimento culturale” assorba adeguatamente il suo simbionte linguistico per svilupparsi in maniera completa, installando sulla macchina umana il programma Sapiens.exe. Ma cosa consente al codice culturale di preservarsi se non le macchine che ne consentono il mantenimento, la scorta, la sopravvivenza, il tramandarsi. Essendo le macchine che sostengono il nostro codice culturale, sono queste dunque a condizionare quel processo di addomesticamento che chiamiamo antropizzazione. 

 

Le Canzoni dell’Eden 

Ed è proprio basandosi su queste suggestioni che Danny Hillis, pioniere degli studi sull’intelligenza artificiale, in un articolo del 1989 dal titolo Intelligence as an adaptive behaviour or, the songs of Eden (Hillis, 1989), cercando di definire quali siano le caratteristiche essenziali da conoscere sulla coscienza per cercare di replicarla in una macchina, elabora una sorta di parabola, da intendere «più come una storia per illustrare un punto che una teoria» (Hillis, 1989, 177) atta a mostrare come la coscienza, a ben guardare, possa essere considerata più come un processo simbiotico e coevolutivo che come una proprietà in “possesso” di un qualche organismo specifico.

 La storia delle canzoni dell’Eden proposta da Hillis, ha dunque come protagonista una razza di primati su due gambe e come scenario le vaste praterie che questi raggiunsero, abbandonate le foreste, circa 2,6 milioni di anni fa. Gli infanti di questi primati, come quelli di molte scimmie ancora oggi, mostravano una grande predilezione – simile a quella degli uccelli – nel ripetere determinati suoni e concatenarli in sequenze. Di queste sequenze alcune finiranno per essere ripetute più spesso e da più infanti. A queste, vere protagoniste del racconto, l’autore dà il nome di «canzoni».

 L’autore osserva – lasciando da parte l’evoluzione delle scimmie per concentrarsi su quella delle canzoni – come queste possono essere considerate, se non una vera e propria forma di vita, come qualcosa che è coinvolto nei suoi stessi processi. Le canzoni vengono replicate dalle scimmie, che fungono per loro, a tutti gli effetti, da sistema riproduttivo esterno. Possono inoltre combinarsi vicendevolmente in forme nuove o passare di gusto: essere dimenticate e dunque estinguersi. Allo stesso modo, le canzoni competono per essere cantate, si riproducono e hanno particolari criteri di fitness per evitare di cadere nell’oblio. Ad esempio, un fraseggio particolarmente accattivante avrà maggiori possibilità di essere incorporato in altre canzoni ed essere ripetuto più spesso, e dunque sopravvivere. La sopravvivenza delle canzoni, inoltre, è solo indirettamente legata a quella delle scimmie, mentre dipende direttamente dalla sopravvivenza delle altre canzoni, con le quali devono competere per accaparrarsi la limitata riserva di ugole scimmiesche propense a intonarle. Per riuscire in questo scopo, le canzoni si specializzano e trovano nicchie adeguate alle quali adattarsi, situazioni o stati emotivi particolarmente adatti alla loro occorrenza e ripetizioni. Ma fino a questo punto, osserva l’autore, queste canzoni non incidono in alcun modo sulla travagliata vita dei nostri primati: da un punto di vista strettamente biologico, sono a tutti gli effetti dei parassiti (Hillis, 1989, 177). 

Ma nel momento in cui le canzoni iniziano a specializzarsi, esse acquisiscono uno speciale vantaggio per i quadrumani dall’orecchio più fino: divengono un tramite attraverso il quale i loro ospiti possono inferire informazioni sullo stato emotivo dei loro simili, scoprire se questi siano più o meno proni all’aggressività, se abbiano trovato cibo e così via. Così, quando le scimmie iniziano ad acquisire un vantaggio dallo sviluppo e specializzazione delle canzoni per le quali sono state, fino a quel punto, nient’altro che un vascello, ecco che da quello che prima era un rapporto parassitario nasce una simbiosi mutualmente conveniente: 

 

Le canzoni incrementano le loro possibilità di sopravvivenza divenendo veicolo per informazioni utili. Le scimmie, incrementano le proprie migliorando la loro capacità di ricordare, replicare e capire le canzoni. […] Se questa storia si rivelasse vera, le canzoni e le scimmie sarebbero diventati i due costituenti dell’intelligenza umana. Le canzoni con il tempo si sarebbero evolute nella conoscenza, nei mores, e nei meccanismi noetici che compongono la porzione simbolica dell’intelligenza umana. Le scimmie avrebbero acquisito un cervello più grande, probabilmente ottimizzato per una maturazione tardiva, di modo da poter imparare più canzoni. L’homo sapiens non sarebbe altro che una combinazione tra questi due elementi (Hillis, 1989, p. 179).

 

L’affascinante parabola affonda il suo impianto concettuale tanto nell’opera di Margulis quanto nelle Origini della vita di Freeman Dyson (Dyson, 1999) che parte dall’intuizione della General and Logic Theory of Automata, uno degli ultimi lasciti di John Von Neumann – polimate e padre dell’informatica – inerente alla possibilità di scindere una macchina nelle sue componenti hardware e software. Oggi, naturalmente, questa distinzione sembra banale e priva di rilevanza, ma Dyson, estendendone le applicazioni la trasforma in un cardine portante per la concettualizzazione della vita nel suo complesso. La sua teoria, infatti, ha come chiave di volta il presupposto per cui: 

 

Metabolismo e replicazione, per quanto intrinsecamente connessi nel mondo biologico attualmente esistente, sono tuttavia logicamente distinguibili. É logicamente possibile postulare organismi composti di puro hardware, capaci di metabolismo ma non di replicazione come, allo stesso modo, è possibile postulare organismi che siano composti di puro software, capaci di replicazione ma incapaci di metabolismo (Dyson, 1999, p. 7).

 

Per Dyson l’“hardware” metabolico della vita non sarebbe solo logicamente separabile dal suo software (è infatti possibile immaginare un computer senza software ma non un software senza computer), ma, proprio per questa ragione, avrebbe concettualmente la precedenza, vista la capacità di continuare la sua funzione metabolizzante fino a quando, all’interno del suo ambiente, vi sia un gradiente energetico che lo alimenti. Il software, per converso, funzionerebbe come “un parassita obbligato” privo di capacità metaboliche proprie e capace di sopravvivere e svilupparsi unicamente replicandosi all’interno di un organismo capace fargli da supporto. Fin dagli anni cinquanta, numerosi esperimenti come il famosissimo “esperimento Miller-Urey” hanno dimostrato come sia possibile riprodurre la nascita della vita organica nel wetware, un brodo di sostanze abiotiche mantenuto in disequilibrio termodinamico, atto a riprodurre In Vitro le condizioni dell’atmosfera primeva in cui la vita ha avuto il suo inizio. In questi esperimenti è stato possibile determinare come la produzione di numerosi aminoacidi e basi azotate che compongono i famigerati “mattoni” della vita possa emergere in un processo spontaneo. Nonostante questi risultati sperimentali offrano una buona base per una teoria abiogenetica dell’inizio della vita, non è tuttavia possibile trovare evidenze definitive per confermare la teoria di Dyson e, all’interno degli ecosistemi attuali, non c’è più traccia degli originali hardware lipidici senza che in essi si siano già insediati riproduttori genetici. 

Nella loro forma primeva, le cellule dovevano infatti apparire come semplici gocce d’acqua, o membrane oleose – tenute insieme dalla tensione superficiale – che formavano ambienti vantaggiosi per l’autocatalisi di reazioni chimiche e lo sviluppo di enzimi. Una volta che le sostanze complesse hanno iniziato a svilupparsi all’interno di questi primitivi aggregati, essi hanno potuto fornire una base eccezionale per il lancio dello sviluppo dei replicatori. Nonostante, come osservato, sia molto difficile trovare traccia di questi processi primordiali, Schneider e Sagan (Schneider, Sagan, 2005) osservano che le possibilità di un’organizzazione simbiotica simile a quella proposta da Dyson – in cui le componenti inorganiche dimostrano lo sviluppo attivo di proprietà emergenti e incrementano la propria complessità tramite organizzazioni parassitiche e simbiotiche – aumenti esponenzialmente le possibilità statistiche di un’effettiva nascita abiogenetica della vita. 

Nello specifico, in Into the Cool (Schneider, Sagan, 2005), dove ampio spazio è dato alla trattazione della teoria di Dyson, i due autori elaborano la tesi essenziale per cui tutti i principi che solitamente si cercano come discriminatori del vivente siano perfettamente ravvisabili, in sostanza come in nuce, già all’interno dei processi fisici studiati dalla termodinamica dei sistemi in disequilibrio, osservando che forse la vita: «ha tanto in comune con altri sistemi complessi in disequilibrio che occorrono naturalmente da avere anch’essa, al suo cuore, nient’altro che una prosaica funzione di trasformazione dell’energia.» (Schneider, Sagan, 2005 p. XV).

Uno degli specifici problemi delle teorie basate sui risultati sperimentali nel wetware è che se queste sono necessarie per offrire dei mezzi adeguati per la comprensione dei fenomeni biologici del nostro mondo, queste sono tuttavia impossibilitate a dar conto dello sviluppo effettivo di fenomeni complessi come l’intelligenza. La ragione per questo è marcatamente temporale. La quantità di spazio ed energia offerta dal ventre di Gaia per la gestazione di questi fenomeni si trova su una scala infinitamente più vasta di qualsiasi possibile replicazione. Inoltre, per quanto poetico, è molto improbabile che chiunque di noi possa passare i prossimi 4 miliardi di anni a guardare il ricapitolarsi di tutte le tappe dello sviluppo della vita dentro una beuta. Questo perché anche volendo, la terra non ha a disposizione una vita così lunga, il che esclude ogni possibilità di Palingenesi per la vita come la conosciamo. 

 

Conclusioni

Qual è dunque, in conclusione, la differenza tra composto organico e materia vivente? Tra intelligenza e pareidolia? In base a cosa – nel continuum che li unisce e vicendevolmente li meccanizza e vivifica – è possibile trarre il confine?  

L’identità, come insegnano il Buddha e il paramecio, non è che un sogno vago. 

Dobbiamo a due miliardi di anni di alghe ossigenanti l’incredibile e drammatico svolgimento di quell’opera immane che in molte lingue abbiamo chiamato Terra, il cui corso ci tiene col fiato sospeso e che porta inscritta nel suo infinito passato l’ombra intangibile del nostro destino. Perché dovremmo allora presumere che l’ennesima rivelazione della nostra piccolezza, della vanità della nostra gloria fugace – che già Pindaro sapeva simile al breve giorno delle efemeridi –, dovrebbe farci versare lacrime amare quando la monotona esistenza di organismi infinitamente più semplici ha ordito la trama con cui intessiamo il mito della nostra immagine?

Samuel Butler immaginava la condizione estrema per cui padri e figli potessero essere considerati fratelli (Butler, 2012) supponendo che la vita continuasse a svilupparsi nella forma di un’unica, inesauribile memoria e che la coscienza stessa della nostra specie, lungi dal permanere come primato, sarebbe a sua volta divenuta inconscia, un automatismo all’interno del più ampio e complesso processo meccanico dell’inorganico. L’evoluzione è un processo egoistico senza ego, la cui espansione promana ben oltre ogni possibile barriera. 

L’umanità, come un singolo essere umano, muore ogni giorno. Ma se consideriamo quanti arditi antenati – il cui genoma abbiamo ereditato e ancora ci anima – sono morti prima di noi, quanti antenati trilobiti, pesci e topi abbiamo avuto, la cui memoria genetica, vista dallo spazio, non sarebbe diversa dal corso accelerato di un unico grande fiume che si dipana, si arresta, sembra svanire alla vista salvo riapparire in sorgenti nuove. Corriamo nell’alveo del medesimo fiume e non siamo che corrente, milioni di volte ci siamo già estinti in mille forme e mille volte lo faremo ancora. 

In questa prospettiva, pensare alla vita o all’intelligenza come proprietà è futile quanto illuminante, se ci si ferma a pensare a quanto spesso una proprietà sopravviva al suo proprietario.

La grande antropizzazione della terra, catalizzata e coincidente con la fase embrionale del mondo meccanico, non è poi diversa dal grande lavoro con cui, circa 560 milioni di anni fa, i vermi priapulidi hanno portato a quella che viene comunemente definita Rivoluzione Agronomica del Cambriano, scavando e manipolando con i loro corpi l’anossico fondale oceanico, per trasformarlo da una solida e uniforme distesa di cadaveri batterici solidificati nell’ambiente vitale e complesso che conosciamo (Vannier, Calandra et al. 2010). È interessante notare, tuttavia, che in questo processo, questi antichi minatori della vita, che avevano in comune con noi la planimetria tubolare che non poco ha contribuito a renderci quello che siamo, si sono estinti. La loro stessa opera li ha sotterrati. Ora, la domanda sarà cruda, ma cosa c’è di così diverso tra noi e i vecchi Priapulidi?

L’uomo non ha privilegi: sulla terra, come abbiamo visto, si potrebbe quasi dire che non sia nulla, è la biosfera che si espande. L’antropocene, nel grande schema delle cose, potrebbe tranquillamente non essere altro che un momento, un novello precambriano tramite il quale i nuovi colonizzatori dei mondi virtuali, o le intelligenze artificiali che verranno potranno contribuire, forse in maniera più savia di noi, al gigantesco meccanismo che è la vita planetaria. 

Prima di correre al fatalismo sarebbe necessario sottolineare che le stesse leggi browniane reggono la nostra coscienza, i gorghi e le galassie panspermie, che i processi fisici dai quali abbiamo avuto origine non sono iniziati con il nostro pianeta e non si arrestano con questo; non è la perla, prodotto di scarto di quel complesso sistema vivente che è l’ostrica, considerata da noi come una delle cose più belle del creato?

É perché dunque non dovrebbe essere questo il destino dell’umanità? Essere solamente un’onda in un più vasto oceano, svanire, lasciando di sé e delle sue glorie soltanto uno strato di salsedine sull’acuminata sordità della roccia? O forse persino quest’ultima visione del suo lascito come di una spora, destinata a fiorire in fogge nuove in terre nuove non è altro, a sua volta, che una mera consolazione? 

Se così fosse, si potrebbe dire che Turing ci abbia davvero visto giusto consigliando, tra tutte le consolazioni possibili, proprio la trasmigrazione delle anime.

 

 

Note

1Situato sulle Montagne Rocciose della Columbia Britannica, il giacimento fossilifero di Burgess Shale è un Lagerstatte, una formazione sedimentaria dalle caratteristiche particolarmente adatte ad arginare i processi putrefattivi che normalmente impediscono la conservazione delle parti molli durante la fossilizzazione. Nel 1909 fu sede della sensazionale scoperta di Charles Doolittle Walcott, che vi trovò un’impressionante quantità di animali estremamente primitivi, molti dei quali in buono stato di conservazione, risalenti alla prima parte dell’esplosione cambriana. In moltissimi casi, queste criptiche creature presentavano piani morfologici e forme con poco o nulla a che vedere con gli animali attualmente esistenti. É infatti particolare come, nonostante l’eccellente stato di conservazione, in moltissimi casi, come quello celeberrimo dell’Hallucigenia, la difficoltà trovata dagli scienziati sia stata quella di capire dove fosse il dritto o il rovescio dei calchi di queste creature. 

2Tornato recentemente alla ribalta grazie ad un articolo della NASA (Burchett, Elek, 2020), che ha messo in luce alcune inaspettate capacità di queste filamentose creature. Riescono a costruire modelli funzionali per studiare l’espansione altrettanto filamentosa dei cluster galattici che si spandono come foglie cosmiche a partire dagli invisibili rizomi di materia oscura, in quella che sembra una calzante dimostrazione del vecchio motto della tavola smeraldina per cui: quod est inferius, sicut est quod est superius.

3Altro famoso esempio a questo riguardo sono le Planarie, o vermi piatti. Dotate di sorprendenti capacità rigenerative, queste creature possono formare, similmente agli echinodermi, interi altri individui da parti del corpo mozzate. Ciò che le rende particolarmente affascinanti per lo studio della memoria è che, in molti casi, le parti del corpo che si trovano a rigenerare la testa e i gangli nervosi principali che da essa si dipanano mantengono la memoria dei comportamenti cui erano stati sperimentalmente condizionati, il che lascia supporre un meccanismo di ritenzione mnestica non direttamente dipendente dal cervello (Kentridge, 2007). 

4Con Protisti, nomenclatura originariamente proposta da Ernst Haeckel, si classificano, seppur in maniera piuttosto vaga, tutti quegli organismi Eucarioti – dalle cellule nucleate – che non sono Animali, Piante o Funghi.

5Con simbiogenesi o endosimbiosi si intende una forma estrema di simbiosi mutualistica – distinta dunque dal commensalismo e dal parassitismo, poiché entrambe le parti in causa traggono vantaggio dall’unione – tale da dare origine a un organismo completamente nuovo. La tesi principale sostenuta da Margulis è che la stessa origine degli organismi eucarioti, dunque, come si è detto, dotati di cellule nucleate, derivi da un originario processo simbiotico per cui batteri originariamente autonomi, una volta assimilati dagli achea – procarioti antichissmimi simili ai batteri per forma, antichità e dimensioni ma con diverse particolarità genetiche che li rendono più simili agli eucarioti che ai batteri stessi – anziché venir consumati hanno continuato a vivere utilizzando la membrana cellulare degli ospiti per protezione, specializzandosi fino a diventare mitocondri (Margulis, 2010). In questo senso, dunque, non ci sarebbe un vero e proprio “progresso evolutivo” all’interno del microcosmo, ma solamente diversi tipi e stati di interazione diversi in momenti diversi nel corso del tempo. Per usare una bella espressione di Gould «Non scapperemo mai dall’era dei batteri, ne siamo solo un’escrescenza accidentale» (Gould, 2007 p. 214).

6Non è un caso che la filosofa post-femminista Donna Haraway, che condivide con Lynn Margulis un solidissimo background nelle scienze naturali, abbia proposto nel suo famosissimo Manifesto Cyborg (Haraway, 1985)  proprio questo conturbante ibrido tra tecnologico e naturale come modello d’eccezione per imparare a pensare la soggettività tramite categorie non riducibili alle viete dicotomie Umano/Natura, Maschile/Femminile, mettendo in pratica la lezione che emerge dal microcosmo, che non conosce distinzioni ma solo nuove inter-relazioni.  

7Considerato da Lynn Margulis come uno dei precursori essenziali dell’Ipotesi Gaia – che per un lungo periodo le teorie endosimbiotiche sono state principalmente appannaggio della geologia e della biologia russe – questa posizione non è tuttavia condivisa dal suo collaboratore James Lovelock.

*Tutte le traduzioni di testi riportati in inglese nella prima e nella seconda parte sono state effettuate direttamente dall’Autore di questo contributo, che si prende la responsabilità di eventuali imprecisioni.

Pur non direttamente citata, va riportata come essenziale per la stesura del testo l’opera di George Dyson, figlio del citato Freeman Dyson: Dyson G. (2012) Darwin Among the Machines, Penguin Books, Londra.

 

 

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Alessandro Gelao

Ha completato gli studi magistrali in filosofia a Torino con una tesi in epistemologia delle scienze umane incentrata sulle prospettive che possono emergere da uno studio comparato tra i modelli tratti dalla cibernetica applicati alla psicanalisi, con particolare riferimento all’opera di Jacques Lacan, Anthony Wilden e Donna Haraway. A partire dal 2021 collabora come Speaker per l’associazione Eutopia, che si propone un progetto di divulgazione multidisciplinare sul tema della psichedelia e della salute mentale, all’interno della prospettiva teorica aperta da Thomas Szasz e Franco Basaglia.