Allə protagonistə  manca il contatto con la pelle di qualcun altro, vive in uno stato catatonico dovuto all’angoscia dell’attesa. La contemplazione muta del partner artificiale in costruzione lə conduce a una riflessione sulla natura del contatto, il relativo desiderio e la sua mancanza: si rende conto che, forse, è abituatə a toccare senza sentire. La sua indisponibilità affettiva, i pregiudizi verso sé stessə e l’altro e l’inconsapevolezza del suo disturbo non le permettono di percepire il contatto con l’altro. Spintə dal desiderio di una risposta, lə protagonistə decide di andare contro il parere degli specialisti e toccare la pelle del clone prima della sua completa formazione. Il contatto produce glitch sonori, sensoriali, visivi e mnemonici. Mano a mano che affonda il dito nella pelle gelatinosa della simmetria sintetica, si alternano immagini confuse e indefinite tra il sogno, i ricordi d’infanzia e le visioni di vita di qualcun altro. 

 

Stamattina ho avuto una lunghissima colazione. Ho preparato il solito caffellatte in quella tazza di porcellana. Con un movimento meccanico, dettato da un’abitudine ambientale, l’ho poggiata sulla mia solita postazione, precisamente sulla sponda del tavolo meglio illuminata dal sole delle 10.00. Ho preso posto, e incrociando entrambe le gambe sulla sedia mi sono messa in attesa. Alle 12.00 ho preso il primo biscotto, l’ho intinto nel caffellatte rompendo la pellicola che si era formata in superficie, passando circa tre minuti con le dita immerse per metà,nel latte gelido,lasciando che la pellicola prendesse la forma delle mie dita.  Completamente inconsapevole del tempo passato, ho comunque tentato un contatto prevedibile. Eppure quella stessa sorpresa, quel contatto tra le dita intorpidite, il latte gelido, la sua pellicola melmosa che si appiccica alla pelle e il biscotto che si disintegra tra il pollice e l’indice, per quanto spiacevole, non funzionale, disinteressata e distratta, mi aveva risvegliato dal torpore della mattinata, di giorni, forse anni. 

 

Mi alzo di scatto, quella colazione insolita mi ha dato ciò che desideravo, una nuova intuizione: io tornerò vergine grazie alla tua verginità. Anni di interazioni sbagliate, contatti affrettati, errori dovuti all’inesperienza, sovraesposizione tossica causata dalla mancanza di protezioni, tagli inflitti dalla sconsideratezza, ferite aperte mai risanate, tutto verrà cancellato dalla perfezione di un contatto studiato, calibrato in ogni singola cellula, programmato su vibrazioni e reazioni positive regolate sul gradiente di serotonina rilasciato all’impatto. Vergine come non lo sono mai statə, verginità come non è mai esistita. La verginità in fondo è un costrutto sociale, studiato dagli uomini per stabilire il valore di una donna. Quanti azzardi, danni e prospettive falsate ha creato un simile concetto astratto, affidato a un organo posseduto solo da un certo numero di persone. 

Quanto diverso sarebbe il concetto di verginità se fosse stato, da sempre, espanso non solo a tutti gli organi, ma a diversi generi di esperienza. La prima volta che hai sfiorato una mano, la prima volta che hai sentito nella musica o nella voce di qualcuno il richiamo di un suono ancestrale, la prima volta che hai sfiorato la texture ruvida di una foglia e hai realizzato di appartenere a una specie, oppure quando hai ritrovato la calma tra le braccia di qualcuno, quando un discorso profondo ha creato connessioni che non credevi di poter avere, quando guardare qualcuno o qualcosa allontanarsi ti ha fatto sentire che un pezzo di te sarebbe andato perso irrimediabilmente, quando hai allentato la presa per non rischiare la perdita definitiva, rubato un bacio, guardato qualcuno attraverso uno vetro sperando che come per magia si accorgesse del tuo sguardo e quello si è voltato. Ognuna di queste cose è la rottura di una membrana, un contatto piacevole che diviene intenso e doloroso, preludio di una rottura minima e gentile nella sua violenza. 

E così ho fatto, dall’altra parte della cupola di vetro che ti contiene. Ho stupidamente picchiettato le dita sul vetro, ho atteso che ricambiassi il mio sguardo. Ma non puoi, i tuoi occhi non sono completi. 

 

Sento la necessità di connessioni inedite, impulsi e reazioni elettriche che vanno al di là di un contatto goffo, stentato e programmato dalla cultura che mi circonda. Soffro all’idea di una scienza che replica corpi menomati dal principio, piuttosto che inventarne di nuovi in grado di insegnarci nuove tecniche di contatto erotico espanso. Esperienze di contatto che vanno al di là della loro effettività, che lasciano un’impronta somatica anche nella loro mancanza, che nell’impossibilità trovano altre strade soddisfacenti almeno il doppio di una scopata. 

La tua pelle non è completa, è uno strato gelatinoso trasparente dal fondo bruno e rossastro; è invitante, satinata, produce onde piacevoli alla vista, dovute agli elettrostimolatori che allenano i tuoi muscoli inermi. Affogo per lunghissimi minuti nella sua contemplazione, mi sovviene un ricordo che forse non ho, quando da creatura inesperta osservavo il mare senza sapere cosa fosse, il viso esposto alla brezza marina, immaginando un contatto primordiale richiamato dalla la memoria della pelle, non ancora toccata da nessun altro essere umano, generatasi in un’atmosfera destinata a non appartenerle mai più dopo la nascita. 

Perché bramiamo istintivamente quel contatto con la pelle altrui se l’atmosfera in cui ci formiamo non suggerisce alcun tocco umano? 

Gli elettrodi cominciano a pulsare più velocemente, mi illudo che stiano assecondando i miei battiti accelerati. Il grembo materno è l’ultima esperienza in cui la pelle è a diretto contatto con una voce, tramite la vibrazione del liquido amniotico. Si forma sulle note della voce della madre, del padre, di affetti sconosciuti e desiderati. Cassa di risonanza per un’esperienza primigenia che raramente potrà ancora essere provata. Toccare qualcuno o qualcosa e sentire che la sua presenza invade l’atmosfera intera. Vorrei essere sdraiatə su di te sulla tua pelle incompleta, respirare nella tua cupola, lasciare che il tuo corpo si formi sullo stampo della mia presenza, incidermi nella tua pelle così come sono ora, nella mia infelicità di animale smanioso in cattività, e non come frutto di un calcolo matematico che mi proietta in te come una versione perfetta e inesistente.

Sulla pelle vengono incise le nostre prime memorie, si stabilisce lo spazio e il peso delle cose intorno, si forma il pensiero ancor prima che questo possa essere formulato. E ben presto lo abbandoniamo prediligendo il linguaggio e la ragione. Forse abbiamo perso qualcosa mi dico da quando abbiamo preferito la vista al tatto, la ragione alla sensazione, la pornografia all’erotismo. Scala percettiva che infervora il mio desiderio di riformulare la mia memoria aptica.. Perché gli specialisti non mi hanno suggerito di parlarti mentre sei in costruzione? Forse ciò che temono di più è l’imprevisto sentimentale in un calcolo perfetto, e del resto non c’è alcunché di perfetto nel nascere. 

Alzo lo sportello di vetro. La condensa si dirada sul mio volto, è fresco misto all’odore pungente della carne macellata, come in una cella frigorifera. Sotto gli organi pulsanti intravedo per la prima volta il tuo scheletro metallico, che per un attimo mi riconduce alla realtà, facendomi dubitare del gesto inconsulto che sto per compiere. Ma prima che me ne renda conto il mio dito è sulla tua pelle. La superficie reagisce immediatamente a quel contatto inaspettato, in quel punto gli elettrodi si fermano lasciando un buco instabile come quello di una pietra che affonda in acqua. Una membrana si rompe, sottile come quella del latte tiepido lasciato all’aria. Un bruciore superficiale e deciso corre lungo tutto il mio braccio, uno shock improvviso che mi procura un dolore interiore ben più grande di quella sottile bruciatura. 

Ripugno il mio corpo, non vi appartengo. Ci voleva così poco per scoprirlo? Una leggera modifica temporanea di un equilibrio sbagliato? La manomissione di un ecosistema che vive e prolifera senza permesso alcuno? Sento che, per quanto doloroso, è assolutamente necessario. Il mio corpo così com’è non va bene, il tuo è sulla strada sbagliata. La simmetria umana è pura finzione. Ci sarà un motivo se siamo l’unica specie che è stata capace di rovinare quella naturale, per poi compiere acrobazie ingegneristiche per inventarne di nuove. Proliferiamo nella violenza della rottura, godiamo nell’eterna ricostruzione. È un adattamento continuo, un caleidoscopio di errori il cui meccanismo è la libera scelta, un passaggio tra corpi, una modifica perenne, un desiderio ininterrotto che trasuda dai pori e si diffonde nell’ambiente. A volte necessita solo di uno strappo. Proseguo nell’esplorazione dei tuoi strati, affondo il dito, a poco a poco sempre di più, fino a che non è immerso fino all’unghia. Il tempo si ferma, dandomi l’occasione di fermarmi, e invece proseguo. Anche il mio cuore sembra fermarsi. Benessere. Come una carezza sulla testa, le dita della persona che amo di più al mondo tra i capelli. La sua mano scivola lungo tutto il dorso, assecondando la linea della mia chioma e provocandomi un brivido fino alla punta dei miei numerosi arti. Guidati da quella mano che mi accarezza il volto e mi incoraggia a proseguire in quell’atmosfera sconosciuta, densa, pulita. I miei muscoli reagiscono al solo contatto vibrante con quella voce, e senza pensiero alcuno mi addentro nel liquido misterioso. 

Proseguo a tentoni, attraverso un corpo non mio, il cui unico motore è la fiducia sprigionata dal corpo. Proseguo nel mio affondo, immergo il dito sempre più. Ed è il vuoto. Un’angoscia senza nome si impadronisce dello stomaco, dei polmoni e infine del cuore. Una mancanza abissale si fa strada nei miei sensi, rabbiosa e ottusa, sbatte contro una gabbia elettrica che è l’unico impedimento verso quell’invalidante oggetto del desiderio. Bianco. Grigio. Rumore bianco. In lontananza un trillo elettronico che come un suono pavloviano mi riporta a quel sentimento di insoddisfazione e desiderio. Una voce inventata prende forma direttamente nel mio cervello: Ciao, come stai? È tanto che non ti sento, lo so che sei arrabbiatə ma non è colpa mia se non posso ancora incontrarti. Avevo preso i biglietti aerei per venirti a trovare ma l’alluvione ha bloccato tutti i voli, e non ho soldi per ricomprarli. Spero di vederti presto, ti prego perdonami –.  So che non sono idiozie, ma quel vuoto mi impedisce di ragionare lucidamente, l’unica cosa di cui sono certə è di essere stata privatə di una necessità fondamentale, di un contatto con qualcosa o qualcuno che racchiude la soluzione al mio male, e mi accontento di accarezzare quegli schermi bianchi e silenziosi di cui il mio cervello è stato tappezzato. Non sopporto più questa sensazione, e allora, involontariamente, aumento la forza del mio affondo, spingo il dito dentro di te più del dovuto, e questo si arena in una sostanza grassa e appiccicosa che immediatamente reagisce al contatto, avvolgendo il dito nella sua interezza. L’operazione è andata bene, presto sarà come nuovə sentenzia una voce diffusa nell’ambiente. Mi sento confusə e storditə, non desideravo invaderti in quel modo, provo solo un senso di colpa che mangia l’anima dall’interno. 

Sono consapevole di averti cercato tramite il contatto sbagliato, non ho capito nulla, ho affrettato le cose, in fondo non ci conosciamo e non sono nemmeno troppo sicurə che tu sia senziente. Perché arrogarmi il diritto di voler plasmare il tuo corpo secondo le mie volontà? Non volevo modificare il mio corpo, tantomeno il tuo desiderio, sono un vittimə come lo sei anche tu, perché continuiamo ad aprire chirurgicamente i nostri corpi per non ammettere di avere una percezione limitata del mondo? 

 

Trapasso la sostanza grassa, e non è più liquido, né solido, non è una materia riconoscibile. È eccitazione allo stato puro. Sei arrivatə! –,esclama una voce calda. Non rispondo. È passato tutto. Il dolore, la depersonalizzazione, l’angoscia e il senso di colpa, sono roba ormai vecchia di decenni. Ondeggio in un suono che non ha tempo, il mio corpo riconosce soltanto lo stimolo dei bassi che si scontrano con la mia pelle, i miei organi vibrano a contatto con i tuoi, divisi soltanto da un velo sottile di carne sensibile; rispondo ad un’esperienza mai vissuta di cui solo il corpo ricorda. 

è il contatto primigenio nel liquido amniotico, quello in cui la pelle forma il suo desiderio primordiale. 

Il mio dito ha cominciato ad andare avanti e indietro nella sostanza sintetica della tua pelle, ripercorrendo ogni strato, trasmettendo lungo i miei muscoli una scarica elettrica che contiene tutte le esperienze umane. 

Sto per venire e sento la tua pelle stringersi intorno al mio dito. Gli elettrostimolatori che allenano i tuoi muscoli si contraggono coordinandosi al crescendo del mio battito cardiaco. Nel momento dell’orgasmo hai rilasciato la scarica elettrica più forte che io abbia mai provato, il piacere più assoluto di cui l’essere umano possa fare esperienza. 

Nei secondi successivi all’orgasmo, sono un computer senza memoria che attende solo di essere riavviato, o un essere umano che si aggancia all’ultimo desiderio rimasto, consapevole che sta per morire. Immagino la morte come una resa pacifica, di quelle che ti riducono a un ultimo e unico bisogno infantile, che è anche il primo. Non ho più alcuna urgenza, nessuna smania, interrogativo o rimpianto. Ho distrattamente poggiato la mia mano sulla tua e la pelle non si è rotta, si è semplicemente adattata alla mia. Il contatto è stato stabilito, da adesso si può solo esplorare oltre, indagando nuovi modi di sentire che non hanno nulla a che fare con la limitatezza umana. 

Ho ascoltato in silenzio il suono metallico dei meccanismi e il rumore bianco degli elettrodi tornare al loro ritmo iniziale. Sullo schermo che monitora l’andamento della tua costruzione appare una scritta: 

 

Anomalia Rimossa. Parametri stabili. Per il ripristino è stato necessario modificare il codice sorgente. 

Il ciclo di vita ha ripreso a funzionare correttamente.  

 

Rosaria Murolo

Dopo la laurea in Arti Visive all’Accademia di Belle Arti di Brera, si è specializzata nella critica e nella curatela presso la Nuova Accademia di Belle Arti (NABA) di Milano. Attualmente scrive per Artribune ed è alla costante ricerca di nuove piattaforme in cui esprimere la trasversalità dei suoi interessi e sperimentare nuovi linguaggi.